èquo cànone
somma che nei contratti di affitto per i fondi rustici in regime di blocco doveva essere proporzionale alla produttività del terreno. Introdotto nel 1936, fu ridefinito con interventi legislativi nel 1945 e 1947. Una nuova disciplina dell'equo canone fu stabilita con la legge 12 giugno 1962, n. 567. La normativa ha poi subito ulteriori modifiche per quanto concerne la determinazione dell'ammontare del canone e il suo adeguamento alla dinamica inflazionistica. La legge 27 luglio 1978, n. 392, aveva introdotto l'equo canone nella locazione degli immobili urbani. Tale legge aveva posto fine al regime vincolistico e aveva dettato una nuova disciplina del rapporto locativo, prevedendone la durata, la possibilità di sublocazione, di scioglimento, di successione nel contratto. Era previsto un meccanismo di aggiornamento e adeguamento del canone, accanto a disposizioni concernenti la risoluzione giudiziale delle controversie tra locatore e conduttore. Successivamente era stata introdotta la disciplina dei cosiddetti patti in deroga con il decreto legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359. Di fronte alla corresponsione di un canone di locazione maggiore rispetto a quello cosiddetto equo, veniva introdotta una durata del contratto garantita per i primi otto anni (quattro più quattro). La crisi dell'istituto si è andata tuttavia accentuando in quanto l'esecuzione dei provvedimenti di rilascio per finita locazione di immobili adibiti o meno a uso di abitazione è stata più volte sospesa per mezzo di provvedimenti legislativi, segno inequivocabile di una ormai indilazionabile riforma del sistema. La riforma, avviata in Parlamento con un disegno di legge presentato dall'onorevole Storace il 13 maggio 1996, si è concretizzata nel 1998 con l'approvazione della legge 9 dicembre 1998, n. 431 e si è ispirata, tra l'altro, alla necessità di rivitalizzare un mercato che da troppi anni ristagnava a causa della mancanza di sufficiente offerta di immobili a uso abitativo, dovuta soprattutto alle difficoltà, per i proprietari, di rientrare nella disponibilità dell'appartamento alla scadenza del contratto. Per cercare di raggiungere tale risultato il legislatore ha inciso in modo profondo rispetto alla legge del 1978 prevedendo la possibilità di liberalizzazione del canone locatizio (contratto libero), la certezza della durata del rapporto e anche alcuni incentivi di natura fiscale, nel solo caso – però – che il locatore aderisca alla stipula di contratti-tipo con fissazione di un canone prestabilito sulla base di appositi accordi – definiti in sede locale tra le organizzazioni della proprietà edilizia e le organizzazioni dei conduttori maggiormente rappresentative – che tengano conto di parametri oggettivi, quale per esempio la rendita catastale dell'immobile (contratto regolamentato). Quanto alla durata, per i contratti cosiddetti liberi, è stabilita in quattro anni più altri quattro, salvo alcuni casi espressamente stabiliti dalla legge. Nel caso di contratti regolamentati la durata è di tre anni, più due nel caso in cui, alla prima scadenza, le parti non concordino sul rinnovo. Viene previsto inoltre un tipo di contratto di natura transitoria, volto a soddisfare particolari esigenze delle parti, con durata anche inferiore ai limiti suddetti. Per ciò che riguarda l'introduzione di agevolazioni di natura fiscale, relative ai contratti-tipo, esse riguardano la facoltà per i comuni di diminuire, a carico del proprietario, l'aliquota dell'imposta comunale sugli immobili (ICI) e la riduzione dell'incidenza fiscale di Irpef, Irpeg e imposta di registro. Altra non meno importante novità è l'introduzione dell'obbligo della forma scritta per la stipula di contratti di locazione validi. Tale innovazione è volta a stabilire in modo chiaro e certo la sussistenza del rapporto locatizio e la legge prevede, in caso di sua inosservanza, la reductio ad aequitatem del rapporto con applicazione del canone del contratto regolamentato. Vengono invece sottratte all'ambito di applicazione della nuova legge, e quindi restituite alla regolamentazione delle norme del Codice Civile, le locazioni degli immobili vincolati ai sensi della legge 1° giugno 1939, n. 1089 (beni di particolare interesse storico o artistico), le abitazioni di tipo signorile, le abitazioni in ville, mentre si applica la normativa vigente, statale e regionale, agli alloggi di edilizia residenziale pubblica. Vi è poi un altro gruppo di immobili, che il legislatore considera a parte, data la loro peculiare destinazione, in cui rientrano gli alloggi destinati esclusivamente per finalità turistiche e quelli destinati a soddisfare esigenze abitative di carattere transitorio in cui gli enti locali figurano in qualità di conduttori. La legge n. 431, inoltre, istituisce un Fondo nazionale per il sostegno all'accesso alle abitazioni in locazione da parte dei soggetti meno abbienti, prevedendo l'erogazione di contributi in misura variabile, e soddisfacendo l'esigenza, avvertita da tutte le parti sociali, di sostenere le categorie più bisognose. L'articolo 7 della nuova legge, infine, nel testo approvato dal Parlamento, stabiliva quale condizione per la messa in esecuzione del provvedimento di rilascio dell'immobile, la dimostrazione della registrazione del contratto, della denuncia dell'immobile ai fini ICI e che il reddito derivante dalla locazione fosse stato dichiarato ai fini delle imposte sui redditi. Tale dimostrazione era soddisfatta indicando nel precetto di rilascio gli estremi delle operazioni relative a ciascuna condizione. La Corte costituzionale, però, con la sentenza n. 333 del 2001, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale delle norme contenute nel suddetto articolo 7 che perciò non è più in vigore.