antiepilèttico

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agg. e sm. (pl. m. -ci) [da anti-2+epilettico]. Farmaco usato nel trattamento delle epilessie. Storicamente i primi antiepilettici furono i bromuri, seguiti, all'inizio del Novecento, dal fenobarbitale. Successivamente, negli anni Cinquanta, fu scoperta l'attività antiepilettica della fenitoina. Quasi tutti i farmaci antiepilettici hanno una struttura chimica di base comune, costituita da una porzione arilacetammidocarbonilica che è di solito inglobata in un ciclo a 5 o 6 termini:

Tra questi troviamo: barbiturici (fenobarbitale, mefobarbitale) e idantoine (fenitoina, mefenitoina), usati contro il grande male; succinimmidi (fensuccinimmide, metosuccinimmide) e ossazolidindioni (trimetadione, parametadione), usati contro il piccolo male. Tra i farmaci antiepilettici non riconducibili alla suddetta struttura base ci sono la carbamazepina, l'acido valproico e alcune benzodiazepine (diazepam, clonazepam). È da sottolineare che, per lo più gli antiepilettici curano i sintomi della malattia, ma non le cause della stessa e che, per salvaguardare i pazienti dalla loro tossicità, si ricorre sempre più spesso al loro monitoraggio, cioè al controllo della quantità di farmaco presente nel sangue e del tempo necessario alla sua eliminazione. Negli ultimi anni del sec. XX, pur non essendo stati individuati nuovi farmaci da utilizzare nel trattamento dell'epilessia, sono stati compiuti notevoli progressi per quanto riguarda un impiego più efficace e, soprattutto, più sicuro delle sostanze già a disposizione per l'uso clinico. In tal senso, un capitolo importante riguarda lo studio dei rischi connessi alla somministrazione di antiepilettici durante la gravidanza: i dati suggeriscono l'opportunità di non sospendere la terapia con questi farmaci nel corso della gestazione.

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