Chaplin, Charles Spencer
IndiceBiografia
Attore e cineasta inglese (Londra 1889-Corsier-sur-Vevey, Ginevra, 1977). Tra i più grandi del cinema del nostro tempo, è certo più popolare con il nomignolo di Charlie o Charlot. Venuto dalla miseria degli slums londinesi e da una scuola familiare di pantomima, fantasista ambulante nella troupe di Fred Karno, approdò a Hollywood a 23 anni per interpretare dal 1914 una serie di film comici settimanali per la Keystone, la ditta di Mack Sennett. Qui il mingherlino e cattivello “Chas” inventò “Charlie”, l'omino dai pantaloni troppo larghi, dalle scarpe troppo lunghe, dai baffetti a spazzola, stretto in una giacchetta lisa e galante, con una bombetta scarsa e dignitosa e un bastone di bambù sfrontato e brioso. Ma l'ispirazione di questo vagabondo gli era nata all'interno del mondo anglosassone, quale sintesi di snob declassati e di cocchieri brilli osservati a Londra, in parte quale epigono di un mondo dickensiano. Un carattere legato inoltre all'anima ebraica, all'ebreo errante e “paria” di tanta letteratura yiddish, che si esprime con l'arte mimica come tanto teatro del tempo, che vive come se fosse costantemente in un ghetto, posseduto dall'eterna paura di un nemico secolare, simboleggiato dal poliziotto da cui si salva ogni volta con gli ironici sgambetti dell'ingegno. Né eroe né santo, ma un misto d'innocenza e di malizia: tale il personaggio immortale che Chaplin affinò e perfezionò di comica in comica, attraverso i periodi Keystone (1914), Essanay (1915), Mutual (1916-17), First National (1917-23), introducendovi la nota patetica (il primo classico finale di Charlot che si allontana solo all'orizzonte risale all'aprile 1915), approfondendolo con il dramma e la polemica sociale. Per ottenere ciò divenne presto il regista di se stesso e lo scrittore di tutte le sue trame, si formò un'équipe di fedeli ai quali rimase sempre legato, non volle esser schiavo del pubblico cui impose sempre la propria arte comica e il proprio impegno morale. Nel 1919 creò con altri “grandi” la United Artists (o Artisti Associati) per garantirsi l'indipendenza artistica. Mentre le gags si facevano sempre più fertili e irresistibili nelle sue comiche (La bottega dell'usuraio con lo smontaggio dell'orologio), contemporaneamente più acuta diventava la sua malinconia (Il vagabondo), più incisive le puntate satiriche e sociali (La strada della paura, L'emigrante, Vita da cani, Charlot soldato).
Charles Spencer Chaplin con l'Oscar alla carriera nel 1972.
De Agostini Picture Library
Charles Spencer Chaplin mentre firma l'atto di costituzione dell'United Artists nel 1919.
De Agostini Picture Library
Charles Spencer Chaplin in un fotogramma del film Vita da cani (1918).
De Agostini Picture Library/U. Casiraghi
Charles Spencer Chaplin nel film Il monello (1921).
De Agostini Picture Library
Charles Spencer Chaplin in La febbre dell'oro (1925).
De Agostini Picture Library
Charles Spencer Chaplin in un fotogramma del film Luci della città (1931).
De Agostini Picture Library
Charles Spencer Chaplin nel film Tempi moderni (1936).
De Agostini Picture Library
Charles Spencer Chaplin in Il grande dittatore (1940).
De Agostini Picture Library/N. Porta
Charles Spencer Chaplin in Luci della ribalta (1952).
De Agostini Picture Library
Charles Spencer Chaplin nel film Un re a New York (1957).
De Agostini Picture Library/U. Casiraghi
Opere
Nel 1921 Il monello (evocazione della propria infanzia) e nel 1923 Il pellegrino (un attacco al tartufismo) furono ancora film brevi (rispettivamente 6 e 4 bobine).Dopo una parentesi registica di omaggio a Edna Purviance, sua compagna in tanti cortometraggi – Una donna di Parigi (1923) in cui egli non comparve al suo fianco come protagonista – Chaplin diede il via ai “classici”, dei quali alcune delle opere citate costituivano più che un anticipo. Realizzò La febbre dell'oro (1925), poema epico con venature da tragedia greca, basato sul contrappunto tra la frenetica caccia collettiva alla ricchezza e la solitudine sentimentale del piccolo indifeso sognatore; poi Il circo (1928), girandola inesauribile di lazzi e di mimiche prodigiose, a nascondere la disperazione di una vita privata sottoposta a malvagi attacchi pubblici; quindi Luci della città (1931), sonoro ma non parlato (Charlot, sosteneva, non può parlare) come il successivo Tempi moderni(1936): dedicati entrambi ai mali della società capitalistica “prospera” e “giusta”, che con la meccanizzazione intensifica lo sfruttamento dell'operaio. Satira del nazismo e del fascismo fu invece Il grande dittatore (1940), in cui Charlot, spinto dalla storia a camuffarsi da Hitler, ci dava il suo grande addio con un discorso di sei minuti rivolto all'umanità. Nel dopoguerra il personaggio si trasformò: in Monsieur Verdoux (1947), che per sopravvivere uccide, in un mondo in cui solo lo sterminio in massa è glorificato; in Calvero, il vecchio clown di Luci della ribalta(1952) che non fa più ridere, ma salva ancora la dignità dell'essere umano; in Un re a New York (1957) dove, dall'Inghilterra, Chaplin fa i conti col maccartismo che l'ha costretto all'esilio svizzero. Seguì nel 1966 un secondo e ultimo film inglese, La contessa di Hong-Kong, che nulla aggiunse alla sua gloria, mentre già l'Autobiografia scritta, uscita due anni prima, era sembrata inferiore all'effettiva portata della sua lunga presenza cinematografica. Dopo vent'anni di lontananza, Chaplin tornò negli Stati Uniti poco prima del suo 83º compleanno a ricevervi un Oscar onorario.
Bibliografia
M. Bessy, G. Sadoul, Vita di Charlot, Torino, 1952; Th. Huff, Charlie Chaplin, Milano-Roma, 1955; G. Viazzi, Chaplin e la critica, Bari, 1955; A. Solmi, Tre maestri del cinema: Dreyer, Clair, Chaplin, Milano, 1956; P. Leprohon, Charles Chaplin, Parigi, 1957; M. Martin, Charlie Chaplin, Parigi, 1966; R. Jotti, Il grande Charlot, Padova, 1967; F. Savio, Il tutto Chaplin, Venezia, 1972; D. Robinson, Chaplin. La vita e l'arte, Venezia, 1987.