Amèrica
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Sf. [sec. XVI; dal nome di Amerigo Vespucci]. Parte del mondo formata da due masse continentali (America Settentrionale e America Meridionale) unite fra loro mediante una lunga e stretta regione istmica che, con i festoni insulari delle Antille, costituisce l'America Centrale. Nella lingua comune, oltre che l'intero continente, il termine designa, per antonomasia, gli Stati Uniti d'America. L'America rappresenta meno di un terzo delle terre emerse e corrisponde a ca. la metà del Continente Antico, estendendosi per 42.082.483 km²; ospita ca. 1.001.463.142 ab. (2016), cioè un settimo della popolazione mondiale, ma negli ultimi trecento anni la sua popolazione è aumentata di oltre 50 volte, mentre l'umanità si è moltiplicata, “soltanto”, 10 volte. Ciò che contraddistingue l'America a uno sguardo generale è la grande varietà dei suoi ambienti, la dimensione poderosa della sua geografia. A ciò contribuisce la particolare configurazione in quanto, diversamente dagli altri continenti, l'America si sviluppa quasi su un intero arco terrestre, si estende cioè dall'una all'altra parte delle due regioni polari. La denominazione “America” si applica globalmente all'intero continente e ciò perché in origine e per lungo tempo essa fu considerata una terra a sé, unitaria, esclusivamente un “nuovo mondo”. In effetti America Settentrionale e America Meridionale ripetono certi motivi strutturali, rintracciabili nel contorno espanso a N che si assottiglia verso S, nella presenza di bassopiani al centro, di massicci antichi sul lato orientale, di sistemi montuosi giovani nella sezione volta al Pacifico, tutti motivi cioè che rivelano una vicenda geologica comune, anche se molto dissimili sono gli ambienti naturali delle due parti. Culturalmente si tratta di due mondi che hanno elaborato in modo diverso la civiltà europea introdotta forzatamente in quelle terre nuove. Diversità che riflette non solo le varie condizioni dell'Europa all'epoca della graduale scoperta del continente, ma anche due atteggiamenti umani tipici dei popoli anglosassoni e latini. Queste due parti che hanno avuto sviluppi storici e culturali autonomi sono perciò considerate distintamente, così come distintamente è esaminata dal punto di vista fisico la sezione che le divide, l'America Centrale (la cui trattazione riguarda per molti legami fisici anche il Messico), considerata invece dal punto di vista umano ed economico parte integrante dell'America Meridionale. Caratteristica fondamentale dell'America resta però il suo isolamento rispetto al Continente Antico che ne ha condizionato l'originalità degli sviluppi umani e culturali. Proprio per il suo isolamento, in America la comparsa dell'uomo è avvenuta in tempi relativamente recenti: finora, infatti, non si hanno indizi che permettano di ammettere l'esistenza di una forma umana o umanoide autoctona. La storia geologica del continente americano indica che il minimo livello del mare, almeno per quel che riguarda la zona dello stretto di Bering, fu raggiunto (secondo alcuni studiosi) ca. 40.000 anni fa, durante l'oscillazione dell'ultima glaciazione americana che prende il nome di Wisconsin II. In rapporto a questo abbassamento del livello marino, si sarebbe formato, fra Siberia e Alaska, un ponte continentale di ca. 2000 km di larghezza. Poiché non esistono tracce di uomini fossili più antichi di questo periodo, oggi si è propensi ad ammettere che l'uomo sia penetrato in America in ondate successive, fra 40.000 e 20.000 anni fa, proprio attraverso lo stretto di Bering e di lì si sia diffuso in tutta l'America; si è fatta l'ipotesi di un popolamento anche attraverso il Pacifico meridionale, ma gli studi fatti in questo senso non hanno ancora comprovato tale eventualità. In ogni caso il continente americano, nel suo complesso, mantiene i caratteri del dualismo fra America anglosassone e America latina, ripartizione che appare più consona all'interpretazione dei fenomeni geografico-economici rispetto a quella convenzionale (America Settentrionale, Centrale e Meridionale) legata alla forma del continente stesso, pur se, anche all'interno di ciascuna delle due partizioni, non mancano diversità notevoli. Per l'America anglosassone, si pensi alle tentazioni secessionistiche che in passato riaffioravano nella componente francofona della popolazione canadese, alle rivendicazioni delle pur minoritarie componenti autoctone (per esempio gli Inuit, ancora in Canada) o alle mai del tutto sopite tensioni razziali negli Stati Uniti, alimentate da un'immigrazione (dal Messico e dall'America Centrale) pressoché irrefrenabile. Per l'America Latina, estesa dalle latitudini subtropicali dell'emisfero boreale a quelle subpolari dell'emisfero australe, bisogna considerare le enormi differenze di popolazione e di risorse, i ritmi di crescita fortemente divaricati e l'ampio ventaglio di condizioni fisiche. A ogni modo, è certamente molto più netto lo stacco fra i due subcontinenti, efficacemente rappresentabile attraverso un indicatore che, dal 1990, l'ONU ha ritenuto di elaborare nel tentativo di fornire un'immagine globale dello sviluppo, non più legata al solo reddito pro capite. Tale indicatore, definito appunto “indice di sviluppo umano”, è costruito su dati significativi del livello di sanità (speranza di vita alla nascita), di istruzione (analfabetismo e grado scolare complessivo) e di ricchezza (prodotto interno lordo per abitante, tuttavia ponderato dalla valutazione del reale potere d'acquisto e di soglie significative per il passaggio dalla povertà a un benessere almeno relativo: per esempio, 2000 dollari annui). Ebbene, Canada e Stati Uniti il 13° e il 15° posto della graduatoria mondiale, rispettivamente con lo 0,922 e lo 0,920, del valore espresso in millesimi, mentre fra i Paesi dell'America Latina, , le posizioni più elevate si trovano42° (Cile) e 48° (Argentina) per passare al 56° e 57° di Barbados e Uruguay, il 79° del Brasile e via scemando oltre la 100ª posizione. Nulla a che vedere, certamente, con situazioni di sottosviluppo come quella africana, dove quasi tutti i Paesi si trovano al di sotto dello 0,500; ma una condizione ugualmente lontana dalle ottime potenzialità, anche in considerazione dell'elevata tradizione culturale e capacità economica delle popolazioni immigrate, soprattutto dall'Europa, che hanno costituito il fulcro di alcuni grandi Stati latino-americani. Un divario, tuttavia, che mostra possibilità di superamento nella misura in cui sapranno effettivamente realizzarsi le crescenti tendenze all'integrazione (si veda, su tutti, il tentativo animato dal presidente brasiliano Lula di istituire, con il MERCOSUR, un'area di libero scambio latino-americana che nel 2019, dopo oltre vent'anni di negoziati, ha siglato un accordo di libero scambio con la UE che prevede un abbassamento dei dazi doganali per favorire la circolazione di beni e merci tra le due aree) e la migliore organizzazione del territorio, fondata su una più diffusa urbanizzazione di cui si avvertono i primi sintomi.
America. Veduta di Rio de Janeiro in Brasile.
De Agostini Picture Library/G. Sioen
America. Veduta di Goosenecks nello Stato dell'Utah.
De Agostini Picture Library/P. Viola
America. Veduta aerea del Glacier National Park nel Montana.
De Agostini Picture Library/G. Sioen
America. Un tratto della costa californiana presso Big Sur.
De Agostini Picture Library/G. Sioën
America. Veduta del villaggio di Duriqui sulle sponde del Lago Titicaca in Bolivia.
De Agostini Picture Library/G. Sioën
America. Sezione della Death Valley in California, uno dei luoghi più aridi del continente americano.
De Agostini Picture Library/G. Canuti
America. Veduta delle Cascate del Niagara nello Stato di New York.
De Agostini Picture Library/G. Mermet
America. La confluenza del Paraná nel RÃo de la Plata.
De Agostini Picture Library/N. Cirani
America. Il Saguaro National Monument nel deserto di Sonora (Arizona), caratterizzato dal cosiddetto chapparral, formazione arbustiva tipica dei territori aridi.
De Agostini Picture Library/G. Sioën
America. Veduta dal Dead Horse Point nel Utha-Canyon and National Park.
De Agostini Picture Library/M. Abate
America. Campo di cereali nell'Oregon.
De Agostini Picture Library/G. Sioën
America. Veduta suggestiva di Yellowstone nel Parco Nazionale del Wyoming.
De Agostini Picture Library/W. Buss
America. Capo indiano sioux.
De Agostini Picture Library/M. Bertinetti
America. Capi Sioux in una foto del 1877.
Farabolafoto
America. Tipo umano andino dell'Ecuador.
De Agostini Picture Library/G. Sioën
America. Totem indiano.
De Agostini Picture Library/M. Bertinetti
America. Veduta del ponte di Manhattan nella città di New York (2000).
De Agostini Picture Library/G. Sioen
America. Veduta della spiaggia di Long Island a New York.
De Agostini Picture Library/Degrandi
America. Veduta della città di Filadelfia.
De Agostini Picture Library/G. Mermet
America. Un momento cruciale di una partita di football, sport molto in voga nella cultura nordamericana.
De Agostini Picture Library/Bertinetti
America. Una veduta di Rio de Janeiro.
De Agostini Picture Library/G. Sioën
America. Cerealicoltura con sistemi di irrigazione nelle campagne a nord di Denver (U.S.A.).
De Agostini Picture Library/PubbliAerFoto
America. Allevamento del bestiame nello Stato del Montana.
De Agostini Picture Library/G. Sioen
America. La spedizione messicana di H. Cortés in una miniatura del codice Azcatillan (sec. XVI; Parigi, Bibliothèque Nationale).
De Agostini Picture Library
America. Veduta della Monument Valley in Arizona.
De Agostini Picture Library/G. Sioen
America. Bisonti al pascolo.
De Agostini Picture Library/F. Bernini
America. La piramide della Luna a Teotihuacà n, città precolombiana in Messico.
De Agostini Picture Library/G. Dagli Orti
America. Tramonto sulla città texana di Dallas.
De Agostini Picture Library/S. Gutierrez
America. Veduta notturna della cupola del Campidoglio a Washington.
De Agostini Picture Library/G. Mermet
America. Maschera con mosaici di corallo e turchesi proveniente da Teotihuacán (sec. III-IX, Città del Messico, Museo Nazionale di Antropologia).
De Agostini Picture Library/G. Dagli Orti
America. Il tempio di Kukulcan (sec. XI) a Chichén Itzá, in Messico.
De Agostini Picture Library/G. Dagli Orti
America. Veduta suggestiva di un quartiere in stile vittoriano nella città di San Francisco in California.
De Agostini Picture Library/ G. Sioen
America. Pierino e il lupo di B. Shahn (New Haven, Collezione privata).
New Haven, Collezione privata
America. Juarez e la costituzione del 1857 , murale di D. Rivera nel Palazzo Nazionale di Città di Messico.
De Agostini Picture Library/M. Seemuller
America. Momento di un rodeo.
De Agostini Picture Library/F. Bernini
America. Carro allegorico in allestimento per una sfilata del carnevale di Rio de Janeiro.
De Agostini Picture Library/G. Sioën
Lineamenti geomorfologici: America Settentrionale
L'America Settentrionale ha una struttura geologica ben delineata . Essa ha il suo elemento basilare nel cosiddetto Scudo Canadese (o laurenziano), massa continentale archeozoica, stabile e irrigidita, con le superfici peneplanate da successive erosioni, le ultime delle quali furono dovute alle glaciazioni pleistoceniche. Lo scudo affiora con le sue rocce cristalline, granitiche e scistose, in tutta la sezione orientale canadese, fino ai Grandi Laghi, e rivela caratteristiche analoghe allo Scudo Baltico, con il quale era un tempo saldato a formare la massa primordiale della Laurasia, da cui si è separato con un moto di “deriva” che le interpretazioni della formazione dei continenti sembrano riconfermare. Allo Scudo si giustappone, sul lato sudorientale, separato dalla fossa tettonica del fiume San Lorenzo, il sistema montuoso degli Appalachi, serie di pieghe e di massicci isolati con un orientamento generale da SW a NE, la cui origine si connette all'orogenesi caledoniana. Gli Appalachi, che sono venuti definendosi in seguito a successive crisi orogenetiche perdurate sino al Permiano, sono montagne dal profilo maturo, le cui sommità non superano che eccezionalmente i 2000 m s.m. nei monti Allegheny: pur conservando ancora ben marcati i loro lineamenti tettonici, si presentano con un avanzato grado di peneplanazione e intorno a essi si stendono ampie superfici pedemontane alluvionali, che sono all'origine della morfologia costiera atlantica. Sul versante opposto invece gli Appalachi digradano verso una regione interna pianeggiante, estesissima, che rappresenta sostanzialmente la continuazione dello scudo archeozoico. Questa regione, formante le cosiddette Interior Plains (le Pianure Centrali), fu soggetta a persistenti ingressioni marine fin dal Paleozoico; sia pure con limiti variabili, il mare vi formava una profonda rientranza: la grande falcatura del Golfo del Messico corrisponde all'ultima regressione marina continentale, la quale ha anche discoperto i bassi fondali marini, che hanno dato origine alla Florida. Le formazioni sedimentarie che coprono le pianure interne risalgono a epoche diverse, ma soprattutto al Mesozoico e al Cenozoico; esse sono ricoperte a loro volta dai più recenti strati alluviali e diluviali, modificati nella parte più settentrionale dal glacialismo, che ha lasciato caratteristici accumuli morenici (i drumlins), mentre vaste aree di sedimentazione eolica (Löss) si sono originate nelle fasi postglaciali. A W delle grandi depressioni interne il subcontinente nordamericano presenta le strutture nuove, recenti, costituite dal sistema delle Montagne Rocciose: una serie di altopiani, di bacini depressionari e di grandi pieghe d'orientamento meridiano, che si connettono sostanzialmente all'orogenesi cenozoica. Le cime più elevate superano i 4000 m s.m. e dominano caratteristici altopiani tabulari, come quello del Colorado inciso da spettacolari solchi fluviali (Grand Canyon). Il sistema si spegne sulla costa del Pacifico con una catena (Coast Range) che orla tutta l'America Settentrionale e che si sviluppa parallela a un più interno ed elevato allineamento montuoso culminante nella Sierra Nevada (4418 m). Verso N le Montagne Rocciose formano il caratteristico gomito che dà luogo, in Alaska, alla sezione montuosa più elevata del subcontinente, con vette superiori ai 5000 m s.m. (Denali, 6194 m), e terminano infine nella lunga appendice insulare delle Aleutine. Lungo la costa del Pacifico l'America Settentrionale ha la sua area geologicamente non ancora assestata, specie tra l'Alaska e le Aleutine: il vulcanesimo, che si connette alla “cintura di fuoco” del Pacifico, è attivo e frequenti sono anche le manifestazioni sismiche rivelatrici d'una attività tettonica non ancora placata e talora di grandi proporzioni (come nel caso della “faglia vivente” di Sant'Andrea, che provocò il famoso terremoto di San Francisco nel 1906 e che anima uno dei peggiori incubi degli abitanti di Los Angeles e di tutta la California: il temibile Big One). Complessivamente poco più del 30% dell'America Settentrionale è al di sopra dei 1000 m d'altitudine, ma il rilievo non assume mai, tranne in Alaska, forme molto aspre e nelle Montagne Rocciose in particolare le catene sorgono al di sopra dei vasti altopiani tabulari, sia sedimentari sia vulcanici, in modo che le linee orizzontali prevalgono ovunque, indice anche della vastità degli spazi. In rapporto al rilievo le coste presentano forme diverse da parte a parte. Sul lato atlantico dominato dagli Appalachi l'elemento di maggior spicco è la serie di grandi estuari (baie di Hudson, Delaware, Chesapeake), che sono il risultato di un'ingressione marina postglaciale, che più a N ha dato origine agli arcipelaghi canadesi. Ma l'insenatura più profonda è rappresentata dall'estuario del San Lorenzo, vera porta d'ingresso del subcontinente data la sua connessione col sistema idrografico dei Grandi Laghi. Le coste atlantiche settentrionali sono essenzialmente determinate dalle forme dello scudo che, con le sue superfici basse, modellate dal glacialismo, ha creato contorni estremamente articolati e complessi. Alla baia di Baffin si affaccia la costa occidentale della Groenlandia, che fa da ponte tra l'America Settentrionale e l'Europa. Sul Golfo del Messico si hanno coste basse, morfologicamente determinate dall'azione del mare che ha dato origine a cordoni sabbiosi lungo tutto il perimetro della Florida, fenomeno che si ripete sulla stessa facciata atlantica interessata dalla pianura alluvionale che orla la zona pedemontana degli Appalachi. Il Golfo del Messico è dominato dal grande apparato deltizio del Mississippi, uno dei più estesi della Terra e in progressiva espansione. Le coste del Pacifico risentono dell'orientamento delle catene periferiche e delle rotture di continuità che le caratterizzano: ciò è all'origine sia della frammentazione insulare e dei bracci di mare che separano le isole (come Vancouver) dal subcontinente, sia di tipiche rientranze come la splendida baia di San Francisco. Elemento singolare sempre lungo il Pacifico è la penisola di California, estrema appendice della Catena Costiera.
Lineamenti geomorfologici: America Centrale
Con il nome di America Centrale non si dà certo conto dell'originalità e particolarità che caratterizzano la geografia fisica di questa parte dell'America . Strutturalmente essa rappresenta la sezione divisoria e instabile delle due grandi masse continentali, ed è costituita dalle terre istmiche e da quelle insulari raccolte entro un ampio mare chiuso che si può definire “mediterraneo” americano. L'America istmica continua e funge da elemento di raccordo dei due grandi sistemi montuosi cenozoici delle Montagne Rocciose e delle Ande, ma orograficamente si presenta molto varia. Nel Messico essa è formata da due catene che chiudono zolle rigide dislocate verticalmente e costituenti un altopiano posto a quote di poco inferiori ai 2000 m s.m. Dopo il nodo orografico del Messico centrale (l'Anáhuac) dominato da vulcani che si spingono sin oltre i 5000 m s.m., si passa alla sezione istmica vera e propria che già nella sua conformazione a grande S rivela come orogeneticamente si tratti d'una regione instabile, a uno stadio ancora giovanile. Il vulcanesimo è qui ovunque manifestazione caratteristica di tale condizione. Si riconoscono diversi allineamenti vulcanici, più o meno giovani; quelli pleistocenici di più recente origine si trovano sul lato esterno verso il Pacifico. Molti di essi dominano elevati altopiani (come nel Guatemala), bacini di sprofondamento (come nel Nicaragua), zone di frattura. Oltre Panamá, che corrisponde al massimo attenuamento dell'istmo, le cordigliere sono formate da lievi piegamenti e si allacciano ai primi e più erti rilievi andini. L'America Centrale insulare è tutta compresa nel “mediterraneo” più sopra definito. È un mare molto tormentato geologicamente e di ciò sono riflesso gli stessi arcipelaghi che esso ospita. I fondali sono vari e irregolari, rivelano l'instabilità strutturale già riscontrata nell'istmo a cui sostanzialmente l'America insulare si collega. Il legame si ritrova nella continuità geologica di alcune zolle antiche, paleozoiche e prepaleozoiche, situate nella parte istmica e nelle antistanti Grandi Antille. Per il resto si tratta di terre giovani, formate da rocce sedimentarie mesozoiche e cenozoiche emerse in seguito alle crisi orogenetiche del Cenozoico dando origine ai rilievi che formano l'ossatura delle Grandi Antille e che continuano negli archi insulari delle Piccole Antille. Questi archi, di cui uno, il più interno, è sormontato da edifici vulcanici, si saldano alla massa continentale nelle catene che bordano la costa venezolana. L'instabilità della regione insulare è data dal vulcanesimo attivo (memorabile l'eruzione della Montagne Pelée nella Martinica nel 1902), ed è indicata in altro modo dalla fossa sottomarina delle Cayman, nonché dall'intensa attività tellurica riscontrabile in tutta l'area (come per esempio nella forte scossa del gennaio 2010 ad Haiti). Oltre gli archi antillani che chiudono il Mar delle Antille si hanno, nell'area delle Bahama, bassi fondali sedimentari che si connettono ai tavolati calcarei della Florida.
Lineamenti geomorfologici: America Meridionale
L'America Meridionale è per superficie sensibilmente minore dell'America Settentrionale, però la sua morfologia e le sue condizioni ambientali sono considerevolmente più varie . Dell'America Settentrionale, l'America Meridionale ripete a grandi linee la struttura, con un grande sistema montuoso, le Ande, che si sviluppa in senso meridiano sul bordo occidentale, con le depressioni nella parte centrale e i rialzi antichi sul lato orientale. La parte basale è lo Scudo Guiano-Brasilense, massa cratogena che ha subito profondi processi di peneplanazione e più recenti dislocazioni verticali come contraccolpo dell'orogenesi andina. Esso è tuttavia rimasto sostanzialmente rigido sin dall'era archeozoica. Irrigidita e parte anch'essa della massa primordiale è tutta la sezione orientale pianeggiante dell'America Meridionale: sommersa dal mare, sottoposta quindi a coltri sedimentarie di epoche diverse e poi di sedimenti continentali, essa non rivela in superficie la facies archeozoica del substrato. Le formazioni archeozoiche, di costituzione cristallina, affiorano invece nel massiccio della Guayana e nei rilievi che dominano la costa atlantica brasiliana. Questi in effetti non sono delle catene montuose, ma soltanto delle grandi scarpate o dei rialzi marginali degli altopiani interni. Le coperture sedimentarie che vi si sovrappongono sono particolarmente potenti nei bassopiani interni (llanos), dell'Amazzonia e del bacino del Paraná, dove formazioni cenozoiche sono state ricoperte da alluvioni recenti provenienti anche dalle Ande. Questa parte dell'America Meridionale, che è la più estesa, ha linee monotone, orizzonti aperti. Tutta diversa è la regione andina, dominata da una delle più possenti catene del globo, la quale costituisce un vero e proprio baluardo e introduce un marcato elemento di rottura nella geografia dell'America Meridionale, ciò che non si verifica in egual misura con le Montagne Rocciose nell'America Settentrionale. La formazione delle Ande risale all'orogenesi cenozoica ma ebbe le sue premesse nel Paleozoico, quando una lunga e marcata geosinclinale si estendeva sul bordo del continente. Strutturalmente si tratta di una catena a pieghe, che si sviluppa lungo tutto il continente per oltre 7500 km e la cui conformazione varia alquanto da S a N. Le Ande non sono però formate da una catena unitaria, ma da una serie di catene parallele rotte da valli longitudinali e racchiudenti anche estesi altopiani, zolle rigide talora con caratteri di conche poste anche a 4000 m d'altezza, talora vere e proprie aree di sprofondamento come nel caso del lago Titicaca. Le parti più elevate delle Ande sono rappresentate da catene di rocce scistose e cristalline nella sezione più interna del sistema, da edifici vulcanici nella parte più esterna, che domina il versante del Pacifico e le sottostanti fosse oceaniche profonde persino 7000 m s.m. Il vulcanesimo, ancora in parte attivo, e l'elevata sismicità fanno della regione andina un'area orogenetica tuttora non assestata. Sono innumerevoli i casi di intensa attività sismica: nella zona si è verificato il più forte terremoto mai registrato da strumenti umani (Valdivia, Cile, 9,5 gradi sulla scala Richter); molto potente (al limite dei 9 gradi Richter) è stato anche il terremoto che ha colpito il Cile nel febbraio 2010. Nella zona del lago Titicaca si elevano alcune delle maggiori montagne, come l'Illampu (6421 m) e l'Illimani (6457 m). A S dell'Aconcagua (6959 m), situato nella sezione centro meridionale e massima elevazione delle Ande, la catena assume una conformazione più unitaria con il restringersi della massa continentale verso il lungo apice australe, strutturalmente raccordato al continente antartico attraverso l'arcatura insulare delle Falkland. Sul versante interno le Ande digradano verso i bassopiani con una serie di basse catene, di tavolati e di penepiani come quello della Patagonia, a loro volta orlati da amplissimi pedemonti alluvionali o eolici come nel Gran Chaco. L'andamento delle coste bene riflette le caratteristiche strutturali del subcontinente. Quelle dominate dagli altopiani sono orlate da brevi pianure e si presentano con linee uniformi; i porti non sono rari, ma talora mancano di un naturale ampio entroterra data l'imminenza dei rilievi costieri. Le grandi aperture del continente sul lato atlantico corrispondono ai due grandi sbocchi dei bassopiani fluviali, quello amazzonico, che introduce però in una regione forestale poco penetrabile, e quello platense: questo è la vera grande porta d'ingresso dell'America Meridionale. Caratteristica è la frammentazione costiera della parte più australe del subcontinente sul lato del Pacifico, dove le ingressioni marine hanno creato isole, fiordi e canali (come quello di Magellano che divide il continente dalla Terra del Fuoco), che richiamano consimili paesaggi delle terre boreali. Il resto della costa pacifica è dominato dalle Ande; ha una breve cimosa alluvionale ed è in generale poco portuoso.
Clima: America Settentrionale
Il clima dell'America Settentrionale varia non solo in rapporto alla latitudine (ciò che è spiegabile se si guarda al notevole sviluppo meridiano), ma anche in rapporto all'ampiezza della sua superficie e alla particolare configurazione, con i due sistemi di rilievi che a E e a W chiudono le pianure interne. L'ampiezza delle superfici continentali è all'origine delle masse d'aria interne che condizionano profondamente la penetrazione di quelle d'origine marittima, polare e tropicale . D'inverno predominano le masse continentali che mantengono stabile il tempo su gran parte del subcontinente; vi si connettono temperature molto basse, che si elevano con il procedere verso le zone periferiche: l'isoterma degli 0 ºC, del mese di gennaio, passa a S di New York, ma verso l'interno si spinge a latitudini più basse. D'estate la situazione si inverte, predominano gli influssi marittimi tropicali, che portano condizioni d'instabilità e precipitazioni nell'interno delle pianure, determinando un andamento delle isoterme accentuatamente arcuato verso N: l'isoterma dei 20 ºC, del mese di luglio, passa poco a N di New York, ma si spinge poi all'interno fino alle Grandi Pianure canadesi. Il meccanismo climatico nella parte interna del subcontinente è regolato dal gioco stagionale di cicloni e anticicloni, con tutti gli eccessi propri di questo gioco, che vede talora d'inverno la penetrazione di aria continentale fredda (sono le cosiddette cold waves) proveniente da N fino alle coste del Golfo del Messico, o d'estate il verificarsi di calori soffocanti nelle Grandi Pianure. In questo meccanismo si inseriscono, in modo periferico, gli hurricanes, uragani che dalle aree tropicali giungono sulle coste del Golfo del Messico con effetti spesso disastrosi. Per quanto riguarda le precipitazioni ciò che soprattutto conta è la loro particolare distribuzione, che vede le isoiete disposte in senso meridiano, fatto dovuto alla direzione delle masse d'aria d'origine atlantica e all'orientamento da S a N delle Montagne Rocciose. L'isoieta dei 500 mm coincide all'incirca con il meridiano di 100º W e divide in due, si può dire, il subcontinente, ciò anche per gli effetti che si hanno sul paesaggio vegetale. Nella parte orientale il massimo di piovosità si ha sugli Appalachi e sulla pianura costiera del Golfo del Messico, dove si registrano precipitazioni lungo tutto l'arco annuale; dai 2000 mm di queste regioni si passa gradatamente verso i 500 mm dell'interno. Sulla parte occidentale si hanno quasi ovunque precipitazioni inferiori ai 500 mm, con i minimi (meno di 250 mm) nei bacini depressionari delle Montagne Rocciose generalmente al di fuori degli influssi marittimi tropicali. Da quelli oceanici non resta esclusa però la zona esposta al Pacifico settentrionale, che dai 40º di latitudine sino all'Alaska gode di copiose precipitazioni. Sui versanti più elevati delle catene che dominano la costa si registrano sino a 2500 mm annui, prevalentemente invernali, regime dovuto allo stagionale spostamento verso S del fronte polare marittimo.
Clima: America Centrale
Il clima dell'America Centrale è fortemente condizionato dalla presenza del mare che mitiga e addolcisce gli eccessi della tropicalità, della quale partecipa tutta la regione, che è attraversata nel suo margine settentrionale dal Tropico del Cancro. Nel Messico tuttavia l'estensione delle alteterre, l'altitudine e la chiusura montagnosa determinano una certa continentalità che si misura nel regime delle temperature (le medie di gennaio e di luglio sono rispettivamente di 10 ºC e 22 ºC nel Messico centrale). Stabilizzate mediamente sui 22-26 ºC sono invece le temperature annuali dell'America istmica e caribica, entrambe aperte agli influssi marini . Come tutte le aree tropicali, l'America Centrale è caratterizzata da un clima a due stagioni, determinate dallo spostamento del fronte intertropicale a cui si collega la pronunciata piovosità estiva e la generale aridità invernale. In generale però, sempre a causa dell'accentuata marittimità, mancano gli eccessi propri dell'aridità tropicale; ciò vale in particolare per i versanti insulari meglio esposti verso NE da cui provengono le masse d'aria umida tropicale promosse dall'anticiclone atlantico e che si spostano nella direzione propria degli alisei. Le precipitazioni raggiungono e talora superano (come nelle Grandi Antille) i 1500 mm annui nelle zone più piovose, si abbassano anche al di sotto dei 700 mm nelle zone più al riparo degli alisei. In rapporto allo spirare di questi il grande arco insulare antillano è diviso in isole del Vento e isole Sottovento. Le isole più piovose sono in generale le Grandi Antille, le meno piovose le Piccole Antille vicine alla costa venezuelana che risentono dell'aridità continentale. La sezione istmica di Panamá costituisce, nel contesto centramericano, un'area eccezionale in quanto soggetta al clima equatoriale umido portato dalle masse d'aria del Pacifico: le precipitazioni possono superare i 3500 mm annui e la nuvolosità può perdurare fino a 250 giorni all'anno.
Clima: America Meridionale
Ciò che più distingue l'America Meridionale dall'America Settentrionale è la grande diversità di ambienti in funzione climatica. Praticamente nell'America Meridionale si trovano rappresentati tutti i climi terrestri. Ciò in relazione al grande sviluppo meridiano del subcontinente, attraversato dall'Equatore e dal Tropico del Capricorno, e alla presenza delle Ande. Queste determinano una spaccatura vera e propria delle condizioni climatiche al di qua e al di là della catena stessa, come è dimostrato dalla tendenza delle isoterme e delle isoiete a disporsi nel senso dei meridiani anziché dei paralleli . Caratteristica fondamentale del clima sudamericano, nel quale le stagioni sono invertite rispetto all'emisfero settentrionale, è la scarsa continentalità. Questa è dovuta sia alla forma triangolare del subcontinente sia agli influssi atlantici sensibili in una vasta area a E delle Ande. Nella fascia equatoriale convergono in particolare gli alisei promossi dalle aree anticicloniche poste a S e a N dell'Equatore, apportando aria umida e quindi precipitazioni durante tutto l'anno, salvo lievi attenuazioni in concomitanza con gli spostamenti zenitali del sole. In questa fascia si hanno tutte le tipiche manifestazioni del clima umido equatoriale (si parla in proposito di “clima amazzonico”). Le temperature sono tendenzialmente costanti, in media attestate sui 26 ºC; assenza di venti, elevata umidità, precipitazioni superiori ai 1500 mm sono gli altri elementi che caratterizzano questo clima. La piovosità maggiore si ha nella parte più interna del bacino amazzonico e sul versante delle Ande. Sul lato opposto della catena intervengono le masse d'aria marittime tropicali del Pacifico, però con una direzione particolare che investe solo le coste più settentrionali della Colombia. A mano a mano che ci si allontana dalla fascia equatoriale, le variazioni stagionali delle manifestazioni climatiche si fanno più sensibili e si passa così alle fasce tropicali, che interessano i llanos dell'Orinoco (zona con lunga stagione siccitosa), il Brasile nordorientale (che si trova parzialmente escluso dagli influssi delle masse d'aria atlantiche) e tutta la grande fascia che dal bacino amazzonico si stende fino al bacino del Paraná. Le precipitazioni si riducono progressivamente fino a 700 mm annui e la stagione piovosa si restringe a pochi mesi. Essa si verifica in corrispondenza dello spostamento verso S, nei mesi dell'estate australe, dell'anticiclone dell'Atlantico meridionale, il quale investe però in modo diretto tutta la grande facciata atlantica degli altopiani brasiliani, che hanno una piovosità elevata (1500 mm). Procedendo verso S si passa alle prime zone temperate, con precipitazioni che interessano, soprattutto nell'estate australe, le pianure platensi (pampas), le cui particolarità climatiche inducono a parlare di un “clima pampeano”. Più a S si entra in una fascia che sfugge ormai agli influssi atlantici ed è perciò semiarida o arida, specie sotto il versante andino. Prevalentemente arida è anche tutta la regione andina, specie tra il lago Titicaca e il Cile settentrionale. La ragione di tale aridità è nel comportamento delle masse d'aria promosse dal Pacifico: esse hanno cioè una direzione parallela alla costa del continente; inoltre esse sono private di umidità dalla Corrente di Humboldt che lambisce la costa del Pacifico sino all'altezza di Punta Negra, in Perú, provocando condensazioni e formazioni nebbiose che sono un aspetto caratteristico di questa zona pacifica dell'America Meridionale e che lasciano l'aria completamente secca. Nella zona di Santiago del Cile l'aridità estiva e le temperature miti, subtropicali, originano un clima di tipo mediterraneo. Più a S la lunga appendice sudamericana è tutta esposta agli influssi oceanici, ciò che determina un clima piovoso, ma generalmente freddo per lo spirare dei venti promossi dalle masse d'aria d'origine antartica. Nella regione andina si ha la caratteristica differenziazione climatica in funzione dell'altitudine. Nelle zone basse, costiere o interne, si trovano le tierras calientes o terre calde, a cui seguono le tierras templadas o terre temperate, e le tierras frías o terre fredde. I limiti altitudinali variano secondo la latitudine. Nel Perú, per esempio, le tierras templadas sono comprese tra i 1500 e i 2500 m, mentre le tierras frías si spingono sino ai 4000 m s.m.; superiormente cominciano le tierras heladas o terre gelate. Nella sezione centrale delle Ande il limite delle nevi permanenti è di poco inferiore ai 5000 m s.m., mentre nell'apice meridionale del subcontinente si abbassa a poche centinaia di metri sul mare, in cui si spingono le lingue dei ghiacciai.
Idrografia: America Settentrionale
La Continental Divide, linea spartiacque che corre sulle Montagne Rocciose, divide in due l'America Settentrionale. Ma idrograficamente si riconoscono almeno quattro grandi bacini: quello atlantico che accoglie i fiumi appalachiani e dello Scudo Canadese, tra cui il San Lorenzo; quello artico, il cui principale tributario è il Mackenzie; quello pacifico che riceve le acque del breve e ripido versante esterno delle Montagne Rocciose; infine il bacino del Golfo del Messico (anch'esso atlantico in realtà) cui tributa l'area compresa tra gli Appalachi e le Montagne Rocciose. È qui che si ha il sistema fluviale più importante, uno dei maggiori della Terra: quello del Mississippi-Missouri con un bacino imbrifero di oltre 3,3 milioni di km². Altro elemento idrografico di rilievo, anzi del tutto eccezionale nella geografia terrestre, è il complesso dei Grandi Laghi, ampie superfici lacustri che corrispondono a depressioni comprese tra lo Scudo Canadese e gli Appalachi e la cui origine è legata al glacialismo. I cinque laghi (Superiore, Michigan, Huron, Erie e Ontario) sono comunicanti per mezzo di brevi emissari che superano i lievi dislivelli esistenti tra l'uno e l'altro; essi hanno un comune emissario nel San Lorenzo che, dopo una serie di cateratte, oggi superate da sistemi di chiuse, diventa un'importante via d'acqua, benché gelata per una parte dell'anno. Nel quadro idrografico dell'America Settentrionale si annoverano anche i piccoli e grandi laghi, pure d'origine glaciale, che costellano la parte settentrionale del subcontinente. Essi, come anche i fiumi che tributano a N del 43º parallelo, sono gelati per diversi mesi durante l'inverno. Il Mackenzie, per esempio, è libero dai ghiacci solo dalla metà di giugno alla metà di ottobre. Altra particolarità idrografica è costituita dalle aree endoreiche che occupano i bacini compresi tra le Montagne Rocciose e le catene costiere, dove vi sono anche estese superfici areiche, del tutto desertiche.
Idrografia: America Centrale
Fiumi brevi e dal regime irregolare caratterizzano tutta l'America Centrale (nel settore insulare è la stessa esiguità delle superfici a impedire la formazione di importanti corsi d'acqua). La linea spartiacque, quasi ovunque nettamente spostata verso il Pacifico, fa sì che relativamente maggiore sia il tributo all'Atlantico (Golfo del Messico e Mar delle Antille), cui scendono il Rio Grande (Río Bravo), l'Usumacinta, il Motagua, il Coco, ecc. Dei bacini lacustri, oltre a quelli salati dell'altopiano del Messico, si ricordano i laghi di Nicaragua e di Managua, entrambi nello Stato di Nicaragua.
Idrografia: America Meridionale
L'America Meridionale ripete certe caratteristiche idrografiche di quella Settentrionale: la maggior parte delle acque anche qui si riversa nell'Atlantico, richiamata dalle grandi depressioni centrali chiuse a W dalla barriera andina. Ma ben diversi sono i fiumi sudamericani, soprattutto per quanto riguarda il loro regime. Ciò vale sicuramente per il fiume maggiore, il Rio delle Amazzoni, che drena tutto il grande bassopiano compreso tra le Ande e gli altopiani brasiliani e della Guayana, coprendo con il suo bacino, il più vasto del mondo, poco meno di un terzo dell'intera superficie continentale. Il Rio delle Amazzoni è il primo fiume del mondo anche per la portata media (200.000 m3/s alla foce), quantità dovuta all'elevata piovosità della fascia equatoriale che esso attraversa; le variazioni stagionali di portata sono invece determinate dal clima della fascia tropicale del suo bacino. Lo spartiacque amazzonico è assai labile, specie verso N nei confronti del bacino del Río Orinoco, fiume che drena i llanos compresi tra la diramazione caribica delle Ande e il massiccio della Guayana (l'esistenza del canale di Casiquiare, che unisce naturalmente i due bacini, è la testimonianza di tale labilità), ma anche nei confronti del bacino del Rio Paraná, secondo per estensione dell'America Meridionale e compreso tra gli altopiani brasiliani e le Ande. Nel tratto finale del suo corso il Paraná è attratto dalla depressione che ha dato origine, a S delle ultime appendici degli altopiani brasiliani, al grande estuario del Río de la Plata, dove s'immette anche il Río Paraguay (tra questo e il Rio Paraná si stende una caratteristica “mesopotamia”, fascia di terre basse, alluvionali ). I fiumi che fanno capo all'estuario platense hanno un regime che risente dell'andamento stagionale delle precipitazioni: infatti essi scolano territori con clima accentuatamente tropicale, a due stagioni. Sul versante occidentale delle Ande l'idrografia ha uno sviluppo limitato dalla stessa morfologia, tranne che nella parte settentrionale dove il Río Magdalena sviluppa un suo esteso bacino lungo le valli comprese tra gli allineamenti montuosi andini che si dipartono dal nodo orografico di Pasto immettendosi nel Mar delle Antille. Nelle Ande, in relazione all'esistenza di depressioni tettoniche, si trovano molte superfici endoreiche, come quella che dà origine al già ricordato lago Titicaca. Le altre, anche per il clima semiarido, non riescono a dar origine a veri e propri laghi, ma a salares, superfici che accolgono sedimentazioni saline.
Flora e fauna: America Settentrionale
Alle differenze climatiche in precedenza indicate corrispondono regioni naturali ben caratterizzate e in generale molto estese. La prima grande partizione ambientale è quella che, in rapporto alle precipitazioni, divide in due, come si è detto, l'America Settentrionale lungo il meridiano dei 100º. Da una parte (a W) è l'America prevalentemente arida o semiarida, dall'altra quella umida e temperata. A questa prima e generale divisione climatica si aggiunge quella che, da S a N, vede il passaggio dai climi subtropicali e tropicali a quelli artici. I rilievi appalachiani da un lato, le Montagne Rocciose dall'altro creano poi ambienti particolari ben distinti tra di loro e rispetto a quelli delle pianure centrali. La regione appalachiana è caratterizzata da un ambiente tipicamente temperato e oceanico. Le precipitazioni abbondanti e la loro distribuzione nell'intero arco annuale sono all'origine di un ricco manto forestale di latifoglie e conifere (foresta appalachiana) che dà vita agli splendidi paesaggi del New England e degli Allegheny. Le specie fondamentali sono rappresentate da querce (chestnut oak, Quercus montana), da olmi, noci, pioppi, faggi (american beech, Fagus americana) e altre caducifoglie, oltre che da specie esclusive come alcune magnolie e la black gum (Nyssa). Sui rilievi e nella parte più settentrionale, come d'altronde in tutta l'area a N dei Grandi Laghi, si ha una penetrazione di specie della foresta subartica (hudsoniana) con betulle e conifere (Picea nigra, Picea canadensis e Picea alba). Nella zona costiera la foresta appalachiana lascia il posto ad associazioni di pini, tutti esclusivi dell'America, tra cui dominante è il longleafpine (Pinus palustris). I pini ammantano anche le coste del golfo del Messico dove si hanno, come insediamento peculiare, associazioni caratteristiche di cipressi (Taxodium distichum) nelle aree inondabili (cypress swamps). Anche la Florida è caratterizzata da un ambiente simile, che trova la sua più esaltata espressione nelle everglades, vaste superfici inondabili che sono interessanti rifugi di vita vegetale e animale. Tutta la fascia meridionale affacciata al Golfo del Messico è caratterizzata da un clima subtropicale e, grazie alla ricchezza di suoli alluvionali, si presta alla coltivazione del cotone (Cotton Belt). Tra gli Appalachi e le Montagne Rocciose le Pianure Centrali sono ricoperte da vaste e monotone superfici erbose che si presentano più o meno ricche a seconda della quantità di precipitazioni e del tipo di suolo. A ridosso degli Appalachi, cioè nella fascia più piovosa delle pianure, si hanno le praterie più rigogliose (bluegrass) dominate dalla Poa pratensis; verso W, con il diminuire della piovosità, le erbe alte cedono progressivamente il posto alle erbe basse e fondamentalmente xerofile, specie al di là del Mississippi, dove si hanno associazioni steppiche dominate dalla cosiddetta buffalo grass e dalle artemisie che si spingono sulle Montagne Rocciose. Le condizioni pedologiche determinano la varietà delle coltivazioni: si hanno podsoli grigio-bruni molto fertili adatti alla coltivazione del mais e suoli bruno-scuri, lössici (prairie soils), adatti a quella del frumento. La tundra copre tutta la fascia più settentrionale, a N di una linea che ha un andamento molto irregolare in rapporto agli influssi artici più o meno pronunciati. Nella parte occidentale del subcontinente si hanno variazioni climatiche notevoli anche in rapporto al rilievo, oltre che all'esposizione oceanica. Gli altopiani e i bacini depressionari sono in generale aridi, con accentuazione delle manifestazioni desertiche nei bacini del Nevada, dove si hanno anche superfici dunose e tipiche aree di sedimentazione salina. Nella regione attraversata dal corso inferiore del Colorado si trovano associazioni vegetali spiccatamente xerofile, con i grandi Cereus che dominano il chaparral, formazione arbustiva di piante spinose e succulente. Sui rilievi vi è una foresta montana di pini xerofili (Pinus piñon); verso la costa il clima, mitigato dall'oceano e a piovosità invernale, consente una vegetazione arbustiva prevalentemente di querce e, nei suoli alluvionali irrigabili, tipiche colture subtropicali e mediterranee. A N di quest'area, sui versanti montuosi esposti all'oceano, la piovosità elevata dà luogo a maestosi paesaggi forestali di conifere, tra le quali s'impongono, sulle umide pendici della Sierra Nevada, la gigantesca sequoia e il pino Douglas; quest'ultimo è insediato su tutta la fascia costiera che si spinge sino in Alaska, regione questa caratterizzata sul lato settentrionale delle sue catene montuose dalla foresta subartica e poi dalla tundra. § Nella sua vastità e nel suo isolamento l'America Settentrionale ha consentito lo sviluppo di specie animali che, come molte di quelle vegetali, sono assolutamente peculiari. Prima del suo distacco dalla massa continentale dell'Eurasia, l'America fu anzi l'area originaria di alcune specie successivamente scomparse localmente ma sopravvissute in altre parti della Terra, come è il caso dei camelidi e dei cavalli (questi ultimi notoriamente introdotti poi dagli europei). La varietà di ambienti delineatasi nel Pleistocene ha reso possibile l'insediamento di numerose specie animali, comprendenti anche parecchi mammiferi, la cui conservazione, minacciata dalla massiccia penetrazione umana nel continente, è stata resa in parte possibile con l'istituzione di parchi e di riserve naturali che oggi costituiscono rifugi, spesso spettacolari, di vita naturale nordamericana. Si possono individuare diverse grandi aree faunistiche, coincidenti con le divisioni naturali già descritte. Nella regione appalachiana l'ambiente forestale ospita diversi mammiferi di ampia diffusione, come il daino, il cervo, la marmotta; specie locale è lo scoiattolo volante. È presente anche il muskrat (Ondatra zibethicus), topo muschiato diffuso però anche più a N. Un ambiente faunistico molto ricco è quello delle paludi e delle lagune costiere atlantiche e del Golfo del Messico, asilo di numerose specie di uccelli; esso ha caratteri quasi analoghi nelle everglades della Florida, dove l'animale più caratteristico è però l'alligatore. Nelle Pianure Centrali, regno dei piccoli roditori, è ormai ridotto a pochi e vigilatissimi branchi il bisonte, tipico bovide nordamericano, un tempo risorsa fondamentale dei pellerossa (nativi americani) cacciatori della prateria. Altro animale delle pianure è il coyote. Ambiente faunisticamente caratteristico, benché vario, è quello delle Montagne Rocciose, dove si trovano insediate diverse specie di capre; peculiare della zona, benché abbia un habitat molto ampio, è il puma. Nelle aree desertiche dei bacini depressionari abbondano i rettili, tra cui il più caratteristico è il crotalo o serpente a sonagli. La grande foresta subartica è sede di una fauna speciale soggetta a ibernazione: mustelidi dal pelame pregiato (ermellino e lontra), roditori (castoro); vi è poi il caribù, che si spinge sino ai margini della tundra.
Flora e fauna: America Centrale
In rapporto alle caratteristiche climatiche le condizioni ambientali variano alquanto all'interno delle stesse regioni istmica e insulare. Nella prima la presenza di altopiani e di alti monti introduce quella classificazione, tipicamente latino-americana, che, in relazione all'altitudine, riconosce tierras calientes, tierras templadas e tierras frías (e anche tierras heladas sulle cime innevate dei grandi vulcani dell'Anáhuac). Nella seconda assumono caratteri nettamente diversi i due versanti insulari posti sopravvento o sottovento. In generale il clima a due stagioni, con la prolungata siccità invernale (verano), determina una vegetazione savanica che assume anche spiccati adattamenti xerofili, come negli altopiani messicani dove le piante più caratteristiche sono le agavi. Savanica è anche la vegetazione delle zone istmiche e insulari: un'associazione caratteristica è il matorral, che ha forma arbustiva e accoglie anche piante caducifoglie come le querce. Nelle aree più piovose si ha la foresta tropicale, nella quale si trovano specie proprie della fascia equatoriale più piovosa, altre che sono tipicamente locali. Tra le essenze pregiate vi sono piante di cedro, di mogano (pregiato è l'acaju) e assai diffusa è la sapodilla da cui si ricava il chicle. Lungo le coste la palma domina sovrana, specie nell'ambiente insulare, dove i coccheti costituiscono una delle risorse locali. Sui rilievi si trovano boschi di conifere, tra cui la specie caratteristica dell'America Centrale, il Pinus cariboea; più oltre, nelle tierras frías si hanno i páramos, tappeti di graminacee. La grande varietà di specie vegetali dell'America Centrale è dovuta non solo alla varietà dei suoi ambienti, ma anche al fatto che la regione rappresenta l'incontro dei due grandi areali biogeografici dell'America Meridionale e di quella Settentrionale (la linea divisoria sembra che possa essere situata nella depressione del Nicaragua), comunicanti appunto tra loro attraverso il cordone istmico, il quale ha funzionato da filtro o da elemento separatore nelle epoche in cui il collegamento veniva interrotto per cause tettoniche. Quanto detto vale anche per la fauna, che è rappresentata sia da specie nordamericane (soprattutto delle Montagne Rocciose), sia da specie sudamericane proprie anche dell'area forestale equatoriale. Esempi nel caso dei mammiferi possono essere rispettivamente il puma e il tapiro. Numerosi sono inoltre in tutta l'America Centrale gli endemismi dovuti alla frammentazione della regione.
Flora e fauna: America Meridionale
Alla grande varietà ambientale si connette la presenza di diverse formazioni vegetali di cui alcune endemiche, dovute anche al lungo isolamento del continente. Originarie dell'America Meridionale sono molte specie utili poi diffuse in altri continenti, come la patata, il cacao, il tabacco, ecc. L'ambiente più vario di specie vegetali è naturalmente quello della fascia equatoriale; è uno degli ambienti forestali della Terra più ricchi, rigogliosi e intatti. La foresta pluviale sempreverde (selva) copre una superficie vastissima quasi corrispondente al bacino amazzonico; ospita un gran numero di specie, fino a 3000 ogni miglio quadrato. Tra le tante specie peculiari basti citare l'Hevea brasiliensis o albero della gomma. La vegetazione è particolarmente rigogliosa nelle aree fluviali inondabili (varzea) e s'impoverisce nelle aree interfluviali meno umide. La grande fascia forestale risale anche il versante andino fino ai 2000 m s.m. dove forma un bordo forestale (la Ceja de Montaña, il ciglio della foresta) che progressivamente trapassa in un piano arbustivo dominato dalla pianta della coca (Erytroxylon coca). Ai margini della selva comincia il progressivo passaggio verso la savana, determinata dal clima a due stagioni. Le formazioni savaniche, tra le quali s'insinuano i nastri della foresta pluviale lungo il reticolo dei fiumi (foresta a galleria), variano alquanto in funzione delle precipitazioni e del loro regime oltre che dei suoli: si ha savana arborata, savana arbustiva (campos), savana erbosa (campos limpios), con erbe che coprono superfici più o meno estese e inframmezzate da formazioni arboree. Savanica e con notevoli adattamenti xerofili è la piana dell'Orinoco, caratterizzata da una stagione secca molto prolungata; una formazione savanica (caatinga) arborata e arbustiva copre vaste aree del Mato Grosso e del Goiás, fino alle piane del Paraguay, dove per ampi tratti dominante è l'albero del mate, l'Ilex paraguariensis. Nell'arido settore nordorientale la vegetazione è marcatamente xerofila e compaiono piante spinose e succulente nelle superfici denudate del sertão. Sugli altopiani brasiliani esposti all'Atlantico e piovosi, dove i fertili suoli grigio scuri (massapé) sono particolarmente adatti alle piantagioni, ricompare la foresta pluviale, rigogliosa e con adattamenti tropicali: caratteristico è qui il pau brasil, una pianta colorante da cui prende il nome lo stesso Brasile. Sui rilievi più elevati compare l'araucaria, conifera sudamericana che dà luogo a caratteristiche e regolari associazioni. Più internamente, con il diminuire della piovosità, i suoli assumono colorazione rossastra dovuta ai processi di laterizzazione: è la regione della cosiddetta terra roxa, adattissima alla coltivazione del caffè. A S degli altopiani comincia il regno delle praterie, condizionate dalle precipitazioni estive, sempre meno abbondanti procedendo verso l'interno e verso S: in rapporto a ciò la prateria s'impoverisce e assume caratteri steppici. L'ambiente tipico delle praterie è quello delle pampas, pianure adatte alla cerealicoltura grazie anche ai suoli scuri, a černozëm, d'origine lössica. La regione patagonica è decisamente steppica, semiarida e le piante sono generalmente xerofile. Associazione caratteristica di aree preandine è il chanar formato da cespugli di Leguminose della sottofamiglia Mimosoideae. Lungo i fiumi si hanno formazioni oasiche e riparie in cui si addensano specialmente i pioppi. Paesaggio oasico analogo si ha anche sull'arido versante pacifico. Nelle Ande la vegetazione si adatta ai diversi ambiti altitudinali, dove compaiono via via le specie della foresta e della savana in forme degradate. Nelle aree più elevate (tierras frías) le formazioni arboree scompaiono e si hanno invece associazioni arbustive ed erbacee che formano i cosiddetti páramos, i quali nelle zone più aride danno vita a un paesaggio ancor più povero e desolato come nelle punas peruviane e boliviane. Nelle aree andine australi soggette al clima oceanico si hanno splendidi ammanti di faggio australe e di araucarie. § In epoche geologiche passate l'intera America ha formato un areale continuo. A queste fasi della storia geologica, e in particolare al Terziario, risale per esempio la diffusione dei camelidi dall'America Settentrionale, dove successivamente sono spariti mentre nell'America Meridionale hanno dato origine a specie endemiche (lama, alpaca, guanaco, ecc.). Esistono però ancora specie comuni ai due subcontinenti, come il puma e il giaguaro, ma la maggior parte delle specie è nettamente differenziata in entrambi. A grandi linee la fauna sudamericana si può suddividere secondo alcuni grandi areali, il principale e più caratteristico dei quali è quello amazzonico, che ospita specie endemiche, come formichieri, armadilli, tapiri, alcuni rettili, come il gigantesco anaconda, e diversi pesci, tra cui il vorace piranha. Molte di queste specie si adattano anche agli ambienti savanici a S dell'Amazzonia; in essi compaiono anche le prime specie dell'ambiente più australe che nelle pianure steppiche aveva un tempo nel guanaco il suo animale caratteristico. I camelidi si trovano nella regione andina, sino alle altitudini più elevate dei páramos, mentre sulle rocce nidifica il condor. Equidi e bovidi non esistevano nell'America Meridionale prima della scoperta europea: nelle praterie della fascia atlantica temperata, nelle pampas, essi si sono facilmente adattati.
Ambiente: America Settentrionale
Nonostante gli oltre 450 milioni di ab., l'America Settentrionale è un territorio solo parzialmente antropizzato, in particolare per quanto concerne l'estremo nord del Canada (nell'intero Paese la densità è di appena 3 ab./km², mentre negli Stati Uniti questo dato aumenta a 32 ab./km²; solo in Messico la densità aumenta sino a oltre 50 ab./km²). Lo scarso popolamento non deve però far pensare a un territorio incontaminato. Anzi, l'enorme sviluppo economico di quest'area ha lasciato segni profondi ed evidenti sull'ambiente naturale. Le attività estrattive, in particolare del petrolio, sviluppatesi, a livello mondiale, proprio a partire dagli Stati Uniti, fanno sì che siano particolarmente diffusi, soprattutto nel paesaggio degli Stati del sud (soprattutto il Texas) i tipici pozzi estrattivi. Questa stessa minaccia incombe oggi sugli ampi e incontaminati spazi artici dell'Alaska. Lo straordinario sviluppo industriale dell'area incide profondamente sul livello di inquinamento dell'aria e delle acque; il fiume Mississippi è, insieme al cinese Huang He, uno dei più inquinati tra i grossi corsi d'acqua del mondo, ma non minore preoccupazione è destata dalla situazione dei Grandi Laghi al confine tra Stati Uniti e Canada, o da casi come quello del lago Onondaga, dichiarato dalla stessa Agenzia per la protezione dell'Ambiente degli USA un vero e proprio pericolo ambientale. Grave è la situazione della concentrazione urbana di Città del Messico, con i suoi ca. 20 milioni di ab., anche se, negli ultimi vent'anni, sono state attuate politiche che iniziano ora a registrare i primi risultati. Per contro, l'America Settentrionale è stata la prima area del mondo a creare parchi e riserve naturali (il più celebre parco degli Stati Uniti, Yellowstone, è stato istituito nel 1872 ed è il più antico parco naturale del mondo). Purtroppo, ancora oggi, lo IUCN (International Union for Conservation of Nature) denuncia che, accanto all'attività di tutela del territorio, non si è sviluppata un'altrettanto solida protezione dei biomi marini.
Ambiente: America Centrale e Meridionale
La colonizzazione coatta del subcontinente da parte degli europei a partire dal XVI secolo è avvenuta nel più totale spregio, oltreché delle culture e delle civiltà locali, anche dell'ambiente naturale. La diffusione dell'agricoltura estensiva e del latifondo, e la messa a coltura di vaste aree della regione, ha profondamente modificato l'aspetto naturale dell'America Centrale e Meridionale. Ma l'accresciuta sensibilità ambientale degli ultimi decenni ha permesso, almeno a partire dagli anni Ottanta, di sollevare (ma non di risolvere) il problema della tutela dell'immensa foresta amazzonica. L'enorme bacino idrografico del Rio delle Amazzoni (il più grande del mondo) e la foresta che lo ricopriva interamente, sono stati, infatti, oggetto delle mire sia delle società produttrici ed esportatrici di legnami pregiati, sia della tensione ad estendere i terreni coltivabili. Oltre a mettere seriamente a repentaglio la sopravvivenza delle comunità indie che abitano l'area, l'inarrestabile disboscamento produce gravissimi effetti non soltanto nella zona, ma addirittura in tutto il mondo, privando la Terra di uno dei suoi grandi “polmoni verdi”; a partire dal 2019 il presidente del Brasile Bolsonaro si è dimostrato molto meno sensibile alle tematiche ambientaliste dichiarandosi favorevole alla ripresa dello sfruttamento dell’Amazzonia. Ciò ha immediatamente portato ad un notevole incremento degli incendi a scopo di deforestazione tra 2019 e 2020 (i dati più alti del decennio secondo INPE e NASA). L'aumento dell'urbanizzazione (Lima, Bogotá, Buenos Aires, Rio de Janeiro e San Paolo, per citare i casi dove il fenomeno è maggiormente incidente), analogamente a quanto avviene in altre aree del mondo, ha determinato una serie di problemi sia a livello del controllo della qualità dell'aria, sia per quanto concerne la qualità delle acque: su tutti, si ricorda qui il caso, tristemente noto, del fiume Matanza-Riachuela che, raccogliendo gli scarichi fognari di Buenos Aires, risulta oggi uno dei fiumi più inquinati del pianeta. Gravi danni sono causati anche dall'ampia diffusione delle attività estrattive, attorno alle quali sorgono bidonvilles nelle quali manca ogni rispetto per l'ambiente e per coloro che vi abitano. La recente industrializzazione e il contestuale aumento della popolazione del subcontinente ha, peraltro, aumentato la domanda di energia, per rispondere alla quale è stato, tra gli altri, intensificato il ricorso all'energia idroelettrica, sfruttando il potenziale degli enormi bacini idrici. Le due più grandi dighe del continente, però − quella paraguayano-brasiliana di Itaipú e quella brasiliana di Belo Monte, in piena Amazzonia e non ancora in funzione − hanno attirato le critiche degli ambientalisti, persuasi che queste opere faraoniche sono, e saranno, responsabili di un gravissimo attentato alla biodiversità dell'area.
Cenni antropologici
Il problema del popolamento dell'America è tuttora oggetto di ricerche e di studi, anche se è certo che avvenne a partire da un periodo non anteriore a 60.000 anni fa, quando si costituì, in seguito alla glaciazione würmiana, un largo corridoio di terre emerse, denominato Beringia, che collegò il continente all'Asia, favorendo l'arrivo dell'uomo . Secondo alcuni studiosi questo si verificò in due ondate successive a partire da ca. 20.000 anni fa: la prima di nomadi cacciatori affini agli Australoidi, la seconda costituita da protoagricoltori di ceppo mongoloide. Secondo altri studiosi, soprattutto europei, la diffusione dell'uomo in America è avvenuta in tempi diversi a partire da 50.000-40.000 anni fa: per prime giunsero “famiglie” di raccoglitori di Homo sapiens sapiens arcaico, come sembra testimoniare il reperto trovato nello Stato di Alberta, in Canada (bambino di Taber, datato a ca. 40.000 anni fa). Seguirono poi piccoli gruppi di raccoglitori-cacciatori paleomongolidi (reperti di Lagoa Santa, in Brasile, e di Punin, in Ecuador), quindi di cacciatori evoluti (reperti della California e del Messico) tutti riferibili a periodi anteriori a 15.000 anni fa. Sul finire della glaciazione würmiana giunsero anche cacciatori paleosiberiani portatori di caratteri europoidi (reperti del Minnesota, USA) che si attestarono nella parte settentrionale del continente. Dopo l'VIII millennio a. C. lo stretto di Bering, che si stava costituendo, divenne transitabile solo da parte di esperti navigatori polari, quali gli eschimesi e gli aleutini, che si possono considerare gli ultimi a essere giunti in America; questi, infatti, sono antropologicamente affini a popolazioni attualmente viventi in Siberia (ciukci, kamčadaly). Questa seconda tesi trova sempre nuove conferme: infatti, sono stati portati alla luce numerosi siti databili fra 35.000 e 20.000 anni fa; si tratta d'insediamenti di genti dedite alla raccolta e alla caccia, che svilupparono tecniche di lavorazione della pietra scheggiata tipiche e differenziate da luogo a luogo. I più significativi, in ordine di antichità, sono: Toca de Esperança e Boqueirao da Pedra Furada (Brasile), Old Crow (Canada), vari siti della Pennsylvania (USA), Garzon (Colombia), Exacto (Ecuador), Pichimachay (Perú), Alice Boer (Brasile), Guatchi (Cile). Insediamenti di epoca successiva sono più frequenti e diffusi nelle regioni andine, nel Messico, nel S-W, S-E ed E degli Stati Uniti fino al Canada, nonché in Amazzonia e lungo le regioni atlantiche del Brasile fino all'Argentina (qui, l'insediamento più antico, quello di Los Toldos, risale a ca. 12.000 anni fa). Significativo il ritrovamento in vari siti dello Stato di Piaui (Brasile) di graffiti e pitture rupestri datate a 17.000 anni fa, più recenti, quindi, di quelle della Tanzania, ma coeve con quelle del Tassili, del Levante spagnolo e dell'Asia meridionale. Tuttavia, i resti fossili dell'uomo preistorico americano sono ancora troppo pochi per poter stabilire se i tipi umani amerindi attuali derivino solo da uno o da più gruppi di uomini arcaici: la grande varietà di forme rilevate in tempi storici può essere dovuta sia a molteplici rimescolamenti fra popolazioni diverse, sia ad adattamenti all'ambiente, sia a entrambe le cause. Significativo in proposito il fatto che del vasto raggruppamento di genti pueblo-andine, tutte annoverate in un solo tipo umano, soltanto quelle abitanti nelle alteterre del Sud presentano il peculiare carattere di adattamento all'ambiente costituito dall'elevato numero di globuli rossi necessario per l'ossigenazione del sangue a quelle altitudini. In base ai caratteri morfologici prevalenti (statura, colore della pelle, corporatura, tratti somatici ecc.) le popolazioni autoctone americane sono tradizionalmente suddivise in alcuni “tipi umani” che, a partire dal Nord, vengono designati con i nomi di eschimidi, columbidi o aleutini, appalacidi o alleganici, planidi o Dakota, sonoridi, istmidi, pueblo-andidi, amazzonidi o amazzonici (anche brasilidi), lagidi o lagoani, pampidi o pampeani, fuegidi o magellanici. Fatta eccezione per gli inuit e gli aleutini, i gruppi stanziati nell'America Settentrionale vengono designati con il nome collettivo di nativi americani, pellirosse o anche indiani − a causa dell'erronea convinzione di Cristoforo Colombo, che allo sbarco sul nuovo continente era in realtà convinto di essere giunto in Asia − mentre quelli stanziati dal Messico all'America Meridionale sono detti Indios; nell'insieme vengono chiamati amerindi o amerindiani. Secondo alcune valutazioni, prima dell'arrivo dei bianchi, i nativi americani assommavano a circa 3 milioni d'individui, mentre gli indios superavano i 12 milioni. All'inizio del Novecento, i primi erano ridotti a poco più di 350.000 individui confinati entro “riserve” negli USA e nel Canada; in tutto il Nordamerica si stima la presenza di poco più di 3,5 milioni tra nativi americani e popolazioni dell'Alaska. Diversa la situazione degli indios: i pueblo-andidi, dopo la paurosa decimazione seguita alla conquista spagnola, hanno registrato un progressivo aumento demografico dovuto soprattutto a un vasto processo di meticciamento, tanto che in alcuni Paesi andini, nel Messico e nell'America Centrale costituiscono la maggioranza della popolazione. Gli altri gruppi etnici indios, invece, sono andati sempre diminuendo non solo per le stragi, ma anche per le malattie e la scomparsa dell'ambiente originario; recenti valutazioni indicano in ca. 300.000 unità il numero degli eredi delle popolazioni autoctone, mentre indefinibile è il numero dei meticci. Da un punto di vista antropologico, l'America attuale presenta anche un aspetto peculiare diverso da quello degli altri continenti dovuto all'immissione forzata di neri africani “importati” in qualità di schiavi, in particolare negli USA, in Brasile e nell'America insulare, e alla massiccia immigrazione di genti asiatiche, soprattutto negli Stati Uniti. La presenza dei neri, tuttora all'origine di conflitti sociali e razziali negli USA (nonostante l'elezione, nel 2008 di Barack Obama come primo presidente nero della storia degli Stati Uniti), è andata crescendo dal sec. XVII, tanto che nell'America insulare i discendenti degli schiavi si sono completamente sostituiti ai gruppi autoctoni in numerose isole (Hispaniola, Giamaica, Piccole Antille), meticciandosi solo in parte con gli indios, quasi ovunque sterminati dai bianchi prima dell'arrivo degli schiavi neri, e con i coloni bianchi. Diversa è la situazione del Brasile dove il meticciamento è stato rilevante sia con gli indios sia con i bianchi. Negli USA, invece, la segregazione razziale ha limitato fino al XX secolo il meticciamento tanto che la “popolazione nera” si presenta ancora abbastanza omogenea: solo il 30% ha tra gli ascendenti un bianco e il 3,4% un asiatico o un indiano. Mentre la popolazione di origine nera assomma, secondo l'ultimo censimento ufficiale (2000), a oltre 34 milioni d'individui, gli asiatici sono oltre 10 milioni, in prevalenza residenti nelle grandi città della California e in alcune dell'E: fra di essi, le comunità cinesi e giapponesi, per la loro struttura chiusa, sono poco meticciate, mentre le altre etnie sono in gran parte fuse con i neri e, soprattutto, con i latino-americani e quindi di difficile valutazione dal punto di vista quantitativo; gli hawaiani sono solo circa il 3,5% della popolazione dello Stato. La popolazione bianca presenta, nell'America Latina, i caratteri tipici delle genti mediterranee (vengono detti creoli); abbastanza elevato è stato il meticciamento con gli indios, rilevante a Cuba e negli Stati Uniti sud-occidentali. Negli USA e nel Canada prevale il tipo fisico nordico rappresentato da anglosassoni, tedeschi e scandinavi; molto forti sono le minoranze di origini francese, italiana e slava, ma sono rappresentati tutti i gruppi etnici europei.
Le culture autoctone
Ancora in questi primi anni del Duemila in America, fra i pochi gruppi etnici amerindi sopravvissuti, sono rappresentate tutte le forme di organizzazione socio-culturale originarie, dai semplici raccoglitori ai cacciatori nomadi, dai coltivatori seminomadi agli agricoltori sedentari; questi ultimi, presenti nell'America Latina, hanno in gran parte acquisito costumi moderni cercando in alcuni casi di fondere le loro tradizioni con il modo di vivere dei bianchi (per esempio, Quechua, Aymará, Araucani) oppure adattandole a quelle dei conquistatori (Nahua, Maya). La ricerca archeologica e la raccolta di miti e leggende hanno messo in luce che le varie popolazioni svilupparono nel tempo, spesso in modo autonomo, sia le proprie strutture sociali sia le tecniche connesse con il tipo di economia sulla quale era basata la loro società. Tutte, comunque, avevano una vita spirituale assai ricca, spesso complessa, che si espresse al massimo grado nelle civiltà urbane precolombiane (Aztechi, Incas, Olmechi, Maya, Zapotechi ecc.) che conobbero la scrittura, la pratica astronomica ed elaborarono un'arte raffinata. Le diversità, tuttavia, erano notevoli anche nell'ambito di gruppi appartenenti alla medesima famiglia etno-linguistica: fra gli amazzonici, per esempio, ancor oggi si annoverano cacciatori e raccoglitori nomadi e coltivatori seminomadi; fra le genti di lingua algonchina vi erano tribù agricole sedentarie, altre di cacciatori-coltivatori seminomadi, altre ancora dedite alla caccia (come è il caso di Irochesi, Ojibwa, Cheyenne). Discordi sono le ipotesi relative al formarsi delle grandi civiltà urbane, vista l'eterogeneità degli ambienti in cui si svilupparono (altopiano messicano, foreste del Guatemala-Yucatán, alteterre della Cordigliera Andina centro-settentrionale): comune è la loro antichità, poiché appaiono insediate nei rispettivi territori, almeno quali gruppi etno-linguistici, fin dal II millennio a. C. Tutte avevano quale base economica l'agricoltura che, nell'area messicana, era praticata fin dal IV millennio a. C. Durante la fase urbana le società divennero fortemente gerarchizzate e strutturate in città-Stato che solo molto tardi, con gli Aztechi e gli Incas, raggiunsero un'organizzazione statale unitaria. Nel Sud-Ovest degli Stati Uniti e nel Messico settentrionale prevalsero insediamenti agricoli fin dal I millennio a. C.; la struttura sociale di queste genti era di tipo comunitario, molto più semplice di quella dei loro vicini meridionali dai quali probabilmente avevano acquisito le tecniche colturali. Per costoro è stata messa in luce una certa continuità con le culture preistoriche Anasazi, Hokokam e Mogollón, agricoltori seminomadi le cui origini sono sconosciute. Queste genti sono ancor oggi rappresentate dalle tribù hoka, hopi e pueblo e si deve a loro la costruzione di tipici villaggi in mattoni addossati ai fianchi dei monti (pueblos) nonché di rudimentali sistemi di canalizzazione che permisero di sfruttare terreni altrimenti aridi. Ancora incompleta è la ricostruzione dello sviluppo delle comunità un tempo stanziate nell'America Settentrionale, anche se sono quelle meglio studiate e la ricerca degli insediamenti preistorici molto avanzata. Le varie scoperte hanno permesso la ricostruzione del cosiddetto “ciclo paleoindiano”, suddiviso dagli autori statunitensi in alcuni periodi: della “Caccia grossa”, datato fra 12.000 e 7000 anni fa, tipico di genti dedite alla caccia, soprattutto di bisonti, condotta allo stato nomade; della “Vecchia Cordigliera”, datato fra 7000 e 3000 anni fa, in cui compaiono le prime macine a sella in pietra, indice di forme arcaiche di utilizzazione di vegetali da parte di comunità allo stato nomade e sviluppatosi nel Canada orientale, negli USA orientali e sudorientali; il “Ceramico”, datato fra il II e la prima metà del I millennio a. C., durante il quale compaiono insediamenti di coltivatori seminomadi sia in Georgia e in Florida sia nel Sud-Ovest, con produzione di ceramica lavorata, mentre nelle aree centrorientali si diffondono gruppi di cacciatori nomadi. Sul finire di quest'ultimo periodo si moltiplicano i siti abitati da genti agricole in tutto l'E fino al Canada (dove vennero messe a coltura varie piante domestiche locali, fra le quali il riso selvatico), mentre nel bacino del basso Mississippi si diffusero piccoli gruppi di cacciatori e coltivatori nomadi. Probabilmente tra la fine del I millennio a. C. e il 500 d. C. si vennero formando e si differenziarono le tribù indiane conosciute poi dai bianchi (periodo “Formativo”): in tale periodo vennero costruiti nel S-E degli USA villaggi stabili con caratteristiche case a pozzo e grandi tumuli sepolcrali (mounds), il più noto e imponente dei quali è quello di Cahokia (Illinois). Queste genti, come i loro vicini dell'E e del N, lavoravano il rame nativo e, oltre a domesticare il riso selvatico, coltivavano il tabacco per usi cerimoniali; usavano strumenti di pietra levigata di ottima fattura e producevano una bella ceramica dipinta. Lungo le Montagne Rocciose e sparse nelle pianure e foreste di tutto il subcontinente vivevano tribù nomadi di cacciatori e di raccoglitori; le zone costiere del Pacifico erano abitate da piccole tribù di raccoglitori e pescatori arcaici, accanto a pescatori-cacciatori evoluti (i cosiddetti “Popoli del salmone”). Nell'America Centrale e Meridionale, oltre alle genti Chibcha di cultura assai elevata, esisteva (ed esistono ancora in piccole aree) una miriade di tribù nomadi o seminomadi di raccoglitori, cacciatori e coltivatori. Particolari aspetti hanno le culture degli aleutini e degli eschimesi, tipici cacciatori artici di mammiferi marini, che ormai sono acculturati ai costumi nordamericani. Peculiare, infine, era il modo di vivere dei fuegini, gruppo etnico praticamente estinto, che rappresenta il più meridionale insediamento dell'uomo. Le strutture sociali di tutti questi gruppi etnici erano di tipo comunitario, con capi elettivi; le forme di discendenza potevano essere matrilineari o patrilineari e in alcuni casi la posizione della donna era molto elevata (per esempio, fra gli irochesi); al Nord esistevano anche delle strutture sociali con clan totemici, mentre ovunque era molto diffusa l'organizzazione in fratrie e classi matrimoniali. Notevole importanza avevano gli sciamani, che potevano essere anche donne, i quali sopraintendevano ai vari culti animisti , sebbene molti popoli ammettessero l'esistenza di un Essere Supremo, cosa che ha favorito la diffusione del cristianesimo e la comparsa di numerosi culti sincretisti. Agli amerindi si deve la domesticazione di numerosi vegetali oggi largamente usati, dal mais ai fagioli, dalla patata ai pomodori, dal cacao alle arachidi, dalle banane al tabacco. Tipiche elaborazioni tecniche sono entrate nell'uso comune, come la canoa e il kayak, l'amaca e i mocassini. Le culture ancestrali sono oggi vive solo tra pochi gruppi etnici dell'America Meridionale, anche se fra i pellirosse e nei Paesi latino-americani si stanno sviluppando correnti culturali che nelle tradizioni degli antenati precolombiani ricercano l'affermazione di una propria identità etnica.
Demografia: America Settentrionale
Prima dell'avvento degli europei l'America Settentrionale era scarsamente popolata: non vi erano, come nell'America Centrale e Meridionale, quelle forme di civiltà che avevano dato vita a un'organizzazione territoriale con centri urbani, vie di comunicazione, sfruttamento ordinato del suolo. Un calcolo sull'entità della popolazione esistente all'epoca della scoperta di Colombo è stato fatto in modo molto approssimativo: complessivamente non dovevano esserci più di 2-3 milioni di nativi americani. Il popolamento da parte degli europei fu inizialmente lento (esso si può far cominciare con lo sbarco dei pellegrini della Mayflower a Capo Cod nel 1620) sia a causa della fiera opposizione dei pellirosse, sia a causa delle contese tra inglesi e francesi. I primi insediamenti sugli estuari atlantici, nelle rade ben riparate, erano colonie-città quasi autonome; gli abitanti appartenevano a sette religiose piuttosto compatte, che trovavano nelle nuove terre quelle possibilità di vita soffocate nell'Europa di allora, specie in Inghilterra. Successivamente l'emigrazione fu causata da motivi economici, specialmente dalla povertà delle aree agricole d'Europa e in particolare di quelle mediterranee. Nel 1800 vi erano nell'America Settentrionale 5,5 milioni di persone nei territori degli attuali Stati Uniti, mezzo milione nell'attuale Canada. Dopo il 1830 ebbe inizio la grande immigrazione dall'Irlanda, culminata dopo il 1840 negli anni della fame. Dal 1860 al 1890 si ebbe una nuova ondata di inglesi, cui si aggiunsero tedeschi e scandinavi; infine, a partire dal 1900, si ebbero le prime massicce ondate di italiani e slavi. L'immigrazione raggiunse il massimo nel 1907 quando negli Stati Uniti arrivarono 1.285.000 europei. Con la I guerra mondiale negli Stati Uniti furono imposti dei limiti per ciascuna nazionalità sulla base del numero di connazionali già esistenti nel Paese. Nel Canada le ondate immigratorie furono suscitate dall'apertura allo sfruttamento delle Grandi Praterie occupate soprattutto da slavi, cui era familiare l'ambiente cerealicolo delle pianure. In genere le diverse colonie di immigrati occuparono zone particolari in funzione della nazionalità: ciò sia per l'attrazione esercitata dai connazionali già insediati, sia per la predisposizione propria a un certo genere di attività o anche di ambiente climatico. Gli scandinavi, per esempio, occuparono le aree forestali; gli italiani le zone più adatte alle attività agricole, orticole e viticole. Nel S vi fu il popolamento dei neri, iniziato già nel sec. XVII con l'introduzione di schiavi nelle piantagioni di tabacco e cotone della Virginia. Il diffondersi di questa coltura determinò un successivo massiccio arrivo di schiavi neri nel S-E dove rimasero concentrati in gran numero anche dopo la guerra civile (1860-65). Di tutti questi apporti umani diversi, che hanno dato vita al cosiddetto melting pot, l'America Settentrionale conserva ancora viva traccia non solo dal punto di vista sociale, ma anche ambientale per certi aspetti del paesaggio che gli immigrati hanno modificato sul modello di quello europeo d'origine. I successivi sviluppi demografici dell'America Settentrionale sono stati quasi interamente dovuti all'incremento naturale, il quale, peraltro, è stato sensibile sin dagli inizi perché sollecitato dalla grande richiesta di uomini nelle fasi della conquista e in seguito sostenuto dal benessere portato dalla valorizzazione delle ricche risorse. La dinamica demografica rappresenta, ora e ancor più in prospettiva, un fattore di rischio non trascurabile. Se infatti, nel 2008, la popolazione dell'America anglosassone ha superato i 335 milioni di ab., con un tasso di incremento medio annuo (2002-2007-) che ancora si aggira attorno all'1%, e dunque ben lontano dalla “crescita zero” cui sono pervenuti invece molti Paesi europei, le proiezioni indicano un calo del tasso e una quantità totale, al 2025, di 370 milioni di ab., probabilmente ancora al di sotto delle notevoli capacità di popolamento che il subcontinente possiede. Per quanto riguarda gli altri dati demografici, il tasso di natalità, negli anni Duemila, si è stabilizzato intorno al 10-15 per mille e quello di mortalità intorno al 7-8 per mille; inferiore al 7 per mille, e dunque contenuto entro limiti del tutto fisiologici, è il tasso di mortalità infantile. Il valore relativo di densità si attesta intorno ai 15 ab./km² 35 ab/km²negli USA, soli 3,8 ab/km²), restando il più basso fra le entità continentali a esclusione dell'Oceania.
Demografia: America Centrale e Meridionale
L'America Centrale e Meridionale, pur così dissociate e varie dal punto di vista della geografia fisica, hanno oggi una loro indubbia unità sul piano culturale. L'America Latina, come si definisce – in modo forse non del tutto esatto ma non facilmente sostituibile – la grande area che va dal Messico e dai Caraibi sino alla Patagonia e alla Terra del Fuoco, è in effetti profondamente segnata da una certa colonizzazione che le conferisce, anche al di là di alcuni legami come le lingue dominanti (spagnolo e portoghese), caratteri abbastanza omogenei per quanto riguarda la vita politica, sociale ed economica. Come l'America Latina sia venuta caratterizzandosi nel tempo lo si spiega con le stesse forme di conquista del continente da parte dei conquistadores, che hanno introdotto la loro legge predatoria, rifiutando l'attività del “colonizzatore paziente” così frequente invece nell'America anglosassone. Ma sulla particolare evoluzione del subcontinente hanno certamente inciso gli elementi fisici, come ostacoli alla realizzazione di un disegno unitario e organico di conquista umana (già reso problematico dalle contese territoriali tra spagnoli e portoghesi) e in taluni casi addirittura repulsivi, come la grande foresta amazzonica, le alteterre andine, gli stessi vasti e monotoni bassopiani interni. Prima dell'arrivo degli europei l'America Centrale e quella Meridionale ospitavano ca. 8 milioni di persone. Le maggiori concentrazioni si avevano sulle alteterre messicane, le pianure dello Yucatán e le alteterre andine fino all'istmo di Panamá, cioè là dove si erano sviluppate le civiltà urbane precolombiane degli Zapotechi, dei Toltechi, degli Aztechi, dei Maya, degli Incas, dei Chibcha ecc. Altrove la popolazione era più rada, disseminata su vasti spazi in relazione alle attività itineranti (agricole, di raccolta e di caccia) praticate. Di certo gli squilibri distributivi dipendevano non solo dalle condizioni ambientali, per cui per esempio la foresta amazzonica poteva difficilmente ospitare forme di vita organizzata, ma soprattutto dalla possibilità di contatti culturali vivificatori, che specialmente tra America istmica e America andina trovarono modo di esplicarsi tra civiltà essenzialmente sedentarie e urbane. Sugli altopiani messicani fiorì la cerealicoltura, che di quelle civiltà fu il fondamento economico. Nelle aree di maggior popolamento precolombiano, tra Messico, terre istmiche e andine, iniziarono nel sec. XVI anche la penetrazione e l'insediamento europei al di là dei primi avamposti caribici. Dopo quelli nelle Grandi Antille, gli stanziamenti si ebbero sugli altopiani messicani e poi nella regione andina, raggiunta attraverso le valli del Magdalena e dai porti del Pacifico (come Lima) guadagnati superando l'istmo panamense. E proprio sul lato del Pacifico si ebbero le basi della prima organizzazione territoriale avviata dai colonizzatori spagnoli. La fondazione dei centri atlantici fu successiva e iniziò con la creazione, da parte dei portoghesi a cui spettava di diritto, per via del Trattato di Tordesillas (1494), tutta la parte orientale del continente, dei primi centri portuali nel Pernambuco, poi via via sulle coste più meridionali, dove ben presto il Río de la Plata, in mano agli spagnoli, divenne uno dei vertici di tutto il continente, legato con vie transcontinentali alle Ande e alla sponda opposta del Pacifico. L'apporto umano europeo nei primi secoli non fu numericamente molto consistente. La stessa colonizzazione portoghese sulla costa atlantica, che avviò per prima lo sfruttamento di piantagione (le Ande furono sempre terre di sfruttamento minerario), non favorì un cospicuo insediamento europeo. In effetti i grandi proprietari delle piantagioni, che costituirono dei veri e propri feudi (sulla base delle encomiendas, assegnazioni gratuite delle terre) intorno alla loro dimora, la Casa Grande, si valevano di schiavi indios. Il contatto tra indios ed europei, che nell'America Settentrionale si risolse in una graduale estromissione dei primi per far posto al colono bianco, nell'America Meridionale si esplicò come sfruttamento dell'indio nei lavori minerari e di piantagione. Ma fu un contatto altrettanto pernicioso. Le malattie si diffusero con estrema facilità. Il problema della loro difesa non fu risolto neppure dalla creazione delle reducciones a opera dei gesuiti, cioè dall'organizzazione di comunità autonome come fu tentato specialmente nel Paraguay. Da ciò prese il via l'introduzione di schiavi neri dall'Africa, auspicata dal vescovo B. Las Casas, che si protrasse per secoli, immettendo nell'America Latina l'elemento africano, componente fondamentale di quel tríptico racial (indios, bianchi, neri) che caratterizza in diversa misura il subcontinente. I bianchi puri sono massicciamente insediati nelle zone ambientalmente più favorevoli, dove si hanno anche le maggiori concentrazioni umane. La composizione dei bianchi per nazionalità vede in primo piano spagnoli, portoghesi e italiani, sovrappostisi ai creoli, cioè ai bianchi di più antica immigrazione e in generale rimasti immuni da meticciamenti con indios e neri. La grande immigrazione latina nell'America Meridionale in effetti è iniziata a partire dalla fine del sec. XIX. Le prime grandi ondate sono state spagnole, dirette prevalentemente a Cuba, in Argentina, Uruguay e Brasile: complessivamente hanno raggiunto l'America Latina ca. 2 milioni di spagnoli. I portoghesi, insediatisi massimamente in Brasile, sono stati 1,2 milioni. L'immigrazione italiana, sospinta nell'America Meridionale specie dopo le restrizioni imposte dagli Stati Uniti, è avvenuta specialmente nel Novecento e ha portato nel subcontinente ca. 2,6 milioni di persone, insediatesi in prevalenza nel Brasile e nell'Argentina. Sempre all'immigrazione recente si deve l'apporto francese (circa mezzo milione), tedesco, scandinavo, slavo, anglosassone. Ogni nazionalità si è diretta preferibilmente in certi Paesi formando delle comunità che hanno conservato la loro individualità, specie nelle zone di colonizzazione più isolate (tedeschi del Paraguay e del Cile, italiani dell'Argentina nordoccidentale, ecc.). Nel caso dei francesi e degli inglesi, come degli olandesi, occorre tener conto dell'attrazione esercitata dai loro possedimenti coloniali (Guyane e isole caraibiche). L'esiguità dell'originario velo umano, l'ampiezza delle superfici e la molteplicità delle popolazioni successivamente immigrate furono i fattori che diedero al popolamento del continente quei caratteri di libertà che risaltano ancor oggi nel suo tessuto geografico. Vi è stato cioè un adattamento ambientale via via suggerito dalle opportunità economiche e commerciali; il tutto agevolato dalle prime scoperte industriali che sono un aspetto inscindibile della “conquista” del continente. Alla metà dell'Ottocento l'America Latina ospitava complessivamente 33 milioni di abitanti; oggi essa accoglie quasi 550 milioni di ab. e, pur avendo riscontrato un rallentamento della dinamica naturale (la quasi totalità dei Paesi centroamericani e alcuni sudamericani fanno comunque registrare tuttora valori di natalità compresi fra il 15 e il 30‰ annuo), ha visto la propria popolazione crescere in media, nel periodo 2002-07, di percentuali l'1 e l'1,6%; verosimilmente il carico demografico passerà a cifre attorno ai 700-750 milioni di ab. nel 2030: quantità, il carico demografico passerebbe a cifre attorno ai 700-750 milioni di ab. nel 2025: quantità del tutto sopportabile in considerazione delle risorse potenziali (la densità relativa si aggirerebbe attorno ai 35 ab./km², contro i ca. 25 attuali), ma non della capacità di utilizzazione delle stesse che il subcontinente è finora riuscito a esprimere. Un grave problema socio-demografico che, a partire dagli anni Duemila, si sta ulteriormente normalizzando, è dato dalla mortalità infantile, che sfiora ancora il 50‰ in grandi Paesi latino-americani come la Bolivia, aggirandosi attorno al 20‰ in numerosi altri; mentre, per confronto, l'America anglosassone si trova al di sotto del 7‰, ovvero su un valore considerato fisiologico.
Distribuzione della popolazione e forme d’insediamento: America Settentrionale
L'area dei primi approdi è stata ed è tuttora la parte più vitale dell'America Settentrionale e ciò perché “sponda” dell'Atlantico, in diretto rapporto con l'Europa, la quale alimentò non solo l'immigrazione ma anche l'economia delle nuove terre. È una regione oltretutto favorevole per molti motivi: per la sicurezza dei porti naturali, per il clima simile a quello europeo, per la fertilità del suolo e per le ricchezze minerarie delle zone interne più vicine. Proprio nella fascia atlantica si sono avute sin dall'origine della colonizzazione le massime densità: ancor oggi essa accoglie poco meno del 50% dell'intera popolazione nordamericana, ed è una delle regioni del mondo più sviluppate industrialmente, sede di concentrazioni urbane gigantesche, felicemente denominate da J. GottmannMegalopolis. La densità media raggiunge e supera su vaste zone i 200 ab./km². Di quest'area fa parte la regione che si stende intorno ai Grandi Laghi e al corso superiore del San Lorenzo, le cui motivazioni geografiche si trovano sia nella vicinanza ai porti atlantici, sia nella ricchezza mineraria (e industriale), sia nel suo legame con l'interno. Altre aree di elevata densità sono quelle che si affacciano al Golfo del Messico, dove si concentrano importanti attività agricole, industriali e minerarie, e quella che guarda al Pacifico, con massimi addensamenti umani nella California: è la nuova sponda dell'America Settentrionale, l'approdo della grande e inesausta corsa verso l'Ovest e anche attualmente una delle aree di maggior attrazione in rapporto agli sviluppi economici, alle sue aperture sempre più forti verso il Pacifico e verso l'Asia, nuovo partner commerciale privilegiato degli Stati Uniti. La densità media in queste aree si aggira attorno ai 50 ab./km², valore localizzato in ambiti ristretti, mancando alla facciata occidentale la continuità dell'insediamento che si riscontra nell'Est. Tutta la restante vastissima parte dell'America Settentrionale forma un'area di densità relativamente bassa: si tratta infatti di regioni essenzialmente agricole o addirittura disabitate (come nelle Montagne Rocciose e nel Canada settentrionale). La parte più popolata dell'interno è quella appalachiana che, grazie alle precipitazioni, consente forme più intensive d'agricoltura; in generale a mano a mano che si procede verso W il popolamento si dirada, benché su spazi vastissimi si registrino valori quasi eguali di densità: è il caso della grande regione granaria che verso N si estende sin quasi ai 60º di latitudine. L'elevata densità delle aree focali della geografia nordamericana è anche legata allo sviluppo dell'urbanesimo. Circa l'80% della popolazione vive nelle città, ma la maggior parte di essa si trova sulla facciata atlantica. Qui una serie di città milionarie si allinea sugli sbocchi fluviali e intorno ai Grandi Laghi. Un fatto unico è rappresentato da New York, una delle più vaste metropoli del mondo, distesa intorno all'estuario dell'Hudson, cioè felicemente disposta nei rispetti sia delle comunicazioni con l'interno sia con l'oltreoceano. Con giustificazioni analoghe rispetto alle comunicazioni sorgono le altre grandi città dell'interno: Montréal, Toronto e Chicago, e, sulla sponda atlantica, le città portuali di Boston, Filadelfia, Baltimora. Nella regione mineraria interna appalachiana sorgono invece città con funzioni marcatamente industriali. Tutto questo concentramento di città forma il “cuore” dell'America Settentrionale dal quale si diramano le relazioni che vivacizzano i poli urbani interni e secondari (come Saint Louis sul Missouri, come le città canadesi delle “pianure” ecc.), mentre sulla facciata del Pacifico e sul Golfo del Messico sono altri importanti centri focali, rappresentati da grandi città come San Francisco, Los Angeles, Seattle, Vancouver da un lato, New Orleans e soprattutto Houston dall'altro. In America Settentrionale si evidenziano due fenomeni, entrambi legati al processo di urbanizzazione: un rallentamento (o addirittura un'inversione) nella crescita delle città centrali; una sensibile tendenza al rafforzamento delle aree metropolitane affacciate alla costa occidentale, più marcato negli Stati Uniti (San Francisco, Los Angeles) che nel Canada (Vancouver) per evidenti motivi climatici. Il primo fenomeno, definito genericamente “controurbanizzazione”, ben lungi dal segnare la decadenza di funzioni direzionali e innovative, rappresenta l'ulteriore diffusione dell'effetto-città, accompagnato dal decentramento residenziale. Infatti, le corone e le periferie delle grandi metropoli del NE (New York, Boston, Filadelfia, Baltimora, ovvero la Megalopolis di Gottman; Chicago, Detroit, Cleveland, Montréal, Toronto) hanno fatto registrare, ancora negli ultimi decenni del Novecento, incrementi di popolazione compresi fra il 10% e il 25%. Il secondo fenomeno vede ormai chiaramente delineata una nuova “megalopoli” nel SW degli Stati Uniti (Los Angeles e San Francisco assommano, come aree metropolitane, più di 26 milioni di ab.) e segna la forte apertura dell'economia nordamericana verso l'area dell'oceano Pacifico. I flussi di immigrazione, pur se controllati e rallentati, non hanno cessato di contribuire alla crescita demografica; e mentre il processo di assimilazione dei gruppi etnici di provenienza esterna (soprattutto dal Centroamerica) non può dirsi compiuto, riaffiorano le tensioni nella componente francofona della popolazione canadese e si prendono in considerazione possibili forme di autogoverno dei popoli autoctoni (così per gli inuit del Canada). La città nordamericana non è come la città europea, chiusa, monocentrica, ma è un struttura aperta, con una city dominata dai grattacieli, sedi di banche, di società industriali e commerciali e una vasta periferia di case per lo più unifamiliari com'è nel costume dell'urbanesimo d'estrazione britannica. Nella regolarità del suo tessuto di streets e avenues essa riflette la libertà da vincoli rispetto al passato, la sua novità, mentre la sua vastità è giustificata dalla motorizzazione che si è affermata nell'America Settentrionale prima che in altre parti del mondo e che ha determinato la creazione di grandi freeways fin dentro il cuore delle città. Sulle vie di comunicazione ferroviarie, stradali e fluviali che legano da parte a parte il continente si hanno centri minori, molti dei quali sorti e sviluppatisi con funzioni specifiche (minerarie, commerciali, turistiche ecc.). Da essi dipendono infine i piccoli nuclei rurali e le farms, le fattorie che costellano l'intero territorio, distribuite secondo una densità che dipende dal tipo di coltura. Tutti gli insediamenti, le strade e il tessuto parcellare delle campagne dell'America Settentrionale si adeguano a uno schema costituito da quadrati (townships) e da rettangoli (rangs, propri di certe zone canadesi) che sono una testimonianza di quella libera e semplice forma di occupazione territoriale che ha presieduto alla conquista europea dell'America Settentrionale.
Distribuzione della popolazione e forme d’insediamento: America Centrale e Meridionale
Le capacità di contenimento dell'America Meridionale e Centrale sono ancora enormi e il popolamento si spinge, sia pur lentamente data la povertà degli incentivi economici, verso le zone spopolate dell'interno, in particolare dell'Amazzonia, sulla scia dei primi pionieri, i bandeirantes. Quest'ultima spinta è naturalmente imposta dallo stesso rapidissimo sviluppo demografico, che registra nell'America Latina valori tra i più alti della Terra (escluso il caso africano). Il tasso annuo di incrementosi aggira attorno all'1,5% e in alcuni Paesi, come l'Honduras, raggiunge il 2,3%. La grande crescita demografica non è più determinata oggi dall'immigrazione, ma è quasi interamente sostenuta dall'elevata natalità, che è il risultato di particolari condizioni sociali e in ogni caso esprime le caratteristiche proprie dei Paesi in via di sviluppo. La distribuzione umana rispecchia ancora le strutture proprie dell'epoca coloniale, sebbene tanti aspetti della vita e della geografia latino-americane siano mutati. Le aree più densamente popolate sono, sul lato dell'Atlantico, la regione platense e la costa brasiliana, cioè là dove si sono formati i primi importanti vertici dell'organizzazione territoriale coloniale, che aveva nei porti i maggiori centri d'interesse. In quest'area si trovano le più grandi città dell'America Meridionale, tutte portuali, tranne San Paolo, metropoli che ha proposto la prima grande conquista dell'interno. Altra area di popolamento si trova sulla costa venezuelana, nel Mar delle Antille, e continua verso le vallate del bacino fluviale del Río Magdalena fino alle alteterre di Bogotá e a quelle ecuadoriane, dove la popolazione si concentra nelle conche e nei versanti delle tierras templadas. Sulla costa del Pacifico si hanno aree di elevato popolamento intorno al porto di Guayaquil; altra regione densamente popolata è quella di Santiago. In tutte queste zone si hanno tra i 50 e i 200 ab./km². Altrove si registrano densità bassissime, come nell'Amazzonia (meno di 1 ab./km²). La percentuale di popolazione residente in città è notevolmente aumentata nei decenni recenti, e i maggiori Paesi, come Messico, Brasile e Argentina sono giunti ad avere percentuali di popolazione urbana superiori al 75% (Messico 77%, Brasile 86%, Argentina addirittura 92%). L'urbanesimo ha origini antiche: è stato impostato dai primi conquistadores con il piano di costruzione di Città del Messico ispirato alle città spagnole, di pianta quadrata, con calles e avenidas che si incrociano ad angolo retto, e con un centro dove sorgono gli edifici governativi e la cattedrale. Le prime città spagnole furono centri minerari e alcune, come Potosí in Bolivia, divennero popolosissime già nel sec. XVI. Le principali furono però quelle sorte come porti che legavano l'America all'Europa: Lima, Buenos Aires ecc. L'urbanesimo moderno è fiorito sulle premesse economiche coloniali e si è sviluppato più o meno in rapporto alle attività dell'entroterra: Buenos Aires come sbocco delle ricche pampas, al pari di Montevideo; Rio de Janeiro e San Paolo come poli dell'area del caffè ecc. Alcune sorsero sulla spinta di fortune provvisorie ed effimere, come Manaus, la capitale amazzonica del caucciù. Oggi nell'America Latina vi sono circa 45 città milionarie e l'urbanesimo è in continua crescita, ponendo problemi assai gravi quali la diffusione delle favelas, delle villas miserias, delle quebradas, città provvisorie, di casupole, ai margini delle strutture urbane dei grandi centri, ricettacolo di gente non integrata nella vita delle città. Queste hanno in generale centri moderni, vivacissimi, con grattacieli e architetture talora spregiudicate, come per esempio San Paolo, Caracas, Santiago ecc. Mentre alcuni governi (per es. di Argentina, Brasile, Colombia e Venezuela) adottano incentivi per lo sviluppo delle città piccole e medie, continua quel processo di concentrazione che ha portato Città del Messico e San Paolo, con oltre 20 milioni di ab., a costituire alcune delle massime agglomerazioni urbane del mondo intero, Buenos Aires a sfiorare i 13 milioni e Rio de Janeiro a superare gli 11, Lima gli 8,6 e Santiago i 6 milioni. L'analisi relativa all'evoluzione del fenomeno urbano evidenzia che resta valido lo schema concettuale che distingue nettamente il processo di urbanizzazione, ormai del tutto maturo nell'America anglosassone, da quello di urbanesimo, tipico dell'America Latina. Sorprende, pertanto, riscontrare ancora macroscopiche confusioni terminologiche, per cui si arriva a definire “megalopoli” una Città del Messico che rappresenta il fenomeno esattamente opposto, quello dell'agglomerazione, cresciuta a macchia d'olio, fino a contare un numero di abitanti neppure esattamente precisabile, e comunque, come si è detto, superiore ai 20 milioni. Esempio-limite di crescita monocentrica, questa enorme concentrazione si diversifica, in effetti, dalle città-fungo africane o asiatiche (dove le attività economiche sono limitate per lo più all'apparato burocratico e commerciale) in quanto vi operano ca. 27.000 stabilimenti industriali e vi circolano diversi milioni di autoveicoli, determinando tassi di inquinamento paurosamente elevati. Pur in sé drammatica, questa situazione – che si riproduce, in diversa misura, nelle altre grandi agglomerazioni latino-americane con popolazione milionaria – dà il segno di uno sviluppo in atto, certamente caotico, da cui si possono però ricavare prospettive di una crescita finalmente più solida. Già la regione di San Paolo vede numerose città con oltre 100.000 ab. manifestare la tendenza a un'integrazione funzionale con la metropoli centrale, la quale, a sua volta, inizia a deglomerare le proprie attività; lo stesso accade nell'area metropolitana di Lima, mentre altri grandi Paesi, come Venezuela e Colombia, mirano a rafforzare una rete urbana sempre più diffusa sul territorio. Si tratta, auspicabilmente, della prima fase di quel processo di urbanizzazione che, nell'America anglosassone, ha condotto alla formazione delle megalopoli propriamente dette. Nelle campagne la popolazione vive in villaggi o in fattorie (fazendas o haciendas, in portoghese o in spagnolo), le cui caratteristiche variano alquanto da zona a zona. Nella regione andina il villaggio ospita comunità che vivono ancora secondo modi tradizionali e presenta quindi spesso le caratteristiche più autentiche dell'insediamento agricolo. Altrove si tratta di centri rurali che ospitano anche attività commerciali e artigianali; ovunque però l'abitazione è modesta e senza caratteri originali, tranne là dove meglio si è conservata la tradizione india o dove le comunità d'origine europea hanno ripetuto fedelmente i modelli della madrepatria.
Economia: America Settentrionale
L'economia dell'America Settentrionale viene spesso identificata con quella degli Stati Uniti, in quanto, certamente, questo Paese ne rappresenta il cuore e, dal punto di vista quantitativo, la massa determinante. Tuttavia, dal punto di vista geografico, vi partecipa anche uno dei più grandi Stati latino-americani, il Messico, la cui funzione, in passato, è stata soprattutto quella di fornitore di manodopera a basso costo, in buona parte transfrontaliera o addirittura clandestina, ma che, dal 1994, con l'ammissione al NAFTA, tende sempre più a integrarsi con l'America anglosassone, dizione comprendente anche il Canada, nonostante quest'ultimo sia un Paese bilingue con minoranza francofona . Le basi strutturali dell'economia nordamericana sono andate formandosi all'epoca della prima colonizzazione britannica, nella conquista e nello sfruttamento di vasti spazi continentali ricchi di risorse di ogni genere. A cominciare dai primi decenni dell'Ottocento, mentre le regioni meridionali, caratterizzate dalla grande proprietà latifondista e dallo schiavismo, conservavano il loro carattere essenzialmente agricolo, nelle regioni nordorientali, dove i traffici con l'Europa avevano comportato lo sviluppo di una società capitalistico-mercantile, vennero compiuti sensazionali progressi tecnologici favoriti dalla rilevante disponibilità di capitali e di materie prime. Da essenzialmente agricolo-commerciale, l'economia nordamericana andò trasformandosi in agricolo-industriale attraverso ingenti investimenti, soprattutto nel settore delle costruzioni meccaniche, in connessione con lo sviluppo delle ferrovie e con la meccanizzazione dell'agricoltura. In breve tempo la produzione poté competere con quella delle più avanzate industrie europee, e il successivo processo di trasformazione economica fu più rapido che in Europa, portando alla formazione di grandi patrimoni personali e alla creazione di gigantesche società monopolistiche (trusts) tendenti ad assumere il controllo di interi settori produttivi, dalle materie prime alla lavorazione industriale e alla distribuzione commerciale. Ne conseguì uno sviluppo tale da comportare la ricerca e la conquista di nuovi mercati mondiali, in un fervore di iniziative che non tardarono a trasformare l'America Settentrionale, e in particolare gli Stati Uniti, nella parte del mondo economicamente più avanzata. Essa detiene tuttora questo primato, ma in misura meno rilevante che in passato. Il colosso nordamericano continua, tuttavia, a guidare l'economia, ancor più con il consolidarsi della rivoluzione geopolitica che, fra gli anni Ottanta e Novanta, ha profondamente modificato gli equilibri su scala planetaria e nonostante le ripercussioni economiche verificatesi in seguito agli attentati di New York e Washington dell'11 settembre 2001. L'esplosione di una nuova crisi congiunturale nel 2008 (la cosiddetta crisi dei mutui suprimes) ha dimostrato tutte le difficoltà del sistema economico statunitense nel sostenere i tassi di crescita del prodotto e l'occupazione, problema cruciale quest'ultimo, per cui anche l'America anglosassone vede allargarsi le fasce di povertà, e non più soltanto agli immigrati (soprattutto latino-americani) o ai gruppi neri e amerindi, ma anche alla popolazione bianca. Quanto al reddito pro capite, per quanto mediamente superiore a quello dei Paesi industriali dell'Europa occidentale, presenta forti sperequazioni distributive, determinate, oltre che da una notevole concentrazione della ricchezza alla sommità della piramide sociale, anche da fasce salariali molto differenziate e da un largo strato di emarginazione. Nella seconda metà degli anni Novanta, una nuova fase espansiva dell'economia statunitense ha consentito di fronteggiare, pur con difficoltà, la crisi finanziaria esplosa nell'area del Pacifico e nella stessa America Meridionale, mentre il Messico, superato grazie al sostegno determinante degli stessi Stati Uniti il crollo (1995) della propria moneta, ha ripreso la via dello sviluppo con sorprendente rapidità. Nonostante la formidabile concentrazione industriale e terziaria, la solidità economica dell'America Settentrionale rimane legata alla grande disponibilità e ricchezza degli spazi destinati alle attività primarie, con prospettive di ulteriore valorizzazione in rapporto alle crescenti necessità alimentari della popolazione mondiale, di cui l'agricoltura nordamericana, con le proprie esportazioni, rappresenta, da sempre, una base fondamentale. Considerevole è la varietà delle colture consentita dalle diverse condizioni ambientali e climatiche del vasto territorio . La parte meridionale, indicata nell'Ottocento come il "regno del cotone", rappresenta ancor oggi, con l'ampia fascia subtropicale del Cotton Belt, una delle maggiori aree cotoniere del mondo, fornendo inoltre varie altre produzioni di tipo industriale, soprattutto oleifere. Più a nord si estende il Corn Belt, la grande area del mais, in cui è concentrata poco meno della metà della produzione mondiale di granoturco, destinato per gran parte agli allevamenti di bestiame e all'esportazione. L'area granaria si estende nella fascia compresa tra Canada e Stati Uniti, con una produzione destinata, per buona parte, ai mercati esteri, ma che si tende a ridurre per dare spazio a colture più redditizie, tra cui la soia (ca. il 30% della produzione mondiale), largamente impiegata negli allevamenti di animali da carne. La frutticoltura, e più in particolare l'agrumicoltura, è sviluppata soprattutto nelle aree irrigate della regione del Pacifico, dove notevole importanza ha anche l'orticoltura. La zootecnia è presente in tutte le aree agricole, con un alto grado di specializzazione; nelle aree del Centro e dell'Ovest sono situati gli allevamenti estensivi per la produzione di carni destinate ai mercati di Chicago e delle città delle Grandi Pianure, mentre nella fascia atlantica e nella regione dei Grandi Laghi, sia in Canada sia negli Stati Uniti, sono localizzati gli allevamenti specializzati nella produzione lattiero-casearia , favoriti dalla vicinanza ai grandi centri di consumo. Nel suo complesso, l'agricoltura nordamericana si è, con il tempo, profondamente rinnovata, assumendo le caratteristiche di un'imprenditoria molto complessa e su vasta scala, attraverso l'impiego di ingenti capitali e di alta tecnologia. Questo processo di radicale trasformazione è stato accompagnato da una profonda modifica delle basi sociali e culturali della popolazione agricola e da una crescente concentrazione delle unità produttive. Ne è conseguito un drastico calo della popolazione agricola, scesa ad appena l'1,4% dell'intera popolazione attiva (il Canada si trova all'incirca sullo stesso livello, con il 3,4%, mentre nel Messico l'incidenza del settore primario sul totale della popolazione attiva, alla metà degli anni Novanta, sfiorava ancora il 13,5%). Parallelamente sono andati accentuandosi due fenomeni: da un lato, la tendenza dei piccoli proprietari a trarre una parte dei loro redditi da attività extra-agricole, dall'altro il rapido aumento delle aziende di grandi dimensioni (costituitesi attraverso l'incorporazione di proprietà piccole e medie), il che ha favorito l'introduzione di nuove e costose tecnologie, compatibili solo con applicazioni su larga scala e miranti a estendere il campo d'attività dalla produzione all'immagazzinamento e alla conservazione, al trasporto e alla vendita sui mercati nazionali e internazionali. Alle cospicue risorse agricole si affiancano quelle forestali che alimentano, soprattutto nel Canada, importanti industrie del legno e della carta, costituendo la massima ricchezza di aree che, per le particolari condizioni ambientali e climatiche, risultano difficilmente sfruttabili in altro modo. Anche alla pesca è legata una rilevante attività industriale, potendo contare su navi e porti adeguatamente attrezzati. Notevole è la pescosità delle acque sia occidentali, dove abbondano i salmoni, sia orientali, dove è particolarmente sviluppata, presso i banchi di Terranova, la pesca del merluzzo, delle aringhe e delle aragoste. Lungo entrambe le coste (baia di Chesapeake, Long Island Sound, golfo di San Francisco ecc.) e nel golfo del Messico si trovano inoltre allevamenti di ostriche. § Nonostante l'intenso sfruttamento al quale sono state sottoposte le risorse del sottosuolo, ricchissimo rimane il patrimonio minerario, costituito soprattutto da carbone, petrolio, ferro, rame, zinco, nichel, piombo, stagno, bauxite, molibdeno, argento, oro, platino, uranio, fosfati naturali ecc. Per gran parte di queste produzioni, a cominciare da quella petrolifera, il continente nordamericano detiene quote pari o superiori al 20-30% del totale mondiale: nonostante ciò, la domanda espressa dall'imponente settore industriale ha determinato l'esigenza di ricorrere ad importazioni, spesso motivate, invero, anche dall'opportunità di reperire, sui mercati internazionali, materie prime a costo più basso, senza impoverire ulteriormente le riserve accertate, già sottoposte a un lungo sfruttamento e, in alcuni casi, relativamente scarse. Così è accaduto per il petrolio, di cui pure gli Stati Uniti restano il tterzo produttore mondiale, dopo l'Arabia Saudita e la Federazione Russa, con ca. 250 milioni di t annue: ai giacimenti di Texas, Louisiana e California, e a quelli ubicati sulla costa settentrionale dell'Alaska, di scoperta più recente (e collegati, dal 1977, con la costa pacifica mediante l'oleodotto Prudhoe-Valdez, lungo 1280 km), si aggiungono i giacimenti canadesi (quasi 130 milioni di t annue) e, soprattutto, messicani (ca. 140 milioni di t annue), in parte offshore (Golfo del Messico) e ricchi anche di gas naturale. Dopo le crisi petrolifere degli anni Settanta, quando il costo delle importazioni subì un'improvvisa formidabile impennata per le restrizioni produttive imposte dai Paesi dell'OPEC, e nonostante la successiva ridiscesa dei prezzi fino ai livelli molto bassi degli anni Novanta, preludio al nuovo aumento verificatosi negli anni Duemila, si sono impostate politiche di contenimento dei consumi, da un lato, e di utilizzazione di fonti energetiche alternative, dall'altro. Le centrali nucleari forniscono poco meno del 20% dell'elettricità prodotta attualmente da USA, ca. il 15% per quanto riguarda il Canada; per quanto riguarda le fonti energetiche tradizionali, quali il carbone e l'acqua, ca. la metà dell'energia statunitense è fornita da centrali a carbone e ben il 60% di quella canadese è di origine idrica. Il patrimonio idroelettrico del Canada, in particolare, è tuttora sottoutilizzato, ma gli stessi Stati Uniti dispongono di notevoli potenzialità grazie a bacini artificiali di grandi dimensioni (come quelli realizzati sui fiumi Missouri, Tennessee e Colorado), impiegati altresì per l'irrigazione di vaste aree agricole; anche il Messico ricava dalla fonte idrica circa il 20% della sua energia. L'industria di trasformazione, fondata sul modello della grande impresa integrata fordista almeno fino a tutti gli anni Sessanta, è ormai all'inizio del Duemila verso un declino definitivo, legato sia al decentramento produttivo sia ai nuovi modelli localizzativi orientati non più verso la concentrazione, bensì verso la diffusione territoriale degli impianti, generalmente di minori dimensioni. Il Nordamerica rimane comunque una delle aree più industrializzate del mondo, comprendendo i maggiori complessi produttivi e detenendo il primato in vari settori, soprattutto in quelli a più elevata tecnologia, il cui sviluppo è stato favorito dai programmi spaziali e militari: è il caso del comparto informatico, sviluppatosi a ritmi sostenuti, soprattutto per i prodotti di più largo consumo, durante gli anni Ottanta e diffusosi a partire dai laboratori californiani. Particolarmente massiccia è la presenza nel settore dell'industria aeronautica e, per quanto in regresso, anche il settore automobilistico occupa ancora una posizione di primo piano nel panorama industriale americano, contribuendo per ca. un quinto alla produzione mondiale di autoveicoli. In questo, come in altri settori, è fortemente aumentata, negli ultimi decenni, la concorrenza delle industrie europee ed asiatiche, con in testa il Giappone e, in anni più recenti, la Cina; ma ha avuto peso anche l'accennata politica di decentramento geografico dei segmenti produttivi più “maturi” da parte sia delle grandi multinazionali, quali IITT, Ford, General Motors, IBM ecc., sia di società relativamente modeste, allo scopo di accedere direttamente ai mercati di vendita, come nel caso delle industrie americane installate in Europa, o di trasformare sul posto le materie prime, di cui sono produttori vari Paesi del Terzo Mondo, o di impiegare manodopera a basso costo, reperibile soprattutto in alcune aree latino-americane e asiatiche § Fatto saliente dell'economia nordamericana è stato, alla metà degli anni Novanta, la formale entrata in vigore, del NAFTA (North American Free Trade Agreement), accordo di libero scambio già avviato, nel 1989, fra Canada e Stati Uniti, e in seguito esteso anche al Messico. Obiettivo dell'accordo è l'eliminazione, della quasi totalità delle tariffe doganali esistenti fra i tre Stati, con particolare riferimento ai prodotti agricoli, tessili e meccanici; i soli comparti in cui permarrebbero forme di protezione sono le industrie statunitensi di materiale aeronautico e per radiocomunicazioni, quelle messicane dei settori energetico e ferroviario, nonché le attività culturali canadesi. Particolare rilevanza assumono la liberalizzazione dei trasporti su gomma, dei settori finanziario e assicurativo, degli investimenti statunitensi in Messico. Componente strategica dell'accordo sono le cosiddette "regole d'origine", tendenti a determinare la quota del valore di un bene necessaria perché esso possa essere considerato prodotto all'interno dell'accordo. Con una popolazione che sfiora i 450 milioni di ab. e un prodotto interno lordo secondo solo a quello dell'Unione Europea dei 27 Paesi, la nuova comunità rappresenta un formidabile potenziale demo-economico e, attraverso la “cerniera” della partecipazione messicana, la possibile base per la futura coesione dell'intero continente americano. Punto debole è, certamente, il grande divario fra i partner: il Messico, con un terzo della popolazione, presenta un valore del PIL pro capite quattro volte e mezza inferiore rispetto agli altri due Paesi. Inoltre, poiché la struttura industriale messicana è basata per lo più su impianti di assemblaggio, i cui prodotti vengono già ora esportati negli USA in regime di esenzione daziaria, si è ingenerata la preoccupazione che le parti componenti di provenienza europea o asiatica possano così trovare una "via di transito" per conquistare i mercati nordamericani. Per questo motivo, per esempio, è stata fissata una quota di componenti americane nell'industria automobilistica; mentre per tessili e abbigliamento è previsto l'impiego di materie prime e semilavorati statunitensi, con il ricorso al mercato messicano qualora essi non fossero disponibili sul mercato interno. In altri casi, le regole sono meno rigide e, comunque, tali da non configurare forme larvate di protezionismo. Sono state stabilite anche forme di convenzione finalizzate alla protezione ambientale, con particolare riferimento alla fascia di confine fra Stati Uniti e Messico, dove è atteso un più forte impatto della localizzazione industriale. Inoltre sono state previste sanzioni per eventuali violazioni, da parte degli Stati membri, degli accordi sulla protezione dei diritti dei lavoratori, specie per quanto concerne la protezione del lavoro minorile. Al servizio delle complesse attività che sostengono l'economia nordamericana vi è una rete di comunicazioni fortemente integrata ed efficiente. Per la storia stessa del popolamento e della struttura urbano-industriale, essa fa capo alla regione nordorientale estesa fra la “megalopoli” atlantica e i Grandi Laghi, con le principali città di New York (massimo centro portuale), Montréal e Chicago (principale nodo aereo). La sezione orientale del subcontinente è attraversata da una rete di vie d'acqua che nelle Grandi Pianure ha il suo asse nel Mississippi; il fiume è anche legato ai Grandi Laghi, a loro volta collegati all'Atlantico dalla Saint Lawrence Seaway, via d'acqua accessibile anche a navi oceaniche che trasportano soprattutto prodotti granari e minerali. Il tessuto delle strade e delle ferrovie è particolarmente fitto nella regione industriale e urbanizzata dell'Est, mentre si dirada verso l'Ovest e verso il Nord. Le linee ferroviarie (un terzo ca. della rete mondiale) e stradali tra le due sponde oceaniche rappresentano, a livello continentale, sia negli USA sia nel Canada, gli assi fondamentali delle comunicazioni: su di essi è proceduta, fin dalla fine dell'Ottocento, quella conquista dell'Ovest che ha definitivamente fissato le linee dell'organizzazione territoriale. L'America Settentrionale ha infine una rete aerea fittissima, più che mai importante in un subcontinente così vasto. Essa è sostenuta dalla poderosa industria aeronautica e da un'organizzazione che gradatamente ha fatto dell'aereo un mezzo di trasporto in concorrenza con la ferrovia, assorbendo oltre la metà del traffico mondiale. Gli scambi di merci con l'esterno sono assicurati dai grandi porti atlantici e pacifici, le cui attività danno la misura delle aperture del continente nordamericano che, posto tra due oceani, è divenuto perno fondamentale della geografia mondiale, con i suoi giganteschi apparati produttivi e con la sua potenza finanziaria. § Accentuata rispetto ad altre regioni del globo è, dunque, la terziarizzazione dell'economia: il settore dei servizi assorbe infatti una quota di addetti pari a due terzi ca. della forza lavoro (negli Stati Uniti la percentuale arriva al 78%), contribuendo in misura analoga alla formazione del prodotto interno lordo (per gli USA, il 77%). Negli Stati Uniti, in particolare tra il 1960 e il 1980, i posti creati intorno a tali attività furono nove volte più numerosi di quelli offerti dall'industria: trasporti e commercio, già maturi e ampiamente rappresentati all'inizio dello stesso periodo, hanno espresso tassi di crescita sempre più ridotti rispetto a quelli fatti segnare tanto dai servizi a livello altamente qualificato (all'interno dell'amministrazione pubblica e privata, nel quaternario ecc.), quanto da quelli caratterizzati da attività banali ad alta intensità lavorativa richiedenti scarsa qualificazione professionale (imprese di pulizia, ristorazione ecc.). L'agglomerarsi di unità del settore ad alta redditività nelle zone urbane centrali si è andato accentuando con il passare degli anni: ne è derivata la formazione di quello che si è individuato come tipico elemento costitutivo della città nordamericana, il Central Business District (CBD). Anche su scala regionale, i centri di comando dell'economia, ovvero le sedi delle grandi corporations e dei maggiori istituti bancari, sono caratterizzati da una localizzazione accentrata che privilegia la zona nordorientale, dalla megalopoli, attraverso i Grandi Laghi, fino alle metropoli canadesi del San Lorenzo: di quelli statunitensi, la gran parte si trova nella sola Manhattan, mentre simili funzioni direzionali, a un livello inferiore, interessano Detroit, Chicago, Filadelfia, Los Angeles, San Francisco e Dallas. In Canada e negli Usa, nel 2019 è calato il tasso di crescita del PIL, che dal 2017 aveva continuato ad aumentare; questo ha portato alla prima riduzione dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve in oltre un decennio. La disoccupazione resta estremamente bassa. La politica protezionistica di Trump è volta a sostenere le aziende statunitensi nella lotta per il dominio del mercato delle alte tecnologie, ma ha effetti negativi su alcuni come quello agricolo.
Economia: America Centrale e Meridionale
Nel contesto dell'economia mondiale, l'America Centro-Meridionale occupa tuttora una posizione decisamente marginale: basti osservare, per confronto, che, pur avendo le stesse dimensioni del NAFTA in termini di superficie, e circa 100 milioni di ab. in più, essa pesa sul valore globale delle esportazioni internazionali per il 3,7% (contro il 13,6%). Il subcontinente, pertanto, può definirsi, in prima approssimazione, tuttora sottosviluppato e, comunque, affetto da gravissimi squilibri regionali, anche all'interno delle singole unità statali, a loro volta profondamente difformi per composizione etnico-culturale, estensione territoriale e grado di industrializzazione. Nonostante il tasso medio di disoccupazione risultasse dai dati ufficiali, prima della grande crisi del 2008, inferiore all'8% (con l'eccezione significativa della Colombia, 11,4%, e di alcune isole caraibiche), buona parte della popolazione vive nettamente al di sotto della soglia di povertà, mentre una percentuale considerevole della ricchezza è goduta ancora oggi da una ristretta minoranza (un decimo della popolazione). Le cause di tale situazione vanno ricercate nel periodo coloniale, durante il quale l'America Latina, considerata per lungo tempo unicamente come terra di conquista, è stata sottoposta a un intenso sfruttamento, non accompagnato dalla creazione - come avveniva, al contrario, nelle colonie di popolamento dell'America anglosassone - di solide basi strutturali dell'economia. La storia economica latino-americana risulta significativamente caratterizzata da periodi (ciclos) più o meno strettamente legati al “drenaggio” delle risorse di volta in volta ritenute più convenienti: dapprima l'oro e l'argento dell'epoca dei conquistadores, quindi le colture tropicali (e la conseguente importazione di schiavi africani per i lavori delle piantagioni), a cominciare dalla canna da zucchero; seguì la formazione di grandi allevamenti di bestiame nelle pampas e, in età posteriore, l'interesse posto su nuove colture agricolo-industriali, tra cui il caffè, introdotto in Brasile all'inizio del Settecento. Queste forme di sfruttamento hanno comportato la forte concentrazione della ricchezza e una scarsa vocazione imprenditoriale da parte delle classi dominanti. Ne è conseguita una notevole dipendenza economica dalle ex potenze coloniali e dagli Stati Uniti, che avevano guadagnato rapidamente terreno negli ultimi decenni dell'Ottocento, favoriti dalla dottrina di Monroe, in applicazione della quale si erano andati imponendo come lo Stato-guida dell'intero continente. Sino ai primi decenni del Novecento, la potenza egemone rimase comunque l'Inghilterra che, per prima, aveva saputo approfittare delle possibilità offerte dai Paesi latino-americani come consumatori di prodotti lavorati, oltre che come fornitori di materie prime, mentre Italia e Spagna fornivano manodopera, alimentando la corrente immigratoria. La drastica riduzione dei rapporti commerciali con l'Europa, durante la prima guerra mondiale, accrebbe il peso degli Stati Uniti che, tra il 1913 e il 1929, quintuplicarono i propri investimenti nel subcontinente. Soprattutto nelle piccole repubbliche centro-americane la massiccia presenza del capitale statunitense e la protezione accordata all'oligarchia terriera ostacolarono la maturazione di una borghesia imprenditoriale, contribuendo a perpetuare i mali del sottosviluppo. La ricchezza, sotto forma di rendita, rimase accentrata nelle mani di poche famiglie, i cui interessi si andarono saldando con quelli delle grandi società agricolo-industriali statunitensi (United Fruit Company, Standard Fruit ecc.), proprietarie di immense piantagioni e detentrici del monopolio di interi settori produttivi e commerciali. Queste caratteristiche hanno contribuito a creare forti squilibri economico-sociali, aggravati da un elevato tasso di incremento demografico che, nelle aree più povere, è risultato a lungo superiore all'incremento del reddito pro capite. Un altro notevole freno allo sviluppo è rappresentato dallo stesso carattere "periferico" dell'economia latino-americana, il cui isolamento si è accresciuto nel secondo dopoguerra in seguito alla divisione del mondo in blocchi economico-commerciali, oltre che politici, riducendo il potere contrattuale di economie tra loro scarsamente integrate e spesso concorrenziali. La dipendenza da un mercato internazionale dominato dalle economie più forti ha contribuito sia a frenare lo sviluppo industriale sia a ridurre il potere contrattuale dei singoli Paesi latino-americani come fornitori di materie prime. Da un lato, infatti, Paesi come l'Argentina e il Cile, dotati di manodopera specializzata e di strutture a livello europeo, ma con mercati interni piuttosto ristretti, non sono riusciti a trovare un adeguato sbocco internazionale alle merci prodotte; dall'altro, i Paesi a economia "primaria" hanno incontrato difficoltà a collocare merci spesso eccedenti e soggette a quotazioni instabili. Nonostante le notevoli difficoltà, negli anni Ottanta la situazione generale è andata decisamente migliorando: le produzioni e le esportazioni si sono maggiormente diversificate e i prodotti industriali, soprattutto quelli non tradizionali, hanno assunto un peso crescente. Ciò è dovuto tuttavia, in larga misura, alle politiche di decentramento produttivo attuate dalle grandi imprese degli USA e degli altri Paesi maggiormente industrializzati, sia europei sia asiatici (in particolare il Giappone), mentre le iniziative endogene sono rimaste complessivamente limitate, lasciando il subcontinente in condizioni di marcata dipendenza, soprattutto dal punto di vista finanziario. Dopo l'uscita dalla grande crisi recessiva mondiale, nei primi anni Novanta è iniziata una fase espansiva, nuovamente compromessa dal crollo dei mercati azionari nel 1997 e durante la quale, comunque, i fondamenti dell'economia hanno mostrato segnali contrastanti. Nei primi anni del Duemila, superata la terribile crisi monetaria e finanziaria di uno dei colossi della regione, l'Argentina, costretta a dichiarare l'insolvenza del suo debito pubblico (defoult), la regione ha ripreso a crescere, grazie soprattutto alla dinamicità dell'economia brasiliana (il gigante sudamericano è stato paragonato ai casi di Russia, India e Cina, come attesta l'acronimo BRIC) e alle ingenti esportazioni petrolifere venezuelane. La crisi economica mondiale scatenatasi a partire dal 2008 ha però, anche qui, colpito drasticamente, sia in termini di sviluppo sia in termini di occupazione.A ritmi di crescita annua del PIL, in alcuni casi vertiginosi (come per quanto concerne Perú, Argentina e Uruguay) e negli altri casi generalmente compresi fra il 3 e il 5%, hanno fatto riscontro elevati tassi di inflazione (così, in particolare, nel caso del Venezuela). Devono pertanto consolidarsi, da un lato, le politiche di aggiustamento strutturale (riduzione del debito pubblico e massiccio ricorso alle privatizzazioni) adottate dai governi in seguito alle sollecitazioni del Fondo Monetario Internazionale (anche se la crisi argentina del 2001-02 ha in parte smentito la bontà di politiche economiche ispirate al rispetto integrale dell'ortodossia neoliberista dell'FMI), al fine di continuare ad attirare flussi di investimenti esteri, mentre resta fondamentale, dall'altro lato, il sostegno finanziario degli Stati Uniti, nella cui orbita i Paesi latino-americani continuano inevitabilmente a gravitare. E restano i già ricordati problemi socio-economici derivanti dagli squilibri fra poli di sviluppo (generalmente i nuclei centrali delle grandi agglomerazioni urbane) e aree marginali, pur se il reddito pro capite ha ormai superato, in molti Paesi sudamericani, i 5000 dollari annui a parità di potere d'acquisto (al cambio corrente i valori risultano molto inferiori), fino agli oltre 10.000 dollari di Cile, Uruguay e Venezuela nel 2008. Notevolmente più critica è la situazione dell'America Centrale, sia continentale sia insulare, dove molti dei piccoli Stati che la compongono presentano valori inferiori ai 1500-2000 dollari annui, con il caso grave di Haiti, ferma a 791 dollari per abitante e, per giunta, colpita dal grave sisma (oltre 230.000 vittime) del 2010. In ogni caso, gli incrementi del PIL complessivo – su cui si calcolano i valori medi per abitante – non si sono tradotti in benessere per la parte socialmente più debole della popolazione che, in molti casi, risulta anzi maggiormente impoverita, sia che viva nelle sterminate bidonvilles ai margini dei grandi centri urbani sia che resti aggrappata a piccoli appezzamenti di terra nelle regioni montagnose o che appartenga alla numerosa categoria dei contadini senza terra. Altro problema irrisolto è quello delle attività illegali, soprattutto connesse alla produzione e al commercio di droga: dalle aree “tradizionali” (Colombia, Perú, Bolivia), esse si vanno estendendo all'America Centrale, sia continentale sia insulare, e i tentativi di stroncarle, soprattutto da parte degli USA, incontrano formidabili resistenze, oltre che nei potenti gruppi di trafficanti, nelle masse contadine più povere, che ne traggono i mezzi di sussistenza, e nelle stesse autorità locali, allettate dai proventi del riciclaggio delle enormi quantità di danaro messe in circolazione. § L'agricoltura in media il 15-20% della popolazione latino-americana (con punte massime del 60% ad Haiti e minime, al di sotto dell'1%, in Argentina), in grande maggioranza costituita da una massa di contadini poveri, sottoalimentati e dediti a coltivazioni di pura sussistenza, soprattutto negli altopiani andini e nella regione nordorientale del Brasile (da cui trae la propria base sociale il Movimento dos Trabalhadores Sem Terra). Fatta eccezione per alcune aree e settori produttivi particolarmente evoluti, l'agricoltura latino-americana presenta un quadro generale piuttosto misero, sia per la diffusa precarietà delle condizioni naturali sia per il persistere di condizioni socio-economiche emblematicamente rappresentate dal microfondo e, all'opposto, dal latifondo: nel primo caso, appezzamenti troppo piccoli per garantire un minimo di efficienza produttiva; nel secondo, vaste proprietà sottosfruttate o specializzate in produzioni agricolo-industriali di tipo coloniale. Ne consegue una scarsa diffusione delle colture alimentari, destinate al consumo interno, rendendo necessario il ricorso a massicce importazioni di derrate che gravano pesantemente sulla bilancia commerciale di alcuni Paesi. La situazione va però gradatamente migliorando grazie al migliore sfruttamento delle terre più ricche. Nuove colture, soprattutto cerealicole, sono andate aggiungendosi o sostituendosi a quelle più tradizionali e notevoli possibilità di sviluppo si collegano alle grandi opere idriche di sbarramento e canalizzazione. Le colture dominanti rimangono comunque quelle di piantagione, come la canna da zucchero, che a Cuba e nelle Antille conserva il carattere di monocoltura. La palma da cocco prevale nelle terre istmiche e caraibiche, come anche la coltura delle banane. Gli altopiani a terra roxa del Brasile rappresentano l'area più ricca delle piantagioni di caffè, che hanno un notevole sviluppo anche nelle tierras templadas istmiche e andine. Grandi produttori di caffè sono Colombia, Messico, Guatemala, Perú, oltre naturalmente al Brasile che, con 2,2 milioni di t, fornisce poco meno di un terzo della produzione mondiale ed è anche il massimo produttore latino-americano di cacao (220.000 t ca.). Nelle regioni del Pacifico caratterizzate da clima tropicale e subtropicale si praticano colture irrigue, di piantagione e orticole, altamente specializzate. In netto contrasto con questo settore “evoluto” appare la povera agricoltura india della regione andina, che conserva tradizioni risalenti all'epoca incaica. Quanto all'allevamento, le steppe della Patagonia costituiscono la regione dell'allevamento ovino, che si spinge sino alla Terra del Fuoco. Le grandi aree interne dell'America Meridionale sono invece un unico vasto dominio dell'allevamento bovino, che si estende dai llanos dell'Orinoco al Mato Grosso, sino alle pampas della regione platense, dove ha sempre avuto i suoi territori più produttivi (il Brasile, con oltre 200 milioni di capi, è il più grande Paese allevatore di bovini). Sia nelle regioni settentrionali e centrali sia nelle pampas, l'allevamento estensivo tradizionale tende però a essere sospinto ai margini dalle colture cerealicole (l'Argentina, con oltre 14 milioni di t, è il massimo produttore latino-americano di frumento). Anche la savana brasiliana, considerata in passato una terra povera, adatta solo all'allevamento del bestiame, offre condizioni assai favorevoli allo sviluppo agricolo (specie cerealicolo), grazie ai programmi di irrigazione dell'immenso territorio. § La zona mineraria più caratteristica è quella andina, soprattutto per quanto riguarda i minerali metalliferi. Fatta eccezione per l'argento, di cui Perú, Cile e Bolivia sono tra i maggiori produttori mondiali, e l'oro nel caso del Perú (quinto produttore mondiale), scarsa importanza rivestono ormai i metalli nobili. Rilevante, invece, la produzione di rame (Cile, primo produttore mondiale, e Perú, il terzo), stagno (Perú, Bolivia, Brasile), antimonio (Bolivia), manganese (Brasile), bauxite (di cui Giamaica, Brasile, Venezuela, Suriname, Guyana, Repubblica Dominicana forniscono ca. un terzo della produzione mondiale). Non manca il ferro, che ha i suoi principali giacimenti nei massicci della regione nordorientale (Brasile, Venezuela). L'America Latina è invece povera di carbone e relativamente recente è la valorizzazione del petrolio, cui ha contribuito, oltre alla scoperta di nuovi importanti giacimenti in Venezuela, anche l'entrata in attività di giacimenti, come quelli amazzonici, che in passato, per la loro ubicazione in zone scarsamente accessibili, risultavano antieconomici. Anche le risorse off shore al largo della costa brasiliana stanno assumendo un'importanza crescente. Tra gli altri Paesi produttori figurano Trinidad, che dal petrolio ricava ben più dei due terzi del valore delle merci esportate, l'Ecuador, la Colombia, l'Argentina. Alla relativa povertà di risorse energetiche l'America Meridionale può tuttavia supplire con una enorme potenzialità di energia idroelettrica, solo in minima parte sfruttata e di cui è in corso la valorizzazione: sul fiume Paraná è in funzione la diga di Itaipu, tra le più grandi del mondo. La costruzione di nuove centrali idroelettriche dovrebbe contribuire a dare impulso all'industrializzazione, sinora basata essenzialmente sull'attività di trasformazione dei prodotti agricoli e sull'industria tessile, consentendo di potenziare anche settori di base come il siderurgico e il metallurgico; già rimarchevoli sono stati i progressi realizzati nel settore meccanico, soprattutto per quanto riguarda la produzione di elettrodomestici, autoveicoli e macchine agricole (particolarmente tumultuoso è stato lo sviluppo industriale del Brasile, che produce ed esporta persino aerei e navi), grazie al crescente interesse dimostrato dalle società multinazionali nordamericane, europee e asiatiche, i cui investimenti si sono raddoppiati rispetto agli anni Settanta. Nuovi poli di sviluppo industriale sono sorti nelle regioni dell'interno, il che comporta la creazione di grandi opere infrastrutturali, a cominciare dalle vie di comunicazione; queste vanno, in tal modo, perdendo le caratteristiche coloniali che le contraddistinguevano, in quanto basate sul collegamento delle aree agricole e minerarie ai grandi centri portuali e urbani della costa. Le maggiori carenze si riscontrano ancora nella rete ferroviaria, ancora scarsa e con pochi raccordi continentali (malgrado le ardite ferrovie transandine, in via di dismissione); vertici delle comunicazioni sono San Paolo e Buenos Aires sull'Atlantico, Santiago e Lima sul Pacifico. Tra i progetti ferroviari, un posto di rilievo occupa la linea venezuelana che, lungo un percorso molto impervio di oltre 700 km, collega Caracas a Maracaibo e Ciudad Guayana, nuovo polo di sviluppo industriale sulle rive dell'Orinoco, in prossimità di ricchi giacimenti ferrosi. Progressi maggiori sono stati compiuti nel potenziamento della rete stradale, che nel suo complesso è però tutt'altro che unitaria; tra le nuove arterie di penetrazione verso l'interno spicca la Transamazzonica, la cui realizzazione ha tuttavia generato forti preoccupazioni per il pesante impatto ambientale determinato dall'apertura di un così profondo “taglio” nella foresta pluviale. Importanza fondamentale continua a rivestire la Carretera Panamericana che, attraverso la regione andina, collega l'America Centrale con l'America Meridionale. Discreto sviluppo hanno i trasporti aerei (soprattutto in Brasile), mentre generalmente carenti risultano le strutture portuali, soprattutto in relazione all'aumento degli scambi di Paesi come il Brasile o il Venezuela. Le crescenti esigenze del traffico hanno fatto sentire anche l'insufficienza del Canale di Panama e la necessità di una nuova e più ampia via d'acqua nella regione istmica. Verso l'Atlantico l'America Latina ha ancor oggi i suoi interessi maggiori, sia per quanto riguarda l'esportazione delle materie prime sia per l'importazione dei prodotti industriali richiesti ormai in misura massiccia. § Anche per l'America Latina, in ogni caso, il futuro sviluppo dell'economia sembra legarsi agli accordi di cooperazione: accanto alle organizzazioni già esistenti (SELA, Sistema Economico Latino-Americano; MCCA, Mercato Comune Centro-Americano; CARICOM, Comunità dei Caraibi; Patto Andino, che, dopo una fase di crisi, dal 1996 ha avviato la propria sostanziale ristrutturazione), assume una particolare il MERCOSUR (Mercato Comune dell'America del Sud, entrato effettivamente in vigore dal 1995 con la partecipazione di Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, cui si è aggiunto il Venezuela nel 2006). Il valore strategico del primo di tali accordi risiede nella partecipazione del Messico che, essendo anche membro del NAFTA, potrebbe svolgere una determinante funzione di raccordo economico e politico con l'America Settentrionale. A sua volta il MERCOSUR, con la progressiva armonizzazione dei dazi doganali fra i Paesi membri e di quelli applicati nei confronti di altre comunità economiche, viene a rafforzare una situazione di fatto per cui, già dal 1991, anno di stipula del preliminare, l'interscambio fra i quattro firmatari è notevolmente aumentato. Con l'associazione a esso di Bolivia e Cile (1996), di Perú (2003), Ecuador e Colombia (2004), ma soprattutto con l'integrazione a pieno titolo, ossia in qualità di Paese membro, del Venezuela (2006), l'America Meridionale tende così, finalmente, a quell'integrazione che, limitando contrasti e disuguaglianze, potrà rendere le sue immense risorse finalmente competitive nei confronti non soltanto del Nordamerica, ma dell'intero sistema mondiale. Ciononostante, l’area continua a risentire della crisi economica del 2008 cui si aggiunge l’emergenza economica e sociale causata dalla pandemia di coronavirus (2020). Particolarmente preoccupanti risultano ancora gli squilibri sia tra Paesi (critiche le economie di alcuni stati istmici e insulari) sia all’interno di essi (Brasile e Messico nonostante siano tra le prime potenze economiche al mondo, presentano ancora gravi problemi sociali). La sempre vivace emigrazione verso l’Europa e soprattutto verso l’America del Nord, testimonia le ancora difficili condizioni di vita di ampi strati della popolazione.
Esplorazione delle coste
Di contatti presi da europei con terre americane prima della scoperta colombiana si hanno notizie certe soltanto intorno al 900, quando i vichinghi, già stabilitisi in Islanda, nei loro viaggi verso ponente toccarono le coste meridionali di una grande isola, che chiamarono Terra Verde (Groenlandia), e dove il loro capo, Erik il Rosso, fondò una colonia . La certezza di questi sbarchi si è avuta con il ritrovamento in terra canadese dei resti di un antico villaggio vichingo, risalente al X secolo circa. La tradizione attribuisce la scoperta vera e propria dell'America a Cristoforo Colombo, sbarcato il 12 ottobre 1492 in un'isola delle Bahama, la Guanahani degli indigeni, dal navigatore ribattezzata San Salvador. Fecero seguito le scoperte di altre isole delle Bahama, poi di Cuba e di Haiti e, in viaggi successivi, di Dominica, di Guadalupa, Martinica, Portorico, Giamaica, Trinidad. Il continente fu toccato da Colombo nei pressi della foce dell'Orinoco al suo terzo viaggio, nel 1498. L'anno precedente, il veneziano Giovanni Caboto, al servizio dell'Inghilterra, era sbarcato sull'isola di Terranova e nel medesimo 1498 sulle coste del Canada e della Nuova Scozia, giungendo a capo Cod. Si moltiplicarono intanto i viaggi di esplorazione specie lungo le rotte tropicali. Una spedizione spagnola condotta da Alonso de Ojeda, al cui seguito era Amerigo Vespucci, tra il 1499 e il 1500, partendo dall'attuale Guayana Francese costeggiò il Brasile sino alla foce del Rio delle Amazzoni spingendosi poi verso S fino a capo San Rocco; di qui, invertendo la rotta verso N, costeggiò il litorale del Venezuela e della Colombia, fino al golfo di Venezuela e toccò le isole di Curaçao e Aruba. Le scoperte del Vespucci furono perfezionate e allargate dalle spedizioni spagnole di Pedro Alonso Niño (1500), Vicente Yáñez Pinzón, Diego de Lepe. La costa brasiliana fu riconosciuta nello stesso anno dal portoghese Pedro Alvares Cabral, mentre il compatriota Rodrigo de Bastidas costeggiò il golfo del Darién (1500-01). La conoscenza delle coste orientali dell'America Meridionale fu estesa verso S fin oltre Rio de Janeiro e forse fino all'estuario del Río de la Plata, da Amerigo Vespucci nel 1501-02, mentre nel corso della sua quarta spedizione Colombo traversò il Mar delle Antille fino alle coste dell'Honduras (1502-03). La connessione tra le due grandi masse subcontinentali, ormai evidente, doveva tuttavia essere dimostrata solo più tardi, dopo i viaggi di Juan Díaz de Solís e Vicente Y. Pinzón (Honduras, costa orientale dello Yucatán, 1508-09), di Sebastiano Caboto (Labrador e coste nordorientali degli Stati Uniti), di Juan Ponce de León, che scoprì la Florida, di Juan de Grijalva che nel 1519 dallo Yucatán giunse sino alla foce del Río Pánuco, di Alonso Álvarez de Pineda, che nello stesso anno completò l'esplorazione del Golfo del Messico partendo dalla Florida e riconoscendo le foci del Mississippi. Più a N, Giovanni da Verrazzano, nel 1524, costeggiò l'attuale Carolina fin verso la Nuova Scozia, esplorando la foce del fiume Hudson. Iniziavano intanto le ricerche di un passaggio marittimo che, aggirando a S il continente, portasse all'oceano Pacifico. Il primo tentativo di Juan Díaz de Solís, negli anni 1515-16, non andò oltre l'estuario del Río de la Plata. Fu il portoghese Ferdinando Magellano, al servizio della Spagna, che per primo circumnavigò il continente nel 1520, scoprendo lo stretto che porta il suo nome e risalendo lungo la costa pacifica fino all'altezza dell'odierna Valparaíso. Il rilevamento dettagliato della costa sudoccidentale dell'America Meridionale è opera di Alonso de Camargo che, risalendo dallo stretto di Magellano, giunse fino al Perú con una lunga navigazione che si concluse nel 1540. La Terra del Fuoco fu aggirata soltanto nel 1616 dagli olandesi Schouten e Lemaire, alla ricerca di un passaggio meno pericoloso dello stretto di Magellano. Dei contorni della costa occidentale dell'America Settentrionale si venne a conoscenza attraverso il viaggio compiuto lungo la penisola della California da Francisco de Ulloa nel 1539, e attraverso quello che nel 1542 portò Juan Rodriguez Cabrillo dal Messico alla baia di San Francisco, donde Bartolomeo Ferrel proseguì verso N fino in prossimità del capo Mendocino. Le esplorazioni spagnole subirono un periodo di arresto fino al 1592, anno in cui Juan de Fuca scoprì lo stretto che porta il suo nome. Solo nel sec. XVIII navigatori per la maggior parte inglesi compirono ricognizioni lungo le coste comprese tra lo stretto di Juan de Fuca e il Mare Artico, che il danese Bering aveva già in parte visitate tra il 1728 e il 1741: James Cook costeggiò la Columbia Britannica e l'Alaska fino al capo Principe di Galles, spingendosi poi, nel 1778, per un lungo tratto nel Mare Artico; George Vancouver riconobbe minutamente la costa della Columbia Britannica e i vari arcipelaghi che l'accompagnano. L'esplorazione completa del contorno settentrionale dell'America si concluse solo nella prima metà del sec. XIX con gli inglesi Parry (1819-21) e McClure (1850-52) che fecero seguito ai lontani tentativi di Martin Frobisher (1576-78) e John Davis (1585-87). Ma è soltanto nel 1903-06 che Amundsen riuscì a percorrere interamente il passaggio di Nord-Ovest ricercato da oltre tre secoli collegando, attraverso l'arcipelago Artico Americano, l'Atlantico al Pacifico.
Esplorazione dell’interno
Parallelamente era iniziata la penetrazione nell'interno del continente: Vasco Nuñez de Bálboa, movendo dal golfo del Darién, risalì il Río Atrato e, attraversata la foresta tropicale, raggiunse per primo nel 1513 le acque dell'oceano Pacifico che egli chiamò Mare del Sud. Conquistato il Messico nel 1519, Hernán Cortés intraprese nuove esplorazioni, oltre che nella regione messicana, anche in quella dell'istmo. Due anni più tardi, accompagnato da Diego de Almagro, compì una nuova spedizione lungo le coste della Colombia e dell'Ecuador, giungendo sino al Perú (1525). Francisco de Orellana, partito da Quito, raggiunse attraverso il Napo il Rio delle Amazzoni, che navigò fino alla foce (1540-42). L'esplorazione fluviale del Paraná è opera di Sebastiano Caboto, che risalì il fiume fino alla confluenza con il Pilcomayo (1527- 29); sulle sue tracce, proseguendo lungo il Pilcomayo, tra il 1547 e il 1548 Domingo de Irala raggiunse il Perú, donde nel 1536 Sebastián Belalcázar era partito per incontrare, lungo il bacino del Río Magdalena, la spedizione di Quesada proveniente dalla costa caribica. Anche qui, come per la Nuova Spagna, si arrestano i progressi delle conoscenze geografiche dell'interno, che in seguito solo i missionari percorreranno per la loro opera di evangelizzazione. L'esplorazione scientifica inizia soltanto tra la fine del sec. XVIII e il principio del XIX con gli studi di Humboldt, che visitò Venezuela, Colombia ed Ecuador, sollecitando con il suo esempio parecchie altre missioni scientifiche. Tra i numerosi esploratori che percorsero in tutti i sensi il territorio, dandone un quadro pressoché completo, è da ricordare il francese Francis de Castelnau che, tra il 1843 e il 1847, ne compì la traversata da Rio de Janeiro a Lima, esplorando i bacini del Tocantins e dell'Araguaia e il Mato Grosso, tornando all'Atlantico lungo il Rio delle Amazzoni. All'inglese Musters si deve l'esplorazione della Patagonia (1869-70); una decina di anni più tardi Giacomo Bove si spingerà fino alla Terra del Fuoco, regione che il missionario Alberto De Agostini visitò in seguito minutamente. Per quanto riguarda l'America del Nord, la penetrazione all'interno iniziò per opera di Francisco Vázquez de Coronado, che condusse tra il 1540 e il 1542 una spedizione che dal Messico settentrionale giunse agli altopiani desertici dell'Arizona fino al Gran Canyon del Colorado, ripercorrendo l'itinerario di frate Marco da Nizza, partito nel 1539 verso la leggendaria città di Cibola, che, magnificata come la maggiore delle sette “città dell'oro”, si rivelò un misero villaggio di indiani. Intanto Pánfilo de Narváez nel 1528, partendo dalla baia di Tampa, era giunto fino alla zona deltizia del Mississippi, dove trovò la morte. I superstiti della spedizione, condotti da Cabeza de Vaca, proseguirono, tra il 1528 e il 1534, il viaggio fino al golfo della California. Ritentò più a N la traversata del continente Hernando de Soto che, passato il Mississippi, risalì l'Arkansas, spingendosi fino agli Appalachi. Le difficoltà incontrate e il fallimento delle ricerche dei tesori sperati arrestarono i tentativi spagnoli di penetrazione verso l'interno, la cui iniziativa fu lasciata ai missionari che percorsero le terre tra le Montagne Rocciose e il Pacifico e ai quali si deve la fondazione di San Diego (1769) e di San Francisco (1776). È solo agli albori del sec. XIX che Alexander von Humboldt e la lunga serie di studiosi che ne seguiranno le tracce sveleranno i lineamenti precisi della Nuova Spagna. A NE la penetrazione si iniziò attraverso il golfo e il fiume San Lorenzo, che Jacques Cartier percorse nel 1541 fino a Montréal, emulato da Samuel Champlain che successivamente, tra il 1608 e il 1616, scoprì il lago che da lui prenderà il nome e raggiunse i laghi Ontario e Huron. Nel 1634, Jean Nicolet scoprì il lago Michigan e qualche anno più tardi i gesuiti francesi Chaumont, Brebeuf l'Erie e Raymbault toccarono il Lago Superiore, fondando numerose missioni. Dal lago Michigan, nel 1673, il gesuita Marquette raggiunse, attraverso il fiume Wisconsin, il Mississippi, che discese fino alla confluenza con l'Arkansas, ritornando poi lungo il fiume Illinois fino a Chicago, mentre Robert Cavelier de La Salle, nel 1681, compì, con l'italiano Enrico Tonti, la discesa dell'Ohio e quindi del Mississippi fino alla foce, prendendo possesso in nome della Francia di tutta la regione solcata dal grande fiume, che chiamò Louisiana in onore di Luigi XIV. Alla più dettagliata conoscenza dell'interno del continente portarono valido contributo i viaggi del gesuita Charlevoix, che percorse le rive dei Grandi Laghi e visitò l'alto bacino del Mississippi, e quelli di Pierre Gaultier de la Vérendrye, che toccò i laghi Woods e Winnipeg, scendendo poi lungo l'Assiniboine fino al Missouri (1731-40), mentre nel 1742 i suoi due figli attraversarono il Paese dalla baia di Hudson fino ai piedi delle Montagne Rocciose. Con la fine del sec. XVIII, dopo la formazione degli Stati Uniti, la spinta dei pionieri anglosassoni verso W proseguì con rapidità. Tra il 1804 e il 1806, gli statunitensi Lewis e Clark risalirono il Missouri, valicarono le Montagne Rocciose e raggiunsero il Pacifico. Iniziò così l'esplorazione sistematica degli USA promossa dal governo federale con numerose spedizioni, tra cui sono da ricordare quelle di Pike (1805-07), di Long (1819-23) e di Costantino Beltrami (1823). L'esplorazione delle regioni subartiche venne effettuata prima dai cacciatori di pellicce francesi, più tardi da quelli inglesi che, dalla baia di Hudson, penetrarono, nel corso del sec. XVIII, fin quasi alle Montagne Rocciose, seguendo il fiume Saskatchewan. Nel 1770-71 Hearne, partendo da Churchill sulla baia di Hudson, si portò a NW fino al fiume Coppermine, che discese fino al Mare Artico (golfo Coronation). Alexander Mackenzie, muovendo dal lago Athabasca, ne seguì l'emissario, esplorò il Gran Lago degli Schiavi e discese nel 1789 fino alla foce il fiume al quale sarà dato il suo nome. Qualche anno più tardi (1793), sempre partendo dal lago Athabasca, valicò le Montagne Rocciose giungendo al Pacifico lungo il corso del fiume Fraser. Nella prima metà del sec. XIX si effettuarono le spedizioni di Finlay e Macleod fra i monti della Columbia Britannica, il riconoscimento, da parte di R. Campbell e Bell, dell'alto corso del fiume Yukon e l'esplorazione del suo basso corso a opera del russo Zagorkin (1842-44).
Preistoria
Sui tempi più remoti della preistoria americana si hanno ancora molte incertezze in quanto solo poche località del continente hanno restituito ossa animali bruciacchiate e resti di probabili focolari. Dall'analisi di questi reperti gli studiosi statunitensi hanno calcolato per l'America Settentrionale, col metodo del radiocarbonio, datazioni da 37.000 a 23.000 anni fa; secondo taluni studiosi europei le datazioni sono molto meno arcaiche, ca. da 15.000 a 10.000 anni fa. L'industria venuta in luce è povera e poco caratteristica e mancano il più delle volte resti ossei umani. Tra le sequenze più complete per l'America Meridionale, vi è quella della grotta di Pichimachay nel bacino di Ayacucho (Perú) dove sono state distinte (dalla più antica alla più recente) le tre fasi di: Pacaicasa, con strumenti su ciottolo, schegge, denticolati e percussori, datata tra 20.000 e 14.700 anni; Ayacucho, tra 15.000 e 13.000 anni da oggi; Huanta, mal definita e senza datazioni assolute. Alcuni autori non accettano tuttavia l'industria della fase Pacaicasa come intenzionalmente tagliata dall'uomo. Elementi più attendibili si hanno invece a partire dal XIII millennio, epoca alla quale vien fatta risalire la presenza dei primi popoli cacciatori e raccoglitori. Per l'America Settentrionale la successione delle culture si basa sulla rispettiva posizione stratigrafica (e associazione con fauna estinta) di vari strumenti litici caratteristici: in ordine cronologico, iniziando dalla più antica, vengono distinte così le culture di Sandia, di Clovis e di Folsom. Si giunge, con tale sequenza, fin verso il 7000, epoca nella quale le punte litiche con scanalatura, tipica dei precedenti periodi, sono sostituite da punte triangolari o foliate senza peduncolo, che vengono attribuite alle culture di Eden e Scotsbluff, dal nome delle rispettive località del Wyoming e del Nebraska. Parallelamente a questi ultimi complessi culturali se ne sono manifestati altri che vengono raggruppati col termine di cultura del deserto, attribuita a genti dedite alla caccia della piccola selvaggina nonché alla raccolta di vegetali: una delle facies più conosciute è quella detta di Cochise nell'Arizona. Essa presenta grossi utensili di pietra scheggiata che ricordano quelli europei della pebble culture. Nei tempi successivi, accanto ai prodotti della caccia ai grandi mammiferi, tra cui in primo luogo i bisonti, acquistano importanza sempre maggiore quelli derivanti dall'agricoltura, come è rilevabile dalla presenza di resti di macine, macinelli e vasi di terracotta per la conservazione delle sementi e dei raccolti. Nell'arco di alcuni millenni vediamo così succedersi vari gruppi culturali, che sono nel Messico quelli di El Riego, di Coxcatlan e di Abejas e negli Stati Uniti, con talune sovrapposizioni, quelli di Plainview, di Gypsum Cave, di Chiricahua e Cap Denbigh. Per l'America Meridionale si è tentato di derivare il popolamento continentale attraverso l'Oceano Pacifico, sulla base di analogie con alcuni aspetti culturali dell'area oceanica (propulsore, coltivazioni, clava sferoidale, classi matrimoniali, tipologia delle capanne), tuttavia mancano elementi sicuri a sostegno di questa ipotesi. La località che ha dato i resti più arcaici sembra essere quella di El Jobo in Venezuela, i cui strumenti di quarzite risalirebbero al XIV millennio; recenti ricerche nel sito peruviano di Ayacucho hanno inoltre consentito di individuare progenitori selvatici di piante coltivate nel Nuovo Mondo in livelli del XII millennio. I livelli più antichi della grotta Fell, in Patagonia, si possono attribuire al VII millennio e contengono grattatoi e coltelli di grossa taglia in basalto nonché punte litiche peduncolate assottigliate mediante una scanalatura centrale. Al V millennio risalirebbero invece i resti della stazione preistorica di Ayampitin, nella pampa argentina. Culture come quella di Huaca Prieta in Perú, dove tra il 2500 e il 1200 compaiono agricoltura e tessitura, ebbero lunga durata. Piuttosto singolare è infine il deposito di El Inga, presso Quito, che presenta strumenti di ossidiana di forma e tecnica molto affini a quelle del Gravettiano europeo e la cui attribuzione cronologica è quindi piuttosto controversa. La distinzione fra popolazioni dedite alla caccia e all'agricoltura viene talvolta sostituita da un'altra classificazione che distingue per la preistoria americana cinque periodi: litico, arcaico, formativo, classico e postclassico.
Storia: da Colombo al primo Stato sovrano
L'America è entrata nel circolo generale della civiltà mondiale dal sec. XVI, attraverso le fasi prima della scoperta, poi della conquista e colonizzazione da parte degli Europei, infine dell'indipendenza dei numerosi Stati sorti dai precedenti domini coloniali . Al momento della scoperta, cominciata col primo viaggio di Colombo nel 1492, l'America contava una popolazione che calcoli recenti stimano dai 40 agli 80 milioni di individui: quelli che vennero impropriamente chiamati Indiani (Indios) dagli Europei. Ma questi Amerindi erano molto inegualmente distribuiti sull'immenso spazio dell'America Settentrionale e Meridionale; solo in poche zone, per favorevoli condizioni ambientali, si ebbero insediamenti stabili e numericamente rilevanti, con il conseguente sviluppo di civiltà relativamente avanzate. Così le civiltà maya e azteca, in quelli che oggi sono il Guatemala e parte del Messico; così, nell'attuale Perú, quella incaica. Nessuna di queste civiltà, tuttavia, era riuscita a superare la fase calcolitica (età della pietra e del rame), pur avendo raggiunto un livello elevato nei campi dell'ordinamento politico e sociale, dei calcoli astronomici, dell'architettura: si erano protese, per così dire, nella dimensione teorica, sino alla religione inclusa, arrestandosi, invece, di fronte a ritrovamenti pratici fondamentali, quale la ruota, che non conobbero. Gli altri Amerindi erano rimasti, in generale, alquanto più indietro nel cammino dell'evoluzione, in una scala che andava da condizioni ancora primitive a condizioni più progredite (i Chibcha della Colombia, i Pueblos stanziati fra Messico settentrionale e Stati Uniti sudoccidentali). Su queste varie popolazioni si abbatté, all'inizio del sec. XVI, l'impeto dei conquistatori europei, che in breve tempo sconquassò l'America india, aprendo la strada all'attuale America sostanzialmente europea. La debolezza intrinseca delle stesse maggiori civiltà amerindie fu rivelata dalla facilità con la quale i conquistadores spagnoli abbatterono il dominio degli Aztechi e l'impero degli Inca. Cortés, con poco più di trecento uomini, sottomise in soli tre anni (1519-22) il vasto impero degli Aztechi nel Messico centrale; Pizarro e Almagro, con un numero inizialmente anche minore di uomini, si impadronirono tra il 1531 ed il 1534 di quell'impero incaico che aveva saputo organizzare in una rigida e complessa struttura sociale 8-10 milioni di Quechua e di Aymará. Le spedizioni di Cortés e di Pizarro erano avvenute quando ormai il progresso delle esplorazioni aveva dimostrato che le Indie erano in realtà un altro continente, separato dall'Asia dall'Oceano Pacifico, visto per primo da Balboa nel 1513; su questo continente, dunque, si impiantarono i domini coloniali degli Europei, anzitutto Spagnoli e Portoghesi. Sin dal 4 maggio 1493, con la bolla di papa Alessandro VI, Spagna e Portogallo si erano divise le nuove terre appena scoperte: una linea ideale N-S da polo a polo, la raya divisoria, passante 100 leghe a W delle Azzorre, assegnava i territori a oriente al Portogallo, quelli a occidente alla Spagna. L'anno seguente, col Trattato di Tordesillas del 7 giugno, le due potenze si accordavano per spostare la linea a 370 leghe, anziché 100, ad W delle Azzorre. Questa prima spartizione coloniale dell'America doveva segnare per sempre il destino della maggior parte del continente: portoghese in quello che sarà il Brasile, spagnolo nel resto dell'America Meridionale, in quasi tutta l'America Centrale e in parte dell'America Settentrionale. Il rimanente dell'America Settentrionale ebbe sorte diversa, diventando in parte inglese e in parte francese, mentre fallirono i tentativi degli Olandesi di insediarsi stabilmente nel Brasile e nella zona dell'odierna New York. I domini spagnoli, organizzati rispettivamente nel 1535 e nel 1542 nei due vicereami della Nuova Spagna (Messico) e del Perú (che poi subiranno diverse suddivisioni amministrative), furono tenuti come colonie di sfruttamento: delle ricchezze naturali e della popolazione india, duramente asservita a estrarre e coltivare tali ricchezze per i padroni europei. Gli Spagnoli si erano appunto gettati sull'America non come colonizzatori, ma come conquistatori, bramosi dell'oro; e questa mentalità conserveranno anche quando l'America, più che oro e argento, fornirà la vasta gamma dei suoi prodotti naturali, agricoli e minerari. Anche la conquista di nuove anime alla fede cristiana fu uno dei moventi dell'espansione spagnola in America, risolvendosi in conversioni forzate ma anche nei primi interventi a tutela degli Indios. Questi furono praticamente ripartiti fra i nuovi padroni, in generale col sistema delle encomiendas, che li asserviva alla prestazione di lavoro come pagamento dei tributi imposti dai conquistatori. La rapacità fiscale e il monopolio dei commerci secondo il più rigido mercantilismo, il centralismo e l'assolutismo caratterizzarono il sistema coloniale spagnolo, che quindi gravava non solo sugli Indios, sui neri importati dall'Africa come schiavi, sui meticci e sui mulatti, che costituivano la grande maggioranza della popolazione, ma anche sui creoli, i bianchi discendenti dagli Spagnoli trasferitisi oltreoceano. L'avversione dei creoli contro gli Spagnoli sarà uno dei moventi delle lotte per l'indipendenza. Non molto diverso fu il regime coloniale portoghese nel Brasile, sviluppatosi più tardi, dalla seconda metà del sec. XVII. D'un secolo ca. posteriore alla scoperta dell'America fu l'inizio della colonizzazione francese e inglese nell'America Settentrionale. I Francesi cominciarono a stanziarsi dall'inizio del Seicento lungo il San Lorenzo, dando origine alla Nuova Francia (ora Canada), retta con i sistemi feudali e assolutistici della madrepatria. Gli Inglesi invece, giunti anch'essi nei primi decenni del Seicento, avendo abbandonato la terra natia per motivi religiosi, portarono ed impiantarono sulle coste della Nuova Inghilterra quei principi di libertà religiosa e politica che dovevano dare un'impronta caratteristica alle tredici colonie sviluppatesi tra l'Atlantico e i monti Appalachi. Al contrario delle spagnole, quelle inglesi furono colonie di popolamento, nelle quali una robusta razza di pionieri, dediti soprattutto all'agricoltura, si creò una nuova patria, legata alla vecchia dalla dipendenza politica e dai vincoli del mercantilismo, ma dotata di ampia autonomia interna. Nelle guerre del Settecento fra Inghilterra e Francia i coloni inglesi diedero il loro apporto, indottivi in primo luogo dall'interesse di impedire che i Francesi, saldando la Nuova Francia con la Louisiana (occupata alla fine del Seicento) lungo l'arco del Mississippi, li chiudessero alle spalle, stringendoli fra l'Atlantico e i monti. Così il sogno d'un grande impero francese in America svanì quando sembrava prendere consistenza; con la Pace di Parigi del 10 febbraio 1763, a conclusione della guerra dei Sette anni, la Francia cedeva il Canada all'Inghilterra e la Louisiana alla Spagna. Subito dopo la comune vittoria, e come sua conseguenza, Londra e le tredici colonie entrarono in conflitto: il 4 luglio 1776 le colonie proclamarono l'indipendenza, col nome di Stati Uniti, conquistandola poi sui campi di battaglia e ottenendola col Trattato di Parigi del 10 settembre 1783. Sorgeva così il primo Stato indipendente in America, esempio e stimolo indiretto all'America spagnola.
Storia: il XIX secolo
Anche l'America spagnola, qualche decennio dopo, dal 1810 al 1825, conquistava la sua indipendenza da una Spagna in piena decadenza e colpita dall'occupazione napoleonica. Ma l'indipendenza politica delle nuove Repubbliche non comporterà, per lungo tempo, modifiche alle strutture sociali, poiché il predominio effettivo resterà all'oligarchia fondiaria. La storia dell'America Latina, in un secolo e mezzo d'indipendenza, compreso anche il Brasile (divenuto impero indipendente nel 1822, passato alla forma repubblicana nel 1889), si può riassumere, come schema generalissimo, nelle tormentate vicende sociali che hanno visto il lento ascendere delle clases medias contro l'oligarchia e poi l'apparizione del proletariato nei Paesi più evoluti e negli altri la crescente insofferenza, sino alla rivoluzione, delle masse diseredate. Il tipico fenomeno del caudillismo è l'espressione di questo processo, così come il peronismo in Argentina e il castrismo a Cuba ne sono esiti diversi, ma sempre prodotti dalle peculiari condizioni d'un continente che si trova in crisi permanente. Ad aggravare questa crisi ha concorso e concorre in maniera decisiva il pesante intervento del capitale straniero, nel sec. XX in forte prevalenza nordamericano. Gli Stati Uniti hanno infatti seguito, dall'indipendenza a oggi, un cammino ben diverso da quello delle Repubbliche latino-americane, attraverso un gigantesco processo di crescita economica, trasformandosi da Paese preminentemente agricolo alla più ricca e avanzata potenza industriale del globo. Di pari passo è andata l'evoluzione politica, con la dilatazione e l'approfondimento della peculiare democrazia americana, egalitaria ancora più che liberale. Sul piano territoriale, gli Stati Uniti, che nel 1783 comprendevano le antiche tredici colonie e i territori a W di esse fino al Mississippi, nella prima metà dell'Ottocento si sono estesi fino al Pacifico, su quello che è ancora oggi il loro territorio, tra Canada a N e Messico a S. L'America anglosassone si è così appropriata di quel poco che ancora restava dell'America francese nella Louisiana (retrocessa dalla Spagna alla Francia) e di non piccola parte dell'America spagnola e poi messicana, dalla Florida al Texas alla California. Anche l'abbozzo di America russa, nell'Alaska, fu nel 1867 incorporato, mediante acquisto, negli Stati Uniti, che così per la prima volta si ampliavano al di là della continuità territoriale. Nell'ultimo decennio del sec. XIX, infine, l'espansione degli Stati Uniti si diresse anche fuori del continente americano, con l'annessione delle isole Hawaii, di parte delle Samoa e di Guam, mentre, in seguito alla vittoria sulla Spagna (1898), passavano sotto il loro dominio le Filippine (che diverranno indipendenti nel 1946) e Puerto Rico. Questa partecipazione alle imprese tipiche dell'età dell'imperialismo era tuttavia considerata negli Stati Uniti un'eccezione rispetto all'indirizzo fondamentale della politica estera, che restava sempre l'isolazionismo.
Storia: dagli inizi del Novecento ai giorni nostri
Occorse che la prima guerra mondiale prendesse durata e proporzioni inattese perché gli Stati Uniti vi partecipassero, dal 2 aprile 1917, schierandosi a fianco dell'Intesa, alla cui vittoria dettero un contributo capitale con le loro inesauribili riserve di uomini, armi e materiali. Benché l'isolazionismo fosse stato inesorabilmente colpito da questo intervento nel conflitto mondiale, l'opinione pubblica e i dirigenti americani si illusero di poterlo ancora tenere in vita nel ventennio successivo, con gravi conseguenze per l'equilibrio internazionale, al quale venne a mancare l'apporto di quella che di fatto era ormai una delle maggiori potenze. Rimasti formalmente estranei alla fase europea della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti vi si inserirono attivamente dopo l'attacco giapponese a Pearl Harbor (7 dicembre 1941); da quel giorno, sino alla vittoria finale (1945) prima sulla Germania e poi sul Giappone, assunsero la guida della grande alleanza contro le potenze totalitarie. Il loro contributo alla vittoria fu, sotto tutti gli aspetti, assai più decisivo che nella prima guerra mondiale. Nel dopoguerra, abbandonato definitivamente l'isolazionismo, la politica estera di Washington fu elemento determinante dell'intera politica internazionale: in particolare, per i rapporti con gli altri Paesi del continente americano, gli USA, che fin dalla proclamazione della dottrina Monroe (1823) avevano mostrato speciale interesse per l'America Latina, tesero sempre più a includerla nella propria sfera d'influenza economica e politica. Nell'ultimo ventennio del sec. XX l'America Latina era interessata da un ampio movimento che in modo progressivo, anche se a volte contraddittorio, consentiva che nel subcontinente, dopo lunghi periodi di dittature, si riaffermassero i valori democratici alla base delle costituzioni dei vari Stati. Anno cruciale di questa ripresa era il 1983, quando l'Argentina tornava con Raúl Alfonsín alla vita democratica dopo lunghi periodi di dittature sanguinarie. L'anno successivo era l'Uruguay a liberarsi di oltre un decennio di dominio militare e all'inizio del 1985 toccava al Brasile inaugurare una nuova stagione democratica lasciandosi alle spalle 21 anni di dispotismo dell'esercito. Fermenti positivi si avevano anche fra gli Stati dell'America Centrale, dove tornavano alla democrazia il Guatemala (1985) e Panamá (1989). Dal 1986, debellata la sanguinosa dittatura dei Duvalier, anche a Haiti si ponevano le condizioni per un ripristino della sovranità popolare: un processo con fasi alterne e che per affermarsi definitivamente doveva contare sulla decisione del presidente statunitense Bill Clinton che nel 1994 rompeva gli indugi e imponeva il reintegro del presidente Aristide, eletto nel 1990 e defenestrato l'anno successivo. La lotta contro il dispotismo, che in America Latina ha spesso coinciso con la lotta per la sopravvivenza dei ceti popolari contro le oligarchie fondiarie, assumeva un esito peculiare in Nicaragua. Qui, dopo la vittoria sandinista contro il regime di Somoza (1979), si era messa mano a un programma di trasformazione della società in senso socialista. Il timore che si ripetesse una vicenda analoga a quella cubana induceva l'amministrazione Reagan ad avviare un piano di destabilizzazione del Paese basato sui massicci aiuti al movimento guerrigliero antisandinista dei contras. Ciò determinava anche seri rischi di una internazionalizzazione del conflitto; ma, anche per l'attiva partecipazione dei Paesi dell'area, si poteva scongiurare il pericolo grazie a un accordo sottoscritto tra le parti (1990) che consentiva elezioni democratiche e il successivo mantenimento di uno Stato di diritto. Alla fine degli anni Ottanta un altro grande Paese latino-americano, il Cile, metteva la parola fine al lungo dispotismo del generale Pinochet attraverso un pacifico processo di transizione e la restaurazione del sistema democratico. Mentre nel 1992 anche nel Salvador prendeva il via un processo di pacificazione interna, una grande instabilità permaneva, invece, nella vita della Colombia, stretta tra le alterne iniziative di gruppi guerriglieri e il vero e proprio contropotere rappresentato dalla mafia del narcotraffico. Le tentazioni autoritarie, d'altro canto, erano sempre all'ordine del giorno in un'area dove continuavano a proliferare, in virtù di un retaggio storico e delle grandi contraddizioni attuali, numerosi gruppi guerriglieri di varia formazione ideologica. Il bilancio complessivamente positivo per il ripristino della democrazia in molti Paesi latino-americani non significa, comunque, che nell'area si possa considerare compiuto un processo di stabilizzazione politica. La maggioranza di questi Stati, infatti, doveva fare i conti con crisi economiche e dissesti finanziari di proporzioni gigantesche (un debito estero complessivo di oltre 430 miliardi di dollari). E tutte le politiche di risanamento si scontravano con un inasprimento delle tensioni sociali che determinavano anche l'esplosione di vere e proprie rivolte da parte di una popolazione che vedeva abbassarsi sempre più un tenore di vita già a livelli minimi. Al problema si tentava di rispondere con il Piano Brady che prevedeva l'azzeramento del debito attraverso un massiccio incremento dei crediti da parte dei Paesi industrializzati e con l'avvio di decise politiche liberiste. Una modernizzazione emblematizzata dall'esperienza del Messico che nel 1990 sembrava avviarsi verso un impetuoso sviluppo. Ma il sistema si dimostrava ancora fragile ed esposto a tutti i rischi di un mercato selvaggio, come si evidenziava nella catastrofe finanziaria del 1994, che non aveva conseguenze più gravi solo per il massiccio intervento finanziario degli USA, preoccupati che la crisi messicana potesse trascinare con sé anche l'insieme del sistema nordamericano. Un discorso a parte merita la situazione di Cuba, un'anomalia non solo rispetto al continente, ma allo stesso panorama mondiale. Il Paese, una volta cessati gli aiuti sovietici con il crollo dell'URSS, si era venuto a trovare in una grave crisi economica che coinvolgeva l'isola caribica anche sul piano politico. La fine della divisione del mondo in due blocchi contrapposti, determinatasi nell'ultimo decennio del sec. XX, aveva importanti conseguenze anche per gli Stati Uniti. La potenza nordamericana si trovava ad assumere sulla scena mondiale un ruolo enormemente dilatato che la portava a impegni più diretti, come nella grave crisi regionale aperta dall'invasione irachena del Kuwait e sfociata nella guerra del Golfo (1991), nell'invio dei marines in Somalia nel tentativo di porre fine alla guerra civile (1992), o ancora negli attacchi all'Afghanistan (ottobre 2001) volti a destabilizzare il governo dei Taliban, accusati di proteggere i responsabili degli attentati del settembre 2001 contro il World Trade Center di New York e il Pentagono (Washington). La conclusione di un certo tipo di confronto con il blocco comunista, che aveva caratterizzato le amministrazioni repubblicane di Reagan e Bush, consentiva nel Paese la riapertura di un dibattito serrato sui problemi interni, in particolare sulle difficoltà economiche e sociali evidenziate dagli effetti della deregulation reaganiana. Ciò favoriva il forte recupero dei democratici, che riuscivano a interrompere 12 anni di predominio repubblicano con l'elezione alle presidenziali di Bill Clinton (1992), riconfermato nel 1996. Il Partito repubblicano riconquistava la presidenza con l'elezione di G. Bush nel 2001. Sempre vive, ancora nello scorcio del secondo millennio, le tensioni separatiste in Canada, alimentate dalla decisa volontà secessionista della componente francofona del Québec. Il Bloc québécois, forte della vittoria elettorale del 1994, rilanciava un referendum (1995) che si concludeva, però, con la respinta dell'ipotesi separatista (50,6% contrari).Al di là di questi contrasti, l'elemento caratterizzante la storia dell'ultimo scorcio del Novecento di entrambe le Americhe è stato lo sviluppo dei processi d'integrazione economica. Nel 1989 infatti entrava in vigore l'accordo di libero scambio tra Canada e Stati Uniti (FTA, Free Trade Association), mentre nell'America centro-meridionale la nascita del Mercato Comune Sudamericano (MERCOSUR, 1991) si sommava al rilancio delle organizzazioni regionali già esistenti (il Mercato Comune Centroamericano del 1960, la Comunità andina del 1969, la Comunità dei Caraibi del 1973, il Gruppo di Rio del 1986). Intanto il FTA si ampliava al Messico (trasformandosi in NAFTA, North American Free Trade Agreement) nel 1994, anno in cui il primo summit delle Americhe tenuto a Miami faceva decollare il progetto di una zona di libero scambio fra tutti i Paesi del continente a esclusione di Cuba. La spinta unitaria impressa da queste politiche e da questi organismi, favorendo una crescita economica complessiva, ha accentuato la sensazione di un destino comune del continente e facilitato in America centrale e meridionale la cicatrizzazione di vecchi conflitti e controversie territoriali (come quelle tra Cile, Bolivia e Perú, risalenti a una guerra e a contestazioni territoriali di più di cent'anni or sono, o quelle tra Ecuador e Perú e tra Cile e Argentina), anche se permangono nell'area dispute per il controllo delle acque fluviali e marine tra Honduras, Nicaragua e Costa Rica e contese tra Venezuela e Guyana per il territorio di Essequibo. Tuttavia l'integrazione economica, e i connessi progressi ottenuti nella lotta alla corruzione e al narcotraffico, non ha implicato in Sudamerica né un progresso della cooperazione politica sovranazionale né, all'interno dei singoli Stati, un automatico miglioramento delle condizioni di vita e di quelle sociali e un omogeneo avanzamento della democrazia. Benché nell'ultimo decennio del XX secolo si sia riscontrata una maggiore stabilità dei regimi democratici e una generale diminuzione della povertà, si è altresì verificato un aumento della forbice tra ricchi e poveri (questi ultimi stimati tra i 150 e 200 milioni su un totale di 446 milioni di abitanti) e della criminalità, che sovente è espressione di individuali sentimenti di rivolta. Alcuni Paesi hanno registrato storiche alternanze di governo: in particolare la Costa Rica, con la sconfitta elettorale del partito del presidente uscente (1998), e il Messico, dove il Partito Rivoluzionario Istituzionale, da settant'anni al potere, ha subito una disfatta alle elezioni (1997) e perduto la presidenza della Repubblica (2000) a vantaggio del Partito d'Azione Nazionale, consacrando così la democratizzazione del Paese. Altrove però – in Brasile, Honduras e Salvador – le consultazioni politiche tenute tra il 1997 e il 1999 hanno contraddetto la tendenza all'alternanza di governo, oppure hanno fatto emergere situazioni d'instabilità e forti tensioni sociali, espresse mediante scioperi e manifestazioni violente, come in Ecuador, Bolivia, Venezuela, Paraguay; in Argentina il presidente Fernando De la Rua, eletto nel 1999, era costretto a dimettersi (dicembre 2001) in seguito agli scontri di piazza scoppiati per la grave crisi economica che affliggeva il Paese, vedendo succedergli, incaricato dal Congresso, il peronista Eduardo Duhalde. Diverso il caso della regione messicana del Chiapas: qui infatti la resistenza armata delle popolazioni indigene organizzate dall'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, iniziata nel 1994, ha trovato nel 2000 un primo momento di pacificazione e di trattativa con il governo. È su questo contraddittorio sfondo che l'America centro-meridionale ha assistito alla vigilia del terzo millennio al delinearsi di due aree geopolitiche: l'una, comprensiva del Brasile, dell'Argentina e dell'Uruguay, meno soggetta all'influenza degli USA e in grado di sviluppare rapporti autonomi con l'Europa e l'Asia, e l'altra, grosso modo comprendente la zona che dal Messico va alla Bolivia e al Paraguay, meno sviluppata e più dipendente dagli Stati Uniti, che da parte loro hanno proseguito nella tradizionale strategia di controllo del Sudamerica, fondandola non più sulla lotta al comunismo (residualmente rimasta solo nei confronti di Cuba, sottoposta a un soffocante embargo), ma sulla difesa delle democrazie e sulla lotta al traffico della droga. Pur avendo restituito alle autorità di Panamá la piena sovranità dell'omonimo canale (1999), gli USA si sono in questo modo riproposti come naturale Stato leader dei processi di integrazione economico-politica continentali imposti dalla globalizzazione liberista, scontando tuttavia anche essi al loro interno risultati insoddisfacenti: accanto alle crescenti tensioni commerciali con l'Europa, infatti, si è verificato un sostanziale fallimento delle politiche sociali dirette a livellare le ineguaglianze e ad abbassare la povertà, mentre la riforma dell'assistenza ha finito per decurtare le prestazioni, e quindi il reddito effettivo, del 10% delle famiglie statunitensi. Per maggiori informazioni, si vedano i paragrafi di storia alle voci dei singoli Paesi.
Le religioni dei popoli autoctoni
Risalendo alle origini della civiltà dei popoli amerindi con il soccorso dei reperti archeologici e, per le civiltà superiori, dei monumenti architettonici e delle opere di scultura, oreficeria e ceramica, troviamo che le prime manifestazioni religiose hanno come denominatore comune l'animismo: gli Inca veneravano i sepolcri dei loro morti sulle montagne, sui piccoli corsi d'acqua e talora anche nei focolari domestici e in questo non differivano dalle popolazioni stanziate nel bacino amazzonico, del Río della Plata e della Pampa; gli Aymará veneravano divinità terrestri, progenitori della loro razza; sulle Ande boliviane gli abitanti avevano una ricca mitologia cosmogonica, che identificava l'uomo con l'ambiente che lo circondava; Maya e Aztechi riconoscevano come dei Quetzalcoatl e Huitzilopochti; nel Nord vivevano tribù che possedevano un proprio totem, identificato in un animale mitico e alla sua immagine dedicavano un culto ancestrale; altre popolazioni invece erano rimaste all'animismo. Oggetto di culto erano però anche le forze della natura e gli astri: tra gli Indiani della Costa nordoccidentale del Pacifico una divinità centrale era rappresentata dal cielo luminoso o Thait, mentre presso gli Indiani delle Praterie, dove era sviluppata la credenza in un misterioso potere vitale (“Wakan”) che permea tutte le forme e forze naturali, tra le realtà assunte ad oggetto dell'esperienza religiosa grande rilievo avevano il Sole, la Luna, il tuono, il fulmine, il vento; i popoli andini veneravano le cime innevate; presso gli Inca la divinità principale era il Sole (Inti) e i monarchi erano detti figli del Sole e governavano in suo nome; nelle altre maggiori civiltà (maya, azteca), il culto del Sole non era predominante ma si accompagnava a quello della Luna, di Venere, dei quattro punti cardinali, di specifiche costellazioni. Un posto particolare occupava anche il culto dei morti, che erano venerati come divinità familiari, come testimoniano i tempietti funebri; gli Inca dedicavano ai morti feste speciali. Presso i popoli più evoluti si era costituito un sacerdozio ben organizzato, che curava la liturgia dei sacrifici, dei canti, dei balli e delle preghiere. Ai sacerdoti spettava anche l'incarico di fissare il calendario, di distribuire le feste, di curare l'orientamento dei templi. Presso gli Inca esisteva anche il collegio delle sacerdotesse (acllacuna, “donne scelte”, le “elette”), che avevano la cura del fuoco sacro, delle vesti sacerdotali, del servizio religioso presso il monarca e dell'istruzione delle giovinette; i sacerdoti godevano di grande autorità e i massimi, come il sommo sacerdote (villac umu), erano sempre scelti fra i parenti prossimi del monarca. I sacrifici agli dei andavano da una semplice libagione di chicha fino all'offerta di cuori umani (Toltechi, Chichimechi, Aztechi). Credevano infatti che la forza vitale del cuore umano fosse l'unica capace di alimentare le energie del Sole e degli altri astri per splendere e percorrere le vie del cielo. Le vittime erano ragazzi, destinati dai loro genitori a vivere con gli dei, o prigionieri di guerra. I templi dovevano essere sempre in posizione elevata e perciò, fra gli Inca, erano costruiti su piccoli rialzi naturali, mentre i Maya e gli Aztechi eressero piramidi tronche, in cima alle quali costruivano il tempietto dove erano collocate le immagini degli dei. I resti più monumentali si possono ammirare a Tenochtitlán, Tlaxcala, Tlacopán, Tula e Oaxaca, nel Messico; a Izamal, Chichén Itzá, Uxmal e Mayapán nella regione maya; a Yaxchilán, Uaxactún, Copán e Quiriguá nel Guatemala e nell'Honduras; a Cuzco e a Machu Picchu nel Perú. La violenza con cui i conquistatori vollero imporre la fede cristiana agli Amerindi non ebbe un esito positivo. Ancor oggi le antiche credenze persistono nello spirito e nelle tradizioni di questi popoli. Anche dove le popolazioni si sono convertite al cristianesimo, si opera nel culto un'evidente contaminazione tra religione antica e nuova: nella mentalità popolare le immagini dei santi sostituiscono gli idoli, le feste cattoliche coincidono nella maggior parte dei casi con le grandi festività inca, maya e azteche; nelle località lontane dai centri operano ancora sacerdoti pagani, stregoni e indovini.
Il cristianesimo
L'introduzione del cristianesimo in America era stata affidata al Patronato delle Indie, che agiva sotto la direzione dei re spagnoli, ai quali il papa aveva concesso pieni poteri in materia religiosa. Il Patronato agì con aggressiva violenza contro tutto ciò che era in contrasto con la sua intransigenza dogmatica, usando gli stessi sistemi della conquista armata. I primi che si alzarono a condannare questa evangelizzazione forzata furono i domenicani Antonio da Montesinos e Bartolomé de las Casas, che difesero come principio elementare dell'evangelizzazione il rispetto per i diritti dei nativi. Le loro rimostranze trovarono eco nella Junta de Valladolid (1542), che promulgò le Leyes nuevas in difesa degli Amerindi. Grandi discussioni e scontri di grave durezza avvennero fra i difensori dell'evangelizzazione-conquista e i partigiani di un'azione esclusivamente apostolica e influenzarono tutto il periodo di evangelizzazione del Messico e del Perú, operata da francescani, domenicani, agostiniani e religiosi della Mercede. Numerosi furono i battesimi, ma affatto superficiale il fondamento della fede. Di questo stato di cose dovette prendere atto il Concilio di Lima (1567), che raccomandò di approfondire l'insegnamento della dottrina prima di dare il battesimo. Le difficoltà però non diminuirono, perché all'obiettività di alcune di esse (enorme diversità fra lingua spagnola e lingue indigene, grandi distanze, differenze di mentalità e di cultura) si aggiungeva la stretta unione Chiesa-Stato, per cui il nativo vedeva sempre il missionario alleato degli invasori. Alcuni fattori positivi favorirono invece l'evangelizzazione nei sec. XVI e XVII: l'arrivo di vescovi e sacerdoti secolari, l'azione dei gesuiti e la creazione della congregazione De Propaganda Fide (1622), che riuscì a limitare lo strapotere del Patronato. Particolarmente efficace fu l'opera dei gesuiti con la fondazione di reducciones in Paraguay, Bolivia, Brasile, Perú, Ecuador, Colombia e Venezuela. Ma la loro espulsione nel 1767 segnò la decadenza di questa istituzione e la fine di un interessante esperimento socio-religioso. Né l'altro clero era stato nel frattempo all'altezza della situazione, perché, preoccupato d'innalzare chiese fastose, trascurava di curare la fede dei nuovi fedeli. Da parte sua il potere politico non aveva rinunciato ai privilegi acquisiti con il Patronato e combatteva un'aspra lotta con la Propaganda Fide per mantenerli. La fine del colonialismo spagnolo nella prima metà del sec. XIX e l'avvento di governi nazionali videro questi impegnati a conservare in fatto di religione i privilegi del precedente governo coloniale, mentre la penuria di vocazioni missionarie creava paurosi vuoti tra gli evangelizzatori. L'appoggio dato da Pio VII e Leone XII al re spagnolo Ferdinando VII, che reclamava diritti sulle ex colonie, e la ventata di liberalismo anticlericale, che dall'Europa investì anche l'America, aggravarono ulteriormente la posizione dei cattolici d'America: Bolívar chiuse conventi e seminari ed espropriò i beni ecclesiastici; i governi che gli succedettero cercarono di tenere la Chiesa a essi soggetta. Casi di persecuzione scoppiarono nell'Ecuador, in Colombia, nel Cile e nel Messico, specialmente con l'avvento delle idee liberali e positiviste; nelle masse popolari il processo d'industrializzazione ha intiepidito, ma non estirpato, il sentimento religioso, che però soggiace ancora ai richiami degli antichi riti ancestrali. Le statistiche sulla situazione attuale del cattolicesimo nei Paesi dell'America Latina danno più del 90% di battezzati sulla popolazione totale, con punte massime per taluni Paesi sudamericani (98% in Bolivia, 97% in Perú e 92,4% nel Venezuela) e con la percentuale più bassa a Cuba (41,9%). In America Latina la Chiesa cattolica è particolarmente impegnata nel fare fronte ai gravi problemi sociali posti dalle condizioni di vita dei popoli della regione: le attività delle comunità latino-americane sono coordinate dal Consiglio Episcopale Latino Americano (CELAM), che riunisce i rappresentanti delle Conferenze Episcopali dei diversi Paesi e le cui linee programmatiche sono state tracciate soprattutto nelle due Conferenze generali di Medellin (1968) e di Puebla (1979). Nel quadro dell'azione sociale svolta dalla Chiesa riveste particolare importanza la cura dedicata all'istruzione, per cui l'America Latina conta il più alto numero di istituti scolastici cattolici del mondo. § Nell'America Settentrionale, nel territorio che verrà poi identificandosi con gli attuali Stati Uniti, la confessione religiosa dei colonizzatori fu quella protestante, nella varietà delle sue denominazioni, che rispecchiavano l'eterogeneità della popolazione e che, in un contesto di piena libertà religiosa, conobbero un caratteristico processo di frantumazione. Maggiore espansione ebbero naturalmente quei gruppi che, con la loro duttilità organizzativa e la loro capacità di penetrazione sociale, poterono più facilmente adattarsi alle condizioni della “frontiera” (in particolare, battisti e metodisti), mentre alle Chiese protestanti vere e proprie venivano aggiungendosi comunità rimaste ai margini del cristianesimo “ufficiale”, come per esempio quella dei mormoni o la Christian Science. Attualmente, i protestanti sono negli Stati Uniti il 58% della popolazione e le Chiese che contano il maggior numero di aderenti sono quelle battiste, metodiste, luterane, presbiteriane, pentecostali, la Chiesa di Cristo e la Chiesa Episcopale. Rilevante è altresì la presenza delle Chiese orientali (principali sono la Chiesa ortodossa d'America, l'Archidiocesi greco-ortodossa del Nord e Sud America, la Chiesa armena d'America), che contano poco meno di 4 milioni di aderenti. Fino all'epoca della guerra d'indipendenza i cattolici nelle tredici colonie ammontavano solo a 25.000, concentrati specialmente nel Maryland e in Pennsylvania. Solo dopo la guerra d'indipendenza essi poterono godere di parità di diritti con i protestanti e da allora la Chiesa cattolica conobbe una continua espansione: i 100.000 credenti del 1800 erano già 1,6 milioni nel 1850 e 4,5 milioni nel 1880 (a seguito di massicce immigrazioni d'Irlandesi); altro forte aumento si ebbe con l'immigrazione, tra il 1830 e la I guerra mondiale, di 5 milioni di Tedeschi, di cui un terzo cattolici. Altri folti gruppi di cattolici provennero dall'Europa orientale e meridionale (5 milioni negli ultimi due decenni dell'Ottocento). Aggiungendo al fattore dell'immigrazione l'alto tasso di prolificità e le numerose conversioni, la percentuale dei cattolici è oggi del 21%. § Nel Canada la religione cattolica fu importata dai primi coloni francesi, ma poté svilupparsi solo con l'arrivo dei gesuiti (1625) e dei sulpiziani (1657). Lo sviluppo del cattolicesimo subì una battuta d'arresto con la definitiva cessione del Canada all'Inghilterra nel 1763. Da allora vi fu una compresenza di cattolici e protestanti, i quali ultimi si diffusero soprattutto nell'Ontario e nelle province marittime. Le statistiche dei primi anni del 2000 indicano la presenza del 45,7% di cattolici contro il 36,2% di protestanti, le cui principali Chiese sono quella unita, l'anglicana, la presbiteriana, la battista, la luterana. § A differenza di quanto avvenne nelle colonie spagnole dell'America Meridionale e Centrale, i colonizzatori dell'America Settentrionale preferirono non esercitare alcuna pressione per far accettare la loro religione agli indigeni. D'altra parte, vennero molto presto aperte e rese operanti delle missioni, tenute dai francescani e dai gesuiti, che diedero i loro primi frutti un secolo dopo con ca. 30.000 convertiti (1634). Dal Nuovo Messico i francescani si spinsero, dal 1628, in direzione dell'Arizona e, alla fine del secolo, sino al Texas, mentre i gesuiti andarono a nord, nel Canada. A partire dal 1648 furono impiantate missioni negli Stati settentrionali ed evangelizzati gli Abnaki e gli Irochesi. Con la costituzione delle riserve (1870), la cura spirituale degli Indiani venne affidata in gran parte ai protestanti, ma i cattolici poterono ottenere il riconoscimento del Bureau of Catholic Indian Missions (1880). Oggi esistono missioni cattoliche in 80 riserve e più del 25% degli Indiani è di religione cattolica. Molto scarso è stato il risultato del cattolicesimo fra i neri d'America, fra i quali è stata invece predominante la diffusione del protestantesimo.
Lingue
Lo studio delle lingue indigene americane (dette anche amerindie) iniziò con la stessa scoperta del Nuovo Mondo e fu dapprima compiuto specialmente da missionari che per le esigenze dell'evangelizzazione si trovarono nella necessità di tradurre negli idiomi locali vangelo, preghiere, catechismi e altri testi religiosi (la Doctrina christiana... en lengua mexicana del 1546 è tra i più antichi libri stampati dedicati a una lingua amerindia) e conseguentemente di comporre anche grammatiche e dizionari . Solo in epoca più recente però si poté procedere a una più accurata raccolta di materiali e a un'analisi scientifica degli stessi, cui diede particolare impulso in primo luogo la celebre Smithsonian Institution (fondata nel 1846) che creò un apposito Bureau of American Ethnology. Degne di speciale menzione sono le ricerche condotte dall'americano Edward Sapir, redattore dell'Handbook of American Indian Languages pubblicato dalla Smithsonian Institution a partire dal 1911. I tentativi di procedere a una rigorosa classificazione delle numerose lingue indigene americane (alcune purtroppo già estinte, altre in via di estinzione) e a un loro raggruppamento in famiglie linguistiche, incontrano notevoli difficoltà. In generale si può dire che le lingue indigene dell'America Settentrionale sono state meglio studiate di quelle dell'America Meridionale. Fra le lingue o le famiglie linguistiche più importanti si possono menzionare: nell'America Settentrionale l'eskimo-aleuto o eschimese (parlato sulle coste settentrionali dell'Alaska), che sembra presentare singolari affinità con le lingue dell'estremità nordorientale della Siberia; le famiglie na-dene, algonchina, penuti, hoka-sioux, uto-azteca; nell'America Centrale la famiglia maya; nell'America Meridionale il quechua o quichua (l'antica lingua degli Inca, nota anche col nome di runa-simi), e le famiglie aymará, arawak, caribica, tupi-guaraní, guaycurú, araucana, alakaluf. Su queste lingue indigene si sono sovrapposti: l'inglese (Stati Uniti, Canada, Giamaica), il francese (Canada, Guayana Francese, Haiti, Guadalupa, Martinica), lo spagnolo nell'America Centrale e Meridionale tranne il Brasile in cui si parla il portoghese.
Letteratura nordamericana
Non esiste una letteratura scritta degli Indiani d'America; il patrimonio delle tradizioni orali rappresenta per questi popoli quello che la letteratura scritta ha significato per la civiltà europea. Solo tardi, però, tale patrimonio è stato conosciuto e adeguatamente valorizzato: a lungo, infatti, le tradizioni indiane sono state romanticizzate dalle mode letterarie e adulterate da una civiltà annoiata di se stessa, che attribuì al nobile selvaggio la sincerità, la lealtà, l'innocenza perdute nel tempo. Molti sono i nomi illustri che scrissero storie sui Pellirosse: dallo scettico Chamfort al romantico Chateaubriand, da J. F. Cooper con Leatherstocking Tales (Storie di Calzadicuoio) a Longfellow con The Song of Hiawatha (Il canto di Hiawatha), fino a D. H. Lawrence con The Plumed Serpent (Il serpente piumato), gli indigeni del Nuovo Mondo trovarono i loro apologeti, furono idealizzati in un'atmosfera eroica o romantica, furono affascinanti come lo sono i vinti, struggenti come lo è una civiltà al tramonto. Si deve a Henry Rowe Schoolcraft il primo serio tentativo (compiuto intorno al 1830) di raccolta delle tradizioni culturali appartenenti alle tribù di Ojibwa; ma anche Schoolcraft pagò il suo tributo al clima romantico, manipolando il materiale raccolto e inventando di sana pianta alcune leggende. Solo alla fine del sec. XIX, grazie agli studi accurati di un gruppo di etnologi, si poté disporre di un'attendibile testimonianza della civiltà indiana. La più significativa produzione “letteraria” degli Indiani degli Stati Uniti è una registrazione storica degli Indiani del Delaware, nota sotto il nome di Walam Olum: il testo, inciso sotto dettatura, è accompagnato da pittografie e conserva il tono appassionato ed enfatico del discorso parlato. È nota, del resto, la bravura oratoria dei capi indiani, i cui appelli alle tribù sono tuttora oggetto di osservazione da parte degli studiosi di storia americana. Non solo il genere oratorio ma molti altri generi furono familiari agli Indiani americani: dalla lirica ai canti rituali, dall'aneddoto agli indovinelli e ai proverbi; ma l'attenzione degli studiosi è attirata soprattutto dai miti e dalle leggende, sia per l'abbondanza delle fonti sia per la loro distribuzione sull'intero territorio nordamericano. I temi prevalenti sono il mito della creazione (particolarmente trattato dagli Zuñi del Nuovo Messico), le origini dell'eroe o semidio della tribù, l'alternarsi delle stagioni, l'origine della morte. Uno dei personaggi ricorrenti di queste leggende è Coyote, il “furbo”, che attira le anatre in una danza a occhi bendati e le uccide, o vince le corse fingendosi zoppo; ma talora finisce con l'essere vittima dei suoi trucchi. Tra i racconti lunghi, è celeberrimo, dall'Alaska alla Nuova Scozia, dalla California all'Alabama, The Star Husband, storia di una fanciulla che sposa una stella, ma poi è sopraffatta dalla nostalgia della Terra. Tra i canti, infine, si distinguono per ricchezza fantastica quelli dei Navaho dell'Arizona, nei quali il rimpianto e la nostalgia si congiungono alle suggestioni della sera. Impetuose e veementi sono le canzoni dei bellicosi Irochesi; intense e suggestive quelle degli Ojibwa, tra le quali ha un valore simbolico il Canto della morte, lirico addio alla vita di una razza avviata all'estinzione. Da notare che la letteratura nordamericana degli anni Novanta del secolo XX è stata caratterizzata proprio dalla cosiddetta riscoperta dei “nativi”, cioè degli Indiani d'America; l'ultimo decennio del secolo è stato definito il periodo del rinascimento nativo americano. Ciò è stato possibile anche perché gli Indiani d'America si sono “piegati” ai canoni linguistici e letterari occidentali, privilegiando la forma scritta a quella orale. Tra gli autori più significativi che si sono imposti all'attenzione della critica ricordiamo Simon Ortiz (n. 1941), Scott Momaday (n. 1934), Gerald Vizenor (n. 1934). Ma l'apporto più determinante è stato senza dubbio quello di scrittrici come Leslie Marmon Silko, Louise Erdrich, Linda Hogan, Paula Gun Allen, Elizabeth Cook-Lyn. Si tratta di poetesse, narratrici e saggiste, nate tra gli anni Quaranta e Cinquanta e originarie di varie tribù, che si sono affermate raccontando con voce femminile, da minoranza nella minoranza, la vita in riserva e nelle metropoli e soprattutto il forte legame con il paesaggio e la grande ricerca di armonia che si esprime generalmente nella figura del cerchio sacro. § In Canada il bilinguismo, gli scarsi legami tra la popolazione di lingua inglese e quella di lingua francese e l'influsso statunitense hanno reso difficile il formarsi di una letteratura unitaria e autonoma, i cui primi segni si possono tuttavia rilevare con le ultime due generazioni di scrittori. Nella letteratura franco-canadese, il romanticismo francese, e soprattutto Victor Hugo, influenzò la produzione letteraria di tutto l'Ottocento; subentra più tardi l'influenza del simbolismo e quindi delle correnti d'avanguardia più recenti. Il tema del nazionalismo del Québec e dei suoi risvolti umani e sociali ha rappresentato una costante, influenzando la produzione di scrittori quali Louis Caron (Le coup de poing, 1990), Pierre Turgeon (Un dernier blues pour octobre, 1991) e C. Jasmin (Le Gemin, 1990). Nella letteratura anglo-canadese, i primi nomi degni di rilievo sono quelli di autori di libri di viaggio o sulla vita dei coloni canadesi. La maggior autonomia dall'influsso dei vicini Stati Uniti non ha impedito che anche in Canada, secondo una tendenza originaria appunto degli USA, si diffondesse nei primi anni Novanta tutta una produzione di fiction destinata a un buon successo commerciale, ma con meriti letterari minori, di cui può costituire un esempio tipico un autore quale Lesley Choyce (The Second Season of Jonas McPherson, 1989). Tra gli scrittori che, in questo stesso periodo, si sono invece resi noti al grande pubblico, dando al medesimo tempo buona prova delle proprie capacità narrative, si segnalano Matt Cohen (n. 1942; Emotional Arithmetic, 1991) e le già affermate Alice Munro (n. 1931; Fried of my Youth, 1990) e J. Rule (After the Fire, 1989). Una serie di opere interessanti si è poi avuta nel campo della poesia, in cui, accanto al riconosciuto talento di M. Atwood, sono apparsi autori quali D. Barbour (Stories for a Saskatchewan Night, 1990), S. Scobie (Ghosts, 1991) e Al Purdy (1918-2000; The Woman on the Shore, 1991), questi ultimi due misuratisi anche con la prosa: il primo con Remains (1991), il secondo con A Splinter in the Heart (1991). Tema centrale nella recente produzione letteraria canadese è quello dell'identità nazionale e personale che si ritrova nelle opere di Margaret Laurence (1926-1990) e di M. Atwood, che affronta i nodi della condizione femminile. Per maggiori notizie, si veda il paragrafo di letteratura della voce Canada. § Nell'area degli attuali Stati Uniti la letteratura del periodo coloniale è di carattere religioso e consiste, il più delle volte, in raccolte di sermoni a uso dei colonizzatori e dei colonizzati. Nella prima metà del sec. XVIII emerge la personalità di B. Franklin, i cui scritti politici e filosofici sono ispirati a un elementare buon senso e redatti in uno stile semplice e popolare. La seconda metà del Settecento è dominata dagli scrittori della rivoluzione, tra i quali spiccano le figure di Th. Jefferson e di Th. Paine. Con la nascita della nazione si assiste anche al sorgere di una letteratura nuova che tende a liberarsi dai suoi legami europei. W. Irving rappresenta un esempio della nuova cultura che vuole esprimere le sue caratteristiche nazionali; gli è accanto, nella scoperta del volto dell'America, J. F. Cooper. La rivoluzione romantica europea non ha conseguenze dirette e immediate negli USA, ma il suo influsso si sente nella poesia aristocratica di H. W. Longfellow e di J. R. Lowell e soprattutto nell'opera di R. W. Emerson, che tenta di conciliare le astrazioni del romanticismo con la realtà della vita americana, e di H. D. Thoreau, che afferma, con lui, lo spirito della democrazia statunitense. Allo spirito della loro opera si contrappone, in un certo senso, l'avventura estetica di E. A. Poe e di N. Hawthorne, ai quali spetta il compito di dare una coscienza critica all'arte letteraria che aveva ricevuto da Emerson e da Thoreau una coscienza civile. Sono due momenti di fede e di disperazione che troveranno la loro fusione nell'opera di H. Melville e di W. Whitman, con i quali si chiude quel “rinascimento americano” che ha trovato in F. O. Matthiessen il suo storico e critico più illuminato. Un'ampia fioritura naturalistica e realistica caratterizza la fine del secolo e dà al romanzo un posto di primo piano nella storia letteraria statunitense. W. D. Howells porta lo spirito dell'Ohio nella Boston puritana e Mark Twain fa straripare l'humour maturato nel suo nativo Mississippi fino ai due oceani, indicando ai suoi numerosi lettori i vasti orizzonti di un mondo nuovo. La poesia tutta raccolta e intimista di E. Dickinson e i romanzi introspettivi di H. James appaiono in contrasto con questo movimento espansivo della nuova letteratura, ma tutto l'Ottocento statunitense è caratterizzato dall'intrecciarsi e integrarsi di due concezioni diverse dell'attività letteraria dalle quali sarebbe nata la sintesi matura dell'epoca moderna. Agli inizi del sec. XX la cultura degli USA scopre nel pragmatismo di W. James una filosofia che dischiude nuove vie all'indagine sullo spirito umano: a essa si ricollegherà, più tardi, lo strumentalismo di J. Dewey. Attorno a riviste letterarie impegnate si raccoglie un gruppo di critici che celebrerà la morte del puritanesimo e la nascita del radicalismo letterario il quale avrà la sua massima fioritura negli anni Trenta. I romanzi realisti di Th. Dreiser sono al centro della battaglia anticonformista e i racconti di O. Henry aprono la strada a un genere che diverrà sempre più popolare. La rivista Poetry rende intanto omaggio all'opera ignorata di R. L. Frost, mentre l'imagismo si afferma con A. Lowell, Th. S. Eliot, E. Pound, W. C. Williams. Sono gli anni della scoperta di Parigi, di Sh. Anderson, di F. Scott Fitzgerald e del romanzo proletario; appare intanto con i suoi secchi dialoghi la prosa di E. Hemingway, mentre J. E. Steinbeck fruga spietatamente fra le miserie di una società in crisi e W. Faulkner prepara faticosamente la sua saga del Sud. Alla vigilia della II guerra mondiale la “generazione perduta”, che aveva vissuto a Parigi sotto la protezione amorevole di G. Stein, rientra all'ovile; l'Europa ha scoperto e riconosciuto la nuova letteratura degli Stati Uniti e questa ha ormai acquistato coscienza critica di sé. Nell'immediato dopoguerra, l'incruenta rivoluzione dei beatniks, capeggiata dai narratori J. Kerouac e W. Burroughs e dal poeta A. Ginsberg, contribuisce a rendere popolare anche negli USA l'opera del loro padre spirituale H. Miller, pubblicata quasi tutta in Francia, e agli inizi degli anni Sessanta un altro gruppo di scrittori porta avanti la sua disperata ricerca di un'“identità” in un intrecciarsi di moduli narrativi estremamente diversi fra loro. N. Mailer, T. Capote, S. Bellow, J. D. Salinger offrono un ritratto allucinante dell'artista statunitense del nostro tempo in lotta con la realtà che lo circonda, mentre la drammatica condizione dei neri americani è efficacemente rispecchiata nelle opere di W. E. B. Du Bois, R. Wright, J. Baldwin, J. L. Hughes, M. Luther King, Malcolm X, E. Cleaver. Il cinema, la televisione, la società dei consumi con le sue nuove mitologie insieme a una rilettura del pensiero filosofico europeo (Sartre, Camus e Heidegger) sono i materiali di cui si compone il romanzo postmoderno che esprime, nell'opera di autori diversi fra loro ma accomunati da un ironico atteggiamento nei confronti della cultura tradizionale, la nuova alienazione dell'uomo nella società postindustriale. Th. Pynchon (n. 1937), D. Barthelme (1933-1989), R. Coover (n. 1932), J. Barth (n. 1930), S. Elkin (1930-1995), J. Hawkes (1925-1998), scompongono le strutture tradizionali del romanzo, i concetti di temporalità e causalità su cui si basava, per ricomporre uno spazio stralunato e frammentario, discontinuo e circolare che lascia trasparire dietro al ciarpame dei plastificati status-symbol consumistici un nuovo immaginario mitico. La generale apertura della società americana alle tematiche dei diritti civili e delle minoranze, la rivolta studentesca, il kennedismo favorirono, tra gli anni Sessanta e Settanta, l'irrompere sulla scena letteraria delle minoranze etniche e dei gruppi sociali “emarginati”, tesi alla rivendicazione del loro diritto a esistere e a parlare e impegnati nella ricostruzione della propria identità culturale. Gli Indiani (N. Scott Momoday), i neri (I. Reed e molti altri), le donne (G. Paley, n. 1922; J. A. Philips, n. 1952), le donne nere, oppresse tra gli oppressi (prima fra tutte A. Walker, n. 1944, autrice del famoso Il Colore Viola da cui Steven Spielberg ha tratto nel 1986 l'omonimo film): sono questi i protagonisti di una grande stagione d'impegno civile e morale della letteratura americana. Nei primi anni Ottanta, le delusioni politiche (il cosiddetto riflusso), l'affermarsi di un modello di vita edonistico e urbano, il riprender quota dei valori fondanti dell'american way of life, sono alla radice del riaffermarsi della narrativa realistica (soprattutto nella forma del racconto), attenta registrazione dei piccoli, minimali dettagli della vita urbana contemporanea. Da qui l'etichetta di “minimalisti” che accomuna questi scrittori (J. McInerney, T. Janowitz, S. Minot e molti altri). In alcuni casi il minimalismo è un fenomeno puramente commerciale legato all'industria culturale, in altri esprime il disagio autentico dell'intellettuale nei confronti di un mondo ormai privo di punti di riferimento, come in R. Carver (1938-1988), considerato il caposcuola della corrente. Gli anni Novanta, tramontata la moda minimalista senza che i nuovi autori siano riusciti a eguagliare i risultati dei narratori cui il movimento si ispirava (Raymond Carver in particolare), hanno visto farsi evidenti i sintomi di una crisi della quale è espressione non tanto una scarsa produzione di opere letterarie (il mercato è apparso anzi, come sempre, molto prolifico), quanto la carenza, rilevata dalla critica nazionale e straniera, di autori “nuovi” dotati di autentica incisività e capaci di conquistarsi uno spazio duraturo sulla scena letteraria. Oltre all'assegnazione, nel 1993, del premio Nobel per la letteratura alla scrittrice T. Morrison, sono infatti stati i veterani come S. Bellow (A Theft e The Bellarosa Connection, entrambi del 1989), J. H. Updike (Self-Consciousness, 1989; Rabbit at Rest, 1991), Th. Pynchon (Vineland, 1991), G. Vidal (Live from Golgotha, 1992) e P. Roth (Deception, 1991) a movimentare il panorama della prosa statunitense della fine del Novecento. Quanto ai giovani scrittori protagonisti della corrente minimalista essi hanno segnato, con le opere successive, alcune delle molte direzioni, tra mode di stagione e riscoperte, in cui si muove negli ultimi anni la letteratura nordamericana. David Leavitt (n. 1961), che si era rivelato con i racconti di Family Dancing (1984), ha poi seguito una linea sempre più intimista e dai toni “classici”, trasformando la minuta analisi della realtà in realismo. Toni realistici anche quelli adottati dal già citato Jay McInerney, che, dopo Le mille luci di New York (1984), ha raccontato la fine dell'epoca reaganiana in Si spengono le luci (1992). Del tutto diversa la strada intrapresa da Bret Easton Ellis che aveva esordito – giovanissimo, come del resto tutti gli autori di questa generazione – con Meno di zero (1986); in American Psycho (1991) Ellis centra l'attenzione sulle gesta di un serial killer, suscitando molte discussioni per il suo modo impersonale di descrivere la morte. Quello dell'horror e del brivido è del resto uno dei filoni più importanti, e per certi versi interessanti, della narrativa nordamericana dell'ultimo decenniodel Novecento, sempre in bilico tra la ricerca a oltranza delle novità e la necessità di trovare nuovi filoni di ricerca espressiva. Tra gli autori meritevoli di attenzione, che hanno seguito con arte questa strada, figura Barry Gifford (n. 1946), capace di collezionare nelle sue pagine omicidi in serie mantenendo il distacco dell'ironia e uno stile sempre in equilibrio sul filo del grottesco. Determinante per questo genere di narrativa, che ha poi fatto scuola nel resto del mondo, è il rapporto con il cinema e con giovani registi come David Lynch (con il quale lo stesso Gifford collabora strettamente) e il pulp di Quentin Tarantino. Cinema e letteratura negli USA sono del resto sempre più strettamente intrecciati, non soltanto per la richiesta di nuovi sceneggiatori da parte della macchina hollywoodiana, ma proprio per l'intersezione dei linguaggi. È ormai prassi comune che best sellers come i libri di Scott Turow (n. 1949), Michael Crichton (n. 1942), Tom Clancy (n. 1947) o John Grisham (n. 1955) vengano puntualmente portati sullo schermo con altrettanto successo. Ma accade anche che scrittori raffinati, come lo stesso Gifford o Paul Auster (n. 1947), vengano attratti dalla celluloide. Sono nate così opere di un cinema altrettanto innovativo e ricercato, quello di film come Blue in the Face, firmato proprio da Auster nel 1995. Da sottolineare inoltre la passione tutta statunitense della metà degli anni Novanta per i romanzi scritti da uomini di chiesa, volumi che hanno dominato a lungo le classifiche di vendita. Nella poesia, le nuove generazioni sono rappresentate da figure quali A. Fulton, R. Pinsky, C. Wright, L. Glück e S. Wood, mentre il valore della produzione poetica di D. Walcott, americano delle Antille, di lingua inglese, è stato sancito nel 1992 con l'attribuzione del premio Nobel per la letteratura. Il teatro americano moderno, nato con i potenti drammi di E. G. O'Neill, si sviluppò nel decennio 1920-30 con drammaturghi quali C. Odets, M. Anderson, R. E. Sherwood, ed è in seguito rappresentato soprattutto da T. Williams, A. Miller, W. Inge, G. S. Kaufman, M. Hart, G. Kanin, ai quali si è aggiunta la nuova ondata che fa capo a E. Albee e che ricerca un diverso linguaggio, svincolato totalmente dal teatro borghese e teso verso una satira sociale violenta e spregiudicata, assorbendo suggestioni e modelli delle varie avanguardie artistiche e letterarie. Nel 2016 è stato assegnato il premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan “per aver creato nuove espressioni poetiche all'interno della grande tradizione della canzone americana”. Per maggiori notizie, si vedano i paragrafi di letteratura e teatro della voce Stati Uniti.
Letteratura latino-americana
L'America precolombiana ebbe tre epicentri culturali: il Messico (civiltà nahuatl), l'America Centrale (civiltà maya) e il Perú (civiltà quechua o incaica). Più primitive e marginali altre culture: quelle dei Cuna del Panamá, dei Chocó, Kágaba e Chami della Colombia, dei Guarauno del Venezuela, degli Araucani del Cile, dei Guaraní rioplatensi e di varie tribù del Brasile (Manao, Caduveo, Nheengatu, Uanana, Zaparo). Tutte ebbero (e in parte conservano) complesse mitologie e pertanto poemi religiosi, cosmogonie, inni, leggende e racconti; ma solo le più evolute li elaborarono in opere coscientemente artistiche arrivando anche alla lirica personale, come le elegie del re-poeta Netzahualcóyotl, il delicato canzoniere Otomí e i finissimi yaraví peruviani. Eruditi moderni, come Garibay, González Casanova e Soustelle per il Messico, Recinos e Barrera Vázquez per i Maya, Lara, Basadre e Arguedas per il Perú, hanno riportato in luce una ricca e varia letteratura: poemi epico-religiosi, leggende narrative, favole gnomiche e satiriche, poemetti sentimentali e persino resti di composizioni drammatiche, come il Rabinal Achí dei Maya. § La conquista europea decapitò letteralmente le culture dell'indio americano, distruggendone le forme superiori: non si salvò neppure l'arte di leggere e di scrivere i geroglifici aztechi. Non riuscì, fortunatamente, a distruggere tutte le espressioni letterarie delle civiltà vinte, né tanto meno lo spirito indigeno e il ricordo delle tradizioni native vivo presso gli Indios e i meticci; per cui, quasi subito dopo la conquista, missionari europei cominciarono a raccogliere dalla voce stessa dei vinti orazioni, poemi, narrazioni, leggende e notizie d'ogni genere, di cui nutrirono i loro preziosi scritti. I nomi di B. de las Casas, l'ardente difensore degli Indios, di B. Sahagún, etnologo avanti lettera, e di Francisco Ximénez (che trascrisse e tradusse, nel 1722, il Popol Vuh dei Maya) sono i più noti, ma non certo gli unici. Nello stesso secolo della conquista, dalle scuole subito istituite dai vincitori (Città di Messico ebbe la prima università del Nuovo Mondo fondata nel 1551 e Lima la seconda, fondata nel 1553) uscivano anche meticci e Indios puri che, sebbene formati nella cultura europea, avevano chiara coscienza della propria “americanità”. Tale è il caso di Fernando de Alva Ixtlilxóchitl, che scrisse la sua cronaca in lingua nahuatl, e di Hernando Alvarado Tezozómoc, nel Messico; nel Perú, di Felipe Guamán Poma de Ayala, fervido esaltatore del passato incaico e soprattutto di Garcilaso de la Vega el Inca. Per la cultura el Inca è un europeo del Rinascimento, un umanista cristiano; ma l'argomento del suo capolavoro (i Commentari reali degli Inca) e, quel che più importa, lo spirito che lo rende unico ed esemplare, fanno di lui il primo grande scrittore latino-americano. Su un piano artisticamente meno elevato, ma praticamente più efficace, la Chiesa contribuì al meticciato culturale non solo impiegando artigiani indigeni nella costruzione dei suoi edifici, nella pittura e nelle arti decorative (per cui il barocco latino-americano acquistò caratteri suoi inconfondibili), ma anche con la formazione del clero locale, che nei sec. XVIII e XIX si metterà più volte alla testa delle rivendicazioni indipendentiste, e con l'uso, sia pure a scopo edificante e didattico, di rappresentazioni, danze e “invenzioni” legate alle tradizioni indigene. Il teatro in lingua indigena ed europea fiorì per tutta l'epoca coloniale (la prima rappresentazione di cui si abbia notizia risale addirittura al 1526, ed ebbe luogo a Città di Messico) come elemento consueto di feste religiose (Corpus Domini soprattutto) e profane; gli ordini religiosi, particolarmente i gesuiti, lo usarono abitualmente nelle loro missioni, seminari e collegi. Così si spiega come l'America coloniale abbia potuto dare alla Spagna un drammaturgo quale Juan Ruiz de Alarcón e come nel sec. XVIII sia stato ritrovato in un villaggio andino, per iniziativa di un parroco, il dramma Ollantay, di indubbia sostanza indigena anche se con influenze formali della drammaturgia ispanica. Ma il fenomeno forse più interessante è l'affermarsi di una coscienza americana presso scrittori creoli. Già nel 1596 nasce nel Cile il primo poema epico americano: El arauco domado (L'araucano domato), di Pedro de Oña; e nel sec. XVII possono considerarsi meticci alcuni poeti e scrittori di rilievo quali Juana Inés de la Cruz, Francisco Pineda Bascuñán, Diego de Hojeda, Hernando Domínguez Camargo, Juan de Espinosa Medrano, il satirico Juan del Valle Caviedes, il poligrafo Carlos Sigüenza y Góngora, la mistica Madre Castillo e altri ancora. Nel sec. XVIII, l'Europa apporta nuove idee e nuovi generi letterari (il saggio critico e storico, la poesia arcadica, il trattato scientifico, qualche tentativo di narrativa di viaggio e di costumi, il sainete o farsa con sottofondi satirici, la pubblicistica), ma la coscienza americana affiora nei testi più originali, colorendosi di progressismo illuminista. I gesuiti, prima e dopo la loro espulsione (1767), operano nella poesia e nel saggio storico con singolare modernità (R. Landívar, F. Clavijero, E. Molina); enciclopedisti accesi, come P. de Olavide, E. Santa Cruz Espejo, F. Miranda, F. J. Caldas, A. Nariño, S. Mier e altri ancora, cominciano a diffondere le idee che porteranno all'indipendenza; strani libri di viaggio, come il Lazarillo de ciegos caminantes (Guida dei viandanti ciechi) di A. Carrió de la Vandera, iniziano finalmente una vera scoperta dell'America da parte degli Americani; si moltiplicano i teatri e in essi i sainetes criollos, gremiti di tipi e costumi locali; gli stessi poeti neoclassici e arcaici, apparentemente disimpegnati, non perdono di vista la loro America: i lirici dell'Escola mineira, prima manifestazione di una letteratura brasiliana, e il preromantico peruviano M. Melgar cospirano addirittura per l'indipendenza. Proprio alla vigilia di questa nasce, infine, il romanzo ispano-americano con El periquillo sarniento (Pappagallino rognoso, 1816) del messicano Fernández de Lizardi. Col distacco politico dalla rispettiva madrepatria europea, nascono anche le varie letterature nazionali (vedi Messico, Argentina, Perú, Brasile, ecc.), sempre comunque aperte verso l'Europa, i cui successivi movimenti letterari (romanticismo, realismo, naturalismo, simbolismo e avanguardie) puntualmente accolgono e rielaborano. Se le capitali culturali ibero-americane erano state fino a tutto il sec. XVIII Madrid e Lisbona, dal sec. XIX lo sono Londra, New York e soprattutto Parigi. Ma, a parte le tecniche adottate, la sostanza delle migliori opere resta americana. Così il romanticismo reca con sé l'esaltazione della natura americana, dalle Ande alla pampa alle foreste amazzoniche, l'idealizzazione dell'indio (Cumandá, di J. L. Mera, Tabaré, di J. Zorrilla de San Martín, O Guarany, di J. de Alencár, ecc.), il popolarismo (culminante nella letteratura gauchesca rioplatense, che ha nel Martín Fierro un capolavoro assoluto), l'uso di voci indigene e vernacolari. Il realismo e il naturalismo, vivi soprattutto nella narrativa, introducono una problematica tipicamente locale (conflitti fra le diverse razze, miseria e ricchezza, sfruttamento di peones, di neri, di Indios, conseguenze dell'immigrazione, rivolte sociali e rivoluzioni politiche) e portano anche alla nascita del teatro moderno, col rioplatense Florencio Sánchez, e della saggistica, tuttora fiorente (F. D. Sarmiento, J. Montalvo, M. González Prada, E. M. Hostos, J. Sierra O'Reilly, J. E. Rodó, ecc.). Il simbolismo e le avanguardie stesse, pur avendo dato risultati prevalentemente lirici, con una fioritura imponente fino ai nostri giorni (da R. Darío a P. Neruda, da L. Lugones a G. Mistral, da C. Vallejo a V. Huidobro, da J. C. de Melo Neto a O. Paz, ecc.), non rappresentano certo una pura imitazione di mode straniere, bensì modi espressivi di una coscienza latino-americana ormai pienamente partecipe del travaglio del mondo contemporaneo. E ben se ne accorse, infatti, la cultura europeooccidentale, che nel trentennio Sessanta-Ottanta “scoperse” e accolse con entusiasmo molti nuovi narratori e poeti latino-americani, prima ignoti ai non specialisti o visti tutt'al più come frutti estemporanei di un continente esotico e quasi astorico. Nel 1945, il premio Nobel per la Letteratura concesso per la prima volta a uno scrittore sudamericano (la poetessa cilena Gabriela Mistral) poté sembrare ancora una rondine che non faceva primavera; ma altri tre Nobel che premiarono rispettivamente nel 1967, 1971 e 1982 il romanziere guatemalteco Miguel Ángel Asturias, il poeta cileno Pablo Neruda e il romanziere colombiano Gabriel García Márquez, furono altrettanti attestati di riconoscimento di una vasta e rigogliosa letteratura del tutto contemporanea che, oltre ai premiati, poteva annoverare molti altri scrittori validissimi (e persino, in qualche caso, maggiori di essi), come gli argentini J. L. Borges, J. Cortázar, E. Sábato, E. Mallea, A. Bioy Casares; i messicani A. Reyes, O. Paz, J. Rulfo, C. Fuentes, M. Azuela, M. L. Guzmán, C. Pellicer; i cubani J. Lezama Lima, A. Carpentier y Valmont, N. Guillén; i peruviani C. Vallejo, M. Vargas Llosa premio Nobel per la letteratura nel 2010, Louis Sepulveda (1949-2020) J. M. Arguedas, C. Alegría, Westphalen; i cileni J. Donoso, N. Parra, G. Rojas, E. Lihn; gli ecuadoriani J. Icaza, Adoum, D. Aguilera Malta; i colombiani Á. Mutis, Caballero Calderón, R. Herazo; i venezolani A. Uslar Pietri, I. Gramcko, M. Otero Silva, Liscano, R. Gallegos, R. Blanco Fombona; l'uruguayano J. C. Onetti; il paraguayano A. Roa Bastos; i portoricani L. Palés Matos e R. Marqués, oltre alla folta pattuglia dei brasiliani: C. Drummond de Andrade, V. de Moraes, M. Bandeira, gli Andrade, J. Amado, E. Verissimo, J. Guimarães Rosa, M. Mendes, la C. Meireles, J. Lins do Rêgo, G. Ramos, J. Cabral de Melo Neto, la C. Lispector. Da un capo all'altro del continente, e specialmente nei fervidi centri culturali ed editoriali che erano Buenos Aires e Città di Messico, Bogotà e Rio de Janeiro, Caracas e Santiago del Cile, sorsero poeti e narratori di forte rilievo, movimenti d'avanguardia dai pittoreschi nomi, libri e riviste che presto valicarono l'Atlantico: autentico “ritorno dei galeoni” alle antiche patrie europee, che a un certo punto, soprattutto negli anni Settanta, determinò quello che fu chiamato, non a torto, “il boom del romanzo latino-americano” e di riflesso, oltre a un sempre più vasto consenso dei lettori di ogni lingua, il moltiplicarsi di antologie, traduzioni e studi critici in misura mai registrata prima. Avviatosi a conclusione il boom del romanzo latino-americano nella cultura europea e occidentale, la letteratura americana di lingua spagnola ha visto attivi, accanto a figure il cui valore appare ormai indiscutibile (G. García Márquez, C. Fuentes, M. Vargas Llosa, J. Amado), numerosi altri interessanti autori, quali gli argentini Liliana Heer (La tercera mitad, 1989) e J. P. Feinmann (La astucia de la razón, 1991), la brasiliana Ana Miranda (Boca do inferno, 1990), il colombiano G. Espinosa (Sinfonía desde el Nuevo Mundo, 1990), la messicana Laura Esquivel (Como agua para el chocolate, 1989), la cilena I. Allende e l'ecuadoriano J. Ponce. Alla generazione del boom è così seguita quella del cosiddetto boom junior, con, insieme ad alcuni degli autori precedentemente citati, scrittori come Fernando del Paso (n. 1935), Gustavo Sáinz (n. 1940) in Messico, Severo Sarduy (n. 1937), Reynaldo Arenas (n. 1943) e Zoé Valdés (n. 1959) a Cuba, Alfredo Bryce Echenique (n. 1939) in Perú, Nestor Sánchez (n. 1935) e Osvaldo Soriano (1943-1997) in Argentina, Álvaro Mutis (n. 1923) in Colombia, Antonio Skármeta (n. 1940) in Cile. Questi autori difendono un certo concetto di realtà, non univoca né lineare, ma ambigua, misteriosa. E alla letteratura affidano il compito di rappresentarne la complessità, di sondarne la sostanza molteplice. Realisti puri o realisti magici, rinviano tutti allo stesso mito, quello dell'origine misteriosa e unitaria del vario e discorde mondo delle apparenze. Va registrata inoltre la forte influenza dei linguaggi cinematografici sul nuovo romanzo e il verificarsi di frequenti e reciproci travasi tra narrativa e cinema, con romanzi che si trasformano in svelte sceneggiature cinematografiche e modelli cinematografici che si convertono in utili schemi di struttura compositiva. Fiorente può definirsi la produzione della poesia, che oltre al riconoscimento rappresentato dal Nobel per la letteratura vinto da O. Paz nel 1990, ha visto aggiungersi all'opera di poeti già noti a livello internazionale il promettente risultato del lavoro di nuovi autori (tra cui si segnalano i brasiliani S. Antunes e L. Coronel, il costaricense L. Albán, il salvadoregno I. López Vallecillos, la guatemalteca C. Matute, il panamense E. Jaramillo Levi e i nicaraguensi F. de Asís Fernández e J. Chow), i quali non mettono più al centro della propria attenzione esclusivamente l'elemento politico o di denuncia sociale: l'attenuarsi di alcune delle tensioni che perturbavano il subcontinente sembra infatti aver reso possibili una diversificazione degli orientamenti e l'esplorazione di una più vasta gamma di tematiche. Tra i principali autori vanno ricordati anche: i cubani G. Cabrera Infante, S. Sarduy, H. Padilla e J. Kozer; gli argentini R. Juarroz, J. Gelman, M. Puig, H. Bianciotti (naturalizzato francese), J. C. Onetti (argentino di adozione), H. Vázquez Rial, Aguirre, Alonso, Arias, E. Gudino Kieffer, E. R. Larreta; F. Madariaga, D. Moyano, Nuñez, A. Posse, N. Sánchez, D. Viñas; i messicani Arudjis, J. E. Pacheco, J. García Ponce, J. J. Arreola, G. Zaid, Sabines, Carballido, S. Elizondo, M. A. Montes de Oca, A. Azuela; i peruviani Bryce Echenique, J. R. Ribeyro, J. Sologuren, Reynoso, S. Cisneros; i venezolani G. Sucre, S. Garmendia, J. Balza, Medina, G. Meneses, Crespo; i cileni J. Edwards Bello, M. Arteche, I. Allende; i colombiani G. Espinosa, P. A. Mendoza, M. Mejía Vallejo, J. G. Cobo Borda; il guatemalteco A. Monterroso; i brasiliani A. e H. de Campos, A. Dourado, D. Trevisan, Moreira de Fonseca. Tra i poeti della generazione successiva si distinguono, in Cile, José María Memet, Carmen Berenguer, Federico Schops, Heddy Navarro, Juan Camerón, Teresa Calderón, nati tra gli anni Quaranta e Cinquanta. In Argentina godono di un certo prestigio Santiago Sylvester, Mario Romero, Angel Lleiva, Osvaldo Ballina, Eduardo d'Anna, Ricardo Herrera. In Uruguay spiccano le voci femminili, dalla ormai apprezzatissima Cristina Peri Rossi (n. 1941) ad Amanda Berenguer, Ida Vitale, Inés Silva Vila, Circe Maia, Marosa di Giorgio, Clara Silva e altre. Più variegato il panorama della lirica peruviana, le cui voci più giovani si caratterizzano per i toni personali e l'originalità del dettato. È questo il caso di Mario Montalbetti, José Morales Saravia, Eduardo Chirinós, Carmen Ollé. La poesia colombiana conta ancora sulla fervida vena creativa di Álvaro Mutis, cui si aggiunge quella di una nuova interessante promozione poetica rappresentata da Mario Rovero, Juan Gustavo Cobo Borda, Elkin Restrepo, Jaime García Maffla. A Cuba la poesia della seconda metà del Novecento è rappresentata da Miguel Barnet (n. 1940), Belkis Cuza Malé (n. 1942), Nancy Morejón (n. 1944), Luis Rogelio Nogueras (1946-1985), cui si aggiungono voci di espatriati come Roberto Cazorla, Pío Serrano, Felipe Lázaro. Nell'America Centrale spiccano le voci di Alfonso Quijada Urías e David Escobar Galindo (Salvador), di Beltrán Morales, Jorge Eduardo Aurellano e Gioconda Belli (Nicaragua). In Messico, O. Paz continua a esercitare il suo alto magistero poetico, mentre acquistano sempre maggior prestigio la lirica di Homero Aridjis e quella dei più giovani Carlos Montemayor, Marco Antonio Campos, José Joaquín Blanco. Quanto al teatro nomi di spicco sono soprattutto Gámbaro, O. Dragún, Cuzzani, R. Cossa, R. Halac, Somigliana (argentini), R. Usigli e C. Fuentes (messicani), E. Buenaventura (colombiano), J. Díaz (cileno), Rengifo (venezuelano), i chicanos (ispanofoni degli Stati Uniti) L. M. Valdez e Chávez. Sul fronte teatrale, le aree privilegiate restano comunque Argentina, Cile, Colombia, Cuba e Messico, ma i prodotti sono diseguali e variegati. Si va dall'attivissimo mondo teatrale cileno, che ancora risente della forte spinta propositiva impressa dai grandi gruppi d'avanguardia degli anni Settanta (Ictus, Teatro Imagen, Taller de Investigación Teatral) ai prodotti più personali e soggettivi, legati alla creatività del singolo (soprattutto Cossa e Badillo), proposti dalla drammaturgia argentina; dalla gestione collettiva e movimentista del piano di sviluppo teatrale tentata in Colombia (dal Teatro Experimental de Cali al Teatro La Candelaria) ai più regolari e solidi successi (in particolare quelli di Liera e di Tovar) maturati negli ambienti teatrali messicani.
Arte precolombiana
L'arte dell'intero continente americano non si presenta in modo omogeneo, poiché ogni area culturale possiede stili peculiari e materiali di elezione che la differenziano dalle altre. Inoltre nell'America “indigena” occorre distinguere la produzione archeologica, di gran lunga superiore, da quella recente. Nell'America Settentrionale gli Eschimesi hanno mantenuto ancora oggi una raffinata produzione di sculture rappresentanti animali o scene di genere su osso e avorio, unici materiali facilmente reperibili nel loro ambiente, mentre il legno di deriva era usato per maschere di tipo fantastico. Sulla Costa del Nord-Ovest, gli Indiani del salmone hanno prodotto un'arte caratteristica, di tipo surreale, con elaboratissime maschere e grandi pali totemici dipinti a vivaci colori in uno stile drammatico ed efficace. L'area subartica delle foreste, con la sola eccezione degli Ingalik, che scolpirono maschere a imitazione di quelle degli Eschimesi d'Alaska (che a loro volta derivarono questo genere d'arte dal Nord-Ovest), è artisticamente sterile, salvo la decorazione delle pelli con aculei di porcospino e i disegni incisi sulla superficie dei recipienti di corteccia. Gli Indiani delle Praterie furono maestri nella decorazione delle pelli, dipinte o ricamate con aculei di porcospino, più tardi con perline d'importazione, artigianato che continua ancora nelle riserve. Negli Stati Uniti sudorientali la civiltà archeologica dei mounds ha lasciato come principali testimonianze grandi tumuli artificiali di terra, talora in forma zoomorfa, e un tipo di ceramica e di scultura in pietra che denota influssi messicani. Epigoni in epoca storica di questa cultura furono forse gli estinti Natchez del basso Mississippi. Prima e dopo la conquista, gli Irochesi produssero una ceramica dipinta a motivi geometrici e una modesta scultura di genere, mentre sono notevoli le maschere di legno, collegate alle società segrete. Altra loro forma artistica originale sono i wampum, collane di conchiglie, usate come moneta e per messaggi. La California e il Gran Bacino si distinsero solo per i recipienti a intreccio, raffinati sia dal punto di vista tecnico sia artistico. L'area pueblo ebbe un'elevata produzione fittile, dipinta con motivi geometrici o naturalistici, che risente di influenze messicane. La Mesoamerica è caratterizzata, specie in area maya, da un'arte archeologica raffinatissima, con elementi costanti in tutta la zona di diffusione. La splendida architettura in pietra presenta tre tipi di edifici: le piramidi , i palazzi e gli sferisteri, cui vanno aggiunti gli osservatori astronomici maya, e livelli artistici altrettanto elevati raggiunsero la pittura parietale, la scultura, la ceramica e le arti minori. Le culture circumcaribiche eccelsero precocemente nella lavorazione dei metalli preziosi, inventata in quest'area. La zona andina, come quella mesoamericana, si presenta omogenea all'interno e oltre all'architettura in adobe sulla costa e in pietra sull'altopiano e alla scultura, si svilupparono la ceramica modellata e dipinta e la tessitura. In Amazzonia si è avuta una notevole produzione fittile di età archeologica (Marajó, Santarém), che presenta tratti talora simili a quella di Chavín e appare già matura fin dalle fasi più antiche. In epoca recente le produzioni più interessanti sono quelle di arte plumaria e la ceramica del gruppo dei Pano, dei Carajá e dei Caduveo. Nell'estremo sud del continente le culture fuegine sono state artisticamente sterili. § Dopo la scoperta dell'America e la susseguente colonizzazione, l'arte indigena decadde ovunque e oggi essa è per lo più volta a soddisfare il mercato turistico. Gli Haida, per esempio, hanno prodotto tutta una serie di suppellettili (piatti, cucchiai, truogoli, ecc.) in argillite, riprendendo in maniera schematica i temi totemici, ma usando strumenti di acciaio, per cui il disegno appare rigido e convenzionale. I Navaho tessono coperte policrome di lana di pecora con motivi geometrici, fra cui prevale il rombo, eseguono le loro antiche e originali pitture con sabbie colorate e producono oggetti di argenteria con turchesi. Nell'area pueblo si confezionano kachina (bambole che rappresentano divinità) di legno policromo, per il mercato turistico. In Messico, subito dopo la conquista, molti disegnatori aztechi collaborarono all'illustrazione delle cronache redatte dagli Spagnoli. I circumcaribici Cuna producono bamboline, battellini sciamanici e bellissimi tessuti policromi in applique. Inoltre, sempre in area circumcaribica, si riproducono antiche forme di oreficeria nei vecchi stampi. In Perú, ad Ayacucho, si possono trovare deliziose ceramiche che rappresentano chiesette, animali di vivace naturalismo e retablos in struttura lignea dipinta, in cui sono contenute figurine illustranti presepi, mercati o il culto dei santi; a Pucará si producono bellissimi tori di ceramica con un lustro brillante. Infine in Brasile, gli unici oggetti interessanti sono le bamboline in argilla dei Carajá, dipinte in rosso e nero, e vari paraphernalia dei culti sincretistici afro-brasiliani (candomblé, macumba, ecc.).
Arte coloniale
La colonizzazione europea, imponendo una società estranea nel Nuovo Mondo, vi trapiantò anche la sua cultura, ma mentre nell'America Settentrionale l'arte coloniale fu espressione esclusiva dei gruppi di Europei che vi emigrarono, nell'area di conquista spagnola e portoghese si ebbe, fin dal sec. XVI, una fusione fra la tradizione artigiana indigena e l'architettura iberica coeva tramite l'attività missionaria degli ordini religiosi, che vi organizzavano la vita civile. Gli schemi architettonici e urbanistici erano quelli europei con l'aggiunta di elementi indigeni (il patio, il cortile) e di una decorazione vistosa eseguita da maestranze locali. Nel Seicento si sviluppò un'autonoma corrente barocca che ebbe il suo centro più splendido in Messico e si espresse soprattutto nelle grandi cattedrali di gusto plateresco (Puebla), abbondantemente ornate con sculture, intagli, dorature e violenti contrasti di colore che testimoniano il perdurare delle caratteristiche locali. L'abbondanza decorativa praticamente nascondeva la struttura architettonica (ed è una diretta discendenza del gusto incaico) nelle regioni delle Sierre sudamericane (Ecuador, Bolivia, Perú) che ebbero i loro centri più vivi sulle rive del lago Titicaca e a Cuzco, vecchia città degli Inca che incorporò le forme europee nella sua precedente struttura. Nel Settecento si diffuse facilmente il churriguerismo (santuario di Nostra Signora di Ocotlán, Tlaxcala), con intonazioni più sobrie, dovute alla mancanza di una forte tradizione indigena, nell'area portoghese (vedi Brasile), dove la classe dirigente dei grandi proprietari elaborò intorno a Recife lo slanciato “barocco della costa” e nelle regioni minerarie un'arte leggera ed elegante, vicina al rococò europeo. In quest'ambiente si inserisce l'opera di Anton Francisco Lisboa detto O Aleijadinho. In tutta l'America Latina la pittura si uniformò, senza originalità, ai modelli di Spagna e Portogallo, resi con sovrabbondanza decorativa e aspri contrasti di colore. § Nell'America Settentrionale la situazione è differente: gli Europei che vi emigrarono non trovarono una civiltà alla quale contrapporsi e inoltre avevano scopi diversi dalle colonie latine, essendo coltivatori e commercianti. I loro centri sorsero dal nulla, con funzioni di difesa dall'ambiente naturale. Svilupparono quindi un'edilizia in legno che si espresse nelle case contadine, simili a quelle inglesi del sec. XV, e nelle chiese anglicane a struttura semplicissima. Dalla fine del Seicento, con l'evolversi della società verso forme economiche e politiche più avanzate, si ebbero le prime costruzioni in pietra o mattoni, generalmente meeting houses per una collettività che tendeva all'autogoverno e case d'abitazione nelle città, dove si andava differenziando un ricco ceto di commercianti. Le forme architettoniche erano però quelle europee, a imitazione del palladianesimo settecentesco inglese, che venne però rivissuto originalmente nelle plantation houses, le case dei proprietari terrieri del Sud, fino alla metà dell'Ottocento. Nel periodo rivoluzionario, l'evocazione di un parallelismo che legava la nuova Repubblica con quella di Roma, e poi con la democrazia greca, portò in arte, specialmente negli Stati settentrionali, al classicismo “romano” di Th. Jefferson (campidoglio di Richmond, Virginia) e a quello “ellenico” di B. H. Latrobe (cattedrale cattolica di Baltimora), che perdurò fino al 1850. Non hanno valore artistico, ma di testimonianza, le pitture dei primi colonizzatori (sec. XVI e XVII), che consistevano in ritratti e documentazioni della vita e della natura dell'America selvaggia. Fra il sec. XVIII e il XIX furono attivi i primi pittori nordamericani di una certa importanza: J. S. Copley e B. West, autori di quadri di storia, legati per educazione artistica alla cultura inglese.
Arte contemporanea
Dopo i diversi richiami agli stili di ogni epoca e di varia origine, la formazione di un linguaggio autonomo dell'architettura nordamericana matura tra il 1870 e il 1893. Dopo il tempo di Jefferson, alla pianta neoclassica si sostituisce (specie per gli edifici residenziali) quella aperta e viene adottato il metallo per le strutture di edifici alti. In questa nuova stagione appare la vigorosa personalità di H. H. Richardson, che pur reagendo al revival gotico con un altro stile originario dell'Europa, il romanico, riesce a sviluppare, attraverso un'energia costruttiva di essenziale funzionalità, un discorso architettonico nuovo. Grande influenza sui successivi edifici di Chicago ebbero i suoi raggiungimenti nello Shingle Style, divenuto molto popolare dopo il 1850 (e portato alle più immaginose soluzioni da B. Price, W. Eyre, W. R. Emerson), e le esperienze perseguite sullo sfruttamento delle qualità dei materiali impiegati. Impegnata nella ricerca di una nuova sintesi di visione spaziale è la Scuola di Chicago. Tra i molti esponenti di questo movimento (J. W. Root, M. Roche, Burnham), che collauda le esperienze più diverse all'insegna del binomio arte-tecnica, domina dal 1880 L. H. Sullivan, che aveva appreso alcune preziose lezioni come assistente del fantasioso Furness. A continuare le tendenze della Scuola di Chicago dopo il 1893 sono (oltre a G. G. Elmslie) i fratelli Greene, assieme all'originale Maybech, che svolgono la loro attività nell'ambiente di provincia. Essi si pongono agli inizi di quello stile californiano sorto nell'ultimo decennio dell'Ottocento (di cui la sintesi più rilevante è da ricercarsi nel Bay Region Style) e sviluppatasi mediante l'opera di Dinwiddie, W. W. Wurster e, più tardi, dei viennesi R. M. Schindler e R. Neutra. In quest'ambiente si colloca anche F. L.Wright, la cui attività copre un arco di tempo che va dal cosiddetto primo periodo delle prairie houses (1900-1909) alla sorprendente e rigogliosa stagione del secondo dopoguerra, con la progettazione del Museo Guggenheim di New York. La validità della sua opera, tesa alla conquista di uno spazio organico, costituisce il presupposto che caratterizzerà poi spazi, planimetrie, uso di materiali e funzionalità di tutta l'architettura futura. A segnare una tappa fondamentale nella progettazione dei grattacieli sono da ricordare, tra gli altri, W. Le Baron Jenney, W. B. Mundie e la coppia Burnham-Root. In questo nuovo discorso s'inserisce da par suo anche Sullivan con il palazzo Wainwright a Saint Louis (1890-91). Con C. Gilbert si giunge al Woolworth Building di New York (1911-13). Un'interessante esperienza per gli sviluppi futuri dell'impiego di materiali inconsueti è offerta dall'opera di W. J. Polk. Con l'accentuarsi progressivo dell'industrializzazione della città e l'irrefrenabile spinta produttiva, già agli inizi del Novecento gli USA avevano preso coscienza di tutta la problematica urbanistica. Una nuova ondata di influenze europee sottolinea negli anni 1920-40 il razionalismo dell'International Style in cui operano dal 1936 i maestri del Bauhaus (Gropius, Mendelsohn, Mies van der Rohe), che erano stati preceduti da Neutra, Aalto, Saarinen, senza peraltro modificare le direttrici dell'architettura americana, portata alla creazione di moduli trasformabili nel tempo, in costante adesione alle esigenze nuove. Nel processo industriale, qui più che altrove, si sviluppa l'importanza del design, sensibile alle sollecitazioni del continuo mutare delle forme. § Negli Stati dell'America Latina l'evoluzione dell'architettura appare condizionata dagli avvenimenti politici, caratterizzati nel corso dell'Ottocento dalle lotte per l'indipendenza. Soltanto verso il 1930, dopo un frenetico sviluppo delle città e sulla spinta di nuove esigenze sociali, inizia la fase dell'architettura nuova, la cui evoluzione non segna sostanziali differenziazioni di fondo, tranne che per il Messico. Qui operano, con sguardo coerente al passato, J. Villagran García, J. O'Gorman e Villagran Legarreta; mentre tra gli esponenti delle generazioni successive si impongono M. Pani, S. Ortega, F. Candela, R. Salinas, M. Cetto e L. Barragan. Nel Brasile, dopo la proclamazione della Repubblica (1889) e l'intenso ampliamento delle città (che porta tracce dell'Art Nouveau introdotta dal francese Dubugras), domina la figura di L. Costa che con la successiva collaborazione di Le Corbusier dà una radicale impostazione nuova all'architettura, alimentata dall'ingegno di O. Niemeyer. Gli architetti che verranno poi (J. Moreira, A. E. Reidy, i fratelli Milton) sono più o meno riconducibili alle esperienze dei tre maggiori. Diversa la situazione in Colombia, dove determinate condizioni ambientali favoriscono, nell'affinità di certi problemi, l'afflusso di apporti degli Stati Uniti. Nell'architettura del Venezuela grandeggia l'opera di C. R. Villanueva; in quella del Cile domina la figura di S. Larrain e nell'Uruguay quella del caposcuola J. Villamajo. Tra gli esponenti dell'architettura moderna in Argentina (dove il forte carattere coloniale di fondo ha persistenze insopprimibili) sono da ricordare, dopo J. Kalnay, i Graziani e altri ancora capeggiati da H. Caminos. Esempi validi per soluzioni tecniche e impostazioni architettoniche sono ancora nei Caribi. § La storia delle arti figurative durante l'Ottocento si svolge su direttrici comuni sia negli Stati Uniti sia nell'America Latina, specie per la pittura di paesaggio, i cui moventi di ispirazione sono dettati dall'immediato contatto con la natura vista minuziosamente nei suoi precisi riferimenti reali o trasfigurata. Alcuni ideali e certe esperienze recano l'impronta di apporti europei. Importante fu l'attività realistico-romantica della Hudson River School, mentre tra i paesaggisti dell'America Meridionale risalta l'opera del messicano J. M. Velasco. Nel Nord la pittura della seconda metà dell'Ottocento guarda alla Francia di Corot e alla Scuola di Barbizon (nella scultura svincolata da ogni ricordo canoviano emerge l'opera di A. Saint-Gaudens). Tra gli artisti che precedettero il vasto movimento di esperienze impressioniste (M. Cassat e T. Robinson, assieme a quegli artisti che emergono dal Gruppo dei Dieci, come J. H. Twachtman e A. Weir) sono da ricordare W. Morris Hunt, W. Page e Th. Eakins, oltre a W. Homer. Interessante per le conseguenze posteriori è la pittura di A. P. Ryder, al cui senso visionario si richiamerà più tardi il surrealismo. Dopo la formazione nel 1908 del Gruppo degli Otto (cui si avvicinò anche Stuart Davis, uno dei pionieri dell'arte astratta), dei quali il più fedele agli effetti della luce impressionista fu M. Prendergast, una nuova coscienza artistica prende forma nel Novecento e stimolanti furono i contributi del fotografo e gallerista A. Stieglitz e la fondamentale Armory Show (1913). È il periodo in cui appaiono con tutto il loro peso le due diverse figure di J. Marin e di L. Feininger. Tutti proiettati verso tendenze d'avanguardia sono M. Weber, G. W. Bellows, Man Ray e lo stesso Th. H. Benton, che diverrà poi uno dei fautori della pittura regionale (American Scene). Tra astrazione e ritorno al figurativo si pone il movimento dei precisionisti (o immacolati). Tra il 1930 e il 1940 vi fu un grande ritorno al realismo, con punte espressionistiche (talvolta anche di ispirazione romantica) in cui si pone la visione di Ben Shahn, poi evolutasi in direzione del tutto personale. L'arte sviluppatasi nel Messico dopo la rivoluzione del 1910, alimentata dalla tradizione delle tecniche popolari dell'incisione e dell'affresco, si svolge in un realismo intenso, la cui violenza riesce a superare il carattere illustrativo e altre implicazioni di spirito nazionalistico. Note sono le pitture sulle ampie superfici degli edifici pubblici eseguite da D. Rivera, D. A. Siqueiros e J. C. Orozco, che non poca influenza hanno recato negli altri Stati dell'America Meridionale (per il Brasile basterebbe citare l'opera di C. Portinari, per l'Argentina quella di E. Pettoruti). Una posizione a sé occupa l'arte di R. Tamayo, le cui radici affondano nell'arte precolombiana, ma con una visione che partecipa degli stili d'oltreoceano. Tutte le avventure dell'arte non figurativa sono state vissute anche nell'America Meridionale, specie attraverso quel veicolo di contatti e di diffusione che è la Biennale di San Paolo del Brasile. Negli Stati Uniti l'arte astratta ebbe una sua continuità anche negli anni del realismo. Nel 1937 due fatti importanti suggellano questa tendenza: la costituzione della American Abstract Artist e il Museum of Non-Objective Painting fondato da Solomon R. Guggenheim. Alle fortune dell'arte astratta contribuirono artisti di provenienza europea, come Mondrian, Gorky, De Kooning. Dopo la II guerra mondiale l'action painting di Pollock porta l'astrattismo a una nuova visione espressionistica (determinando anche un nuovo rapporto tra l'artista e il quadro). L'importanza e la lezione di Pollock agiscono profondamente sulle correnti della pittura europea d'avanguardia. Protagonista di una lunga e inesauribile stagione della scultura americana è A. Calder. Attraverso le poetiche dell'informale e le nuove significazioni materiche del New Dada (J. Johns e R. Rauschenberg), la varietà e il susseguirsi di nuove tendenze dell'arte americana in particolare (e di quella europea in genere) hanno portato la ricerca a sperimentazioni nuove e impreviste. Dalle tematiche della pop art,op art e land art a tutte quelle esperienze dell'arte programmata, cinetica e ottica, fino all'“arte della luce”, in cui laser e cervelli elettronici sperimentano variazioni di effetti luminosi. Dalle applicazioni decorative dell'arte psichedelica si è approdati alla trasformazione dinamica o visualizzazione multipla. A esaltazione della civiltà industriale e sulle premesse dei fantasiosi “stabili” di Calder si pongono le ricerche della minimal art e delle “Strutture primarie” per un nuovo discorso di interferenze estetiche e dialettiche col panorama urbano (T. Smith e B. Newman, tra gli altri). Per reazione sorge quindi l'environmental art quale partecipazione ai problemi ecologici. Altre conseguenze del dadaismo sono espresse dalla corrente della conceptual art.
Musica
Il patrimonio musicale dell'America è ricchissimo e si configura in una multiforme varietà di espressioni e di fenomeni collegati alla parallela eterogeneità dei gruppi etnici sparsi su un'immensa area geografica. Le prime testimonianze sulla musica degli Indiani dell'America Settentrionale (un complesso imponente di popolazioni che comprende, senza contare gli Eschimesi e gli Indiani canadesi, più di 350 gruppi tribali primari), risalgono al sec. XVII; ma solo dagli inizi del Novecento la ricerca etnomusicologica ha assunto carattere sistematico. Al di là delle differenze legate alle accennate distinzioni etniche, è possibile isolare alcuni tratti fondamentali comuni all'area dell'America Settentrionale. Il patrimonio musicale, generalmente concepito in funzione di precisi momenti della vita sociale (civile, religiosa, familiare), presenta spesso una triplice sovrapposizione di elementi; a fianco di canti tradizionali di più antica origine, tramandati di generazione in generazione, si pongono canti cerimoniali affidati a portatori privilegiati (sacerdoti, stregoni) e canti più recenti, nei quali è possibile riconoscere l'influenza di culture più evolute. Sul piano della struttura musicale, si nota un netto predominio di andamenti melodici discendenti, di schemi modali pentatonici e sovrapposizioni ritmiche assai complesse. Agli strumenti sono in genere conferite significazioni magiche, religiose, terapeutiche: tra i più diffusi sono flauti, fischietti, sonagli, di diverse forme e dimensioni. Il patrimonio etnomusicale dell'America Settentrionale è stato variamente sfruttato da parte di musicisti americani del Novecento (E. MacDowell, C. S. Skilton, C. T. Griffes) e di musicisti europei (A. Dvořák, Sinfonia dal Nuovo Mondo; F. Busoni, Indianisches Tagebuch). Nell'America Centrale e Meridionale le aree più progredite della cultura musicale precolombiana sono identificabili nel Messico e nel Perú da una parte, nell'Argentina dall'altra, e fanno capo rispettivamente ai popoli azteco e inca. Non essendo sopravvissuto alcun monumento musicale, la ricostruzione di questo patrimonio si basa sull'analisi comparata dei reperti archeologici (strumenti musicali, documenti iconografici, ecc.) e degli scritti dei primi colonizzatori del sec. XVI. I caratteri essenziali della musica azteca si riassumono nella funzione religiosa e cerimoniale del canto (non è documentata l'esistenza di una musica strumentale autonoma); nella presenza di una casta professionale specializzata di alto prestigio sociale, cui era devoluta ogni manifestazione musicale; nell'anonimato dei singoli compositori, sempre interpreti di sentimenti e di esigenze collettive; nella tradizione orale, che suppliva alla mancanza di qualsiasi notazione. Tra gli strumenti, che comprendevano una vasta gamma di aerofoni, di membranofoni e di idiofoni, spicca l'assenza di strumenti a corde. Aspetti analoghi presenta la musica incaica, che disponendo di una maggior varietà di strumenti, offriva più ampie possibilità melodiche. Ulteriori elementi sulla musica azteca e incaica sono ricavabili dallo studio del patrimonio musicale delle tribù indie più primitive che ancor oggi, sia pure attraverso deformazioni abbastanza agevolmente rilevabili, tramandano un ricco patrimonio di canti e di danze che affonda le sue origini nel più antico sostrato culturale del continente. § Dopo il 1492 il massiccio e progressivo insediamento europeo, oltre a determinare un rapido declino delle tradizioni musicali autoctone, non offrì per secoli nulla di musicalmente rilevante. I coloni europei portarono con sé le caratteristiche musicali dei loro Paesi d'origine e le condizioni socioeconomiche del Nuovo Mondo, di tipo prettamente pionieristico e contadino, non favorirono lo svilupparsi di tendenze artistiche autonome e originali. Fino agli inizi del sec. XIX in tutta l'America Settentrionale la pratica musicale era limitata al canto religioso e a elementari canzoni narrative, tipicamente popolaresche (ballads). Solo in alcuni centri della costa atlantica esisteva un'attività musicale, animata da esecutori e compositori d'oltreoceano e quindi direttamente collegata alle contemporanee esperienze europee, di volta in volta inglesi, olandesi, francesi, italiane e tedesche. L'interesse per la musica colta cominciò a diffondersi dopo la metà del sec. XIX: furono fondate orchestre, istituzioni musicali, conservatori e molti Americani si recarono in Germania prima e in Francia poi per studiare e perfezionarsi presso i maggiori maestri europei. Tuttavia solo con G. Gershwin (1898-1937) la musica nordamericana riuscì a sganciarsi, sia pur parzialmente, dal modello europeo e, rivolgendosi anche alla tradizione musicale dello strato etnico nero-americano (blues,gospel, jazz), allora in piena espansione, pervenne a una propria originalità. Prima e durante la II guerra mondiale il soggiorno americano di importanti compositori europei (Schönberg, Stravinskij, Bartók, Hindemith) e l'opera eversiva di John Cage e della sua scuola in tempi più recenti hanno contribuito in maniera determinante a superare definitivamente il tradizionale provincialismo della vita musicale americana, stimolando, attraverso gli apporti di compositori come Aaron Copland, Charles Ives, Leo David Diamond, nuove esperienze di linguaggio. § Come già nel Nord, anche nell'America Latina i coloni europei importarono le tradizioni musicali dei Paesi originari, in questo caso Spagna e Portogallo soprattutto. Lo sviluppo della musica colta fu comunque assai limitato e di portata ancor minore rispetto al Nord, se si eccettuano brevi fioriture vocali (villancicos) in Messico e in Perú, fra tardo Cinquecento e primo Settecento. Per tutto il sec. XIX l'unica forma musicale seguita con attenzione fu l'opera italiana, originale o imitata da modesti compositori locali. A livello più vasto l'interesse per la musica si è diffuso solo nel sec. XX. Sono sorti importanti centri musicali in Argentina, Brasile, Cile e Messico e, nell'ambito delle varie scuole nazional-folcloristiche, sono emerse alcune personalità di forte rilievo internazionale (Ginastera, Chávez, Villa-Lobos).
Cinema
Fenomeno da baraccone, spettacolo da un nichelino nei cosiddetti nickelodeons, il cinema è subito concepito negli Stati Uniti come un prodotto da commerciare piuttosto che come un nuovo mezzo d'espressione o di indagine. Gli esordi del Novecento sono infatti caratterizzati meno dalla personalità dei cineasti-pionieri (dominante quella di Griffith) che dalle lotte tra le prime società per la produzione, la distribuzione e l'esercizio, le tre branche in cui si sarebbe presto articolata la complessa e sempre più remunerativa attività. Più tardi le battaglie a colpi di divi (star system) mirano all'accrescimento degli incassi (box office) e conducono alla supremazione non soltanto continentale. Cosicché la situazione cinematografica degli altri Paesi dell'America viene lungamente condizionata dalla fama di Hollywood, dalla sua lezione e dalla sua presenza sul mercato. Si tratta di un influsso per molti aspetti paralizzante e che sposta a tempi e occasioni relativamente recenti l'uscita dal silenzio o dall'ombra (comunque dallo stato d'inferiorità o di soggezione) delle altre cinematografie del continente. Tipico il caso del Canada dove, benché esistesse fin dagli anni Quaranta un National Film Board (Consiglio Nazionale del Cinema), di “nazionale” non furono create che una struttura documentaristica e una scuola di animazione, grazie a due scozzesi: J. Grierson, che pose le basi della prima, e Norman McLaren, che diede slancio alla seconda; entrambe però con caratteri di didattica culturale o di avanguardia intellettuale. Solo negli anni Sessanta sono emersi giovani registi canadesi (francofoni) di film a soggetto, aggregandosi di diritto alle “nuove ondate” allora nascenti nel mondo. Ma già nel decennio successivo il cinema canadese si è visto sempre più umiliato nella sua componente francofona, la più vitale, dalla soverchiante “americanizzazione” della parte anglofona, da sempre inerte sul piano culturale e artistico. Tra le cinematografie latino-americane, invece, la messicana, la brasiliana e l'argentina hanno una storia remota e vantano periodi di più o meno contrastata indipendenza. Nel corso della II guerra mondiale, per esempio, il Messico ha addirittura usufruito della particolare situazione che vedeva impegnati gli Stati Uniti nello sforzo bellico, tanto da sostituirsi per breve tempo a Hollywood nel proporre un modello di cinema spettacolare per l'America Latina. Il cinema del Brasile poi ha tirato le fila di una tradizione autoctona, palesatasi nel passato a intermittenze (e spesso non senza drammaticità), con l'esplosione di una nuova ondata negli anni Sessanta, guidata dal generoso Glauber Rocha, mentre il cinema dell'Argentina, nonostante le sue figure di rilievo e i molti agganci alla storia nazionale, è forse quello che più ha ereditato da Hollywood la continuità di una produzione neutra e commerciale, affidando all'ermetismo elegante, o addirittura alla clandestinità provocatoria, i suoi tentativi anticonformistici più validi. Vitale esempio per i cineasti dell'America Latina, quasi ovunque in movimento negli anni Sessanta, è venuto da Cuba che, nazionalizzata la propria cinematografia, ha proposto in breve tempo una produzione di spicco qualitativo, purtroppo scaduta negli anni Settanta, quando la necessità della propaganda ha favorito un cinema non immune da moduli avventurosi e retorici. Impulsi profondi sono stati provocati poi in ciascun Paese (anche in quelli di nessun passato cinematografico e di perdurante analfabetismo) dalle condizioni ambientali e sociali e dalla necessità e urgenza di un cinema di denuncia, che concedesse il posto d'onore ai problemi di sopravvivenza delle popolazioni indigene, magari parlandone il linguaggio: come è accaduto in Bolivia con i film di J. Sanjines, in Perú, in Cile, in Venezuela e altrove. Ma quelle che erano le grandi speranze suscitate dal cinema del subcontinente latino-americano negli anni Sessanta sono state in larga misura disperse dalla serie di golpe militari che, dopo aver colpito a morte il cinema nóvo brasiliano nel 1964 e ancor più nel 1967 col passaggio dalla dictablanda alla dictadura, hanno troncato nel 1971 lo sviluppo del cinema boliviano e, nel 1973, di quelli argentino e cileno. Eccezioni fatte per Cuba e per il Messico, dove il cinema è stato nazionalizzato nel 1971, e parzialmente per Perú e Venezuela, la repressione si è abbattuta anche sui cineasti. Dal Brasile sono giunte in Italia commedie come Ogni nudità sarà proibita (1973) o Donna Flor e i suoi due mariti (1976) che possono dare un'idea dei mutamenti avvenuti. Se da un lato si è già accennato alla parziale involuzione del cinema cubano, d'altro canto in Messico le importanti novità organizzative e politiche, come la nascita del Frente Nacional de Cinematografistas, non hanno ancora portato a quella rivoluzione di linguaggio e di stile che la carica ideologica sembrerebbe presupporre. Un certo rinnovamento si è verificato negli anni Settanta, invece, proprio nel cinema statunitense, cioè nel cuore del sistema (anche linguistico) dominante. Dopo la profonda e, all'apparenza, irrimediabile crisi di Hollywood a metà degli anni Sessanta, si è proceduto a un riassetto industriale e a un ridimensionamento economico che hanno stimolato una notevole fioritura di nuovi e per lo più giovani cineasti in puntuale coincidenza con le esigenze del pubblico giovanile e il crollo di molti tabù garantiti dall'autocensura puritana. Questa ripresa, abilmente manovrata dai nuovi finanziatori che hanno inglobato i talenti inediti nell'implacabile meccanismo delle superproduzioni, ha provocato in un certo senso un ritorno alle origini, salvo che al colossal storico di tipo romano è subentrato quello catastrofico (Lo squalo) o quello fantascientifico (Guerre stellari, Incontri ravvicinati del terzo tipo). Ma se lo spostamento del centro di gravità da Hollywood a New York ha favorito, con M. Brooks e Woody Allen, una scuola comica ebraica, se il relativo processo di liberalizzazione interna ha giovato ad autori come Cassavetes o Altman, sugli altri Paesi del continente, come anche in Europa e particolarmente in Italia, la forza di espansione di Hollywood ha riconquistato i livelli antichi. Nel corso degli anni Ottanta, infatti, il cinema hollywoodiano è tornato a imporsi con decisione, tanto a livello nazionale che a livello internazionale. Una serie di prodotti spettacolari e rassicuranti, molto spesso dal budget astronomico, pieni di trucchi ed effetti speciali, si è imposta per le sue caratteristiche su ogni mercato. La coppia Spielberg-Lucas, registi e produttori delle loro opere, e in modo più rozzo S. Stallone con le serie di Rocky e Rambo, sono stati i principali fenomeni plurimiliardari negli Stati Uniti. Nello stesso tempo, si è scatenata una grande battaglia tra le case di produzione per la corsa ai guadagni e alla leadership del settore. Si è trattato di un mercato a forte accelerazione, che accanto ad alcune impreviste rinascite (come la Walt Disney attraverso la Touchstone) ha provocato spesso qualche vittima illustre (la Columbia, comprata sul finire degli anni Ottanta dai giapponesi della Sony, la crisi della Metro Goldwyn Mayer). La calamita di Hollywood ha attratto anche parte della creatività dell'America ispanica: dalla rinata cinematografia argentina sono giunti e si sono affermati H. Babenco e Luis Puenzo. Una forte crisi economica, unita a quella politica e sociale, ha invece penalizzato le attività, fiorenti nei decenni precedenti, di scuole cinematografiche ricche di gloria, come la messicana, la cubana e la stessa brasiliana Negli anni Novanta soltanto pochi film dell'America ispanica sono riusciti a imporsi, come Il viaggio (1992) dell'argentino F. Solinas e Fragola e cioccolato (1993) dei cubani T. Gutiérrez Alea e Juan Carlos Tabío. Il cinema hollywoodiano ha così confermato la sua capacità di imporsi a livello internazionale (citiamo solo Jurassic Park di S. Spielberg, 1993, film che ha ottenuto il più alto incasso della storia del cinema con 1000 milioni di dollari). Il successo dei film statunitensi, dovuto anche alla capacità di innovazione del linguaggio cinematografico, ha portato, nella seconda metà degli anni Novanta, a una completa ristrutturazione di molti studios di Hollywood, completando quell'integrazione tra creatività e tecnologia iniziata sul finire del decennio precedente. O. Stone, Quentin Tarantino, J. ed E. Coen, J. Cameron hanno creato un nuovo stile contemporaneo dove la tecnologia più avanzata si è legata all'anarchia delle immagini. Il cinema americano degli anni Novanta resta pertanto dominato dalla produzione statunitense che ha confermato l'assoluto controllo e predominio dei circuiti internazionali, soffocando tutte le cinematografie locali, sia pure in misure diverse a seconda della nazione. Per contro, la necessità di offrire a un mercato cinematografico di dimensioni globali prodotti sempre più colossali e popolari provoca un fenomeno di gigantismo produttivo, dovuto da un lato all'utilizzo massiccio di effetti speciali, che hanno fatto lievitare il costo medio di una pellicola, dall'altro allo strapotere delle star. Per evitare il rischio di implosione, Hollywood vara così nuove strategie, non solo di tipo cultuale – prosegue, infatti, in maniera sempre più massiccia, la migrazione non solo di autori di lingua anglosassone, ma anche registi di formazione europea (gli olandesi Jan De Bont e P. Verhoeven, i tedeschi Wolfgang Petersen e R. Emmerich, il francese J.-J. Annaud, l'italiano Bernardo Bertolucci), latinoamericani (il messicano R. Rodriguez e Alfonso Arau), neozelandesi (Lee Tamahori) e perfino orientali (dal taiwanese A. Lee alla nuova onda dell'action movie di Hong Kong, con J. Woo, Tsui Hark e Jacki Chan) - ma soprattutto atte a diminuire i costi produttivi. Accanto alla ricerca di nuovi e più economici set - che avvantaggiano Canada, Australia, dove viene varata la fortunata trilogia di The Matrix (1999-2002), e in parte la tecnologicamente rinnovata Cinecittà - si assiste alla nascita di nuove compagnie produttive, come la multimediale Dreamworks, che spazia dal cinema, ai videogiochi, alla musica, e soprattutto l'indipendente Miramax, che abbina una politica di produzione, incentrata su film a basso costo, all'importazione di film europei economici (l'inglese Il mio piede sinistro, 1989; l'italiano La vita è bella, 1997) trasformati, con abile politica di marketing, in successi mondiali. Ultimi emblemi del nuovo concetto "minimo costo-massimo rendimento" è, soprattutto, il rivoluzionario The Blair Witch Project (1999), film amatoriale costato 25.000 dollari e trasformato, utilizzando come unica forma di pubblicità la rete mondiale di Internet, in un successo da 100 milioni di dollari. Nel XXI secolo, in mano a grandi multinazionali, il cinema americano (e statunitense in particolare) si concretizza in produzioni di alta qualità tecnica e non di rado di notevole impegno finanziario, veri e propri blockbuster rivolti al pubblico globale. Esiste tuttavia un settore indipendente che ha prodotto molti tra i film più interessanti degli ultimi decenni; si segnalano le produzioni di Q.Tarantino, M. Moore, K. Smith, dei fratelli Cohen che nelle scelte artistiche e di linguaggio si diversificano dal cinema hollywodiano commerciale.
Folclore
Motivi indigeni, tradizioni importate dall'Europa, un folclore nero, diverso da quello africano, e un complesso di tradizioni sorte nel periodo coloniale costituiscono il composito quadro folcloristico americano. § L'America Settentrionale conserva prima di tutto una serie ampia di manifestazioni connesse con il popolamento originario (Eschimesi, Amerindi, ecc.), oggi in gran parte trapassate sul piano dell'attrattiva turistica (celebre la danza dell'aquila dei Kiowa negli USA; frequentatissimo lo Stanley Park di Vancouver in Canada). In molti casi le tradizioni indigene coincidono con riprese di coscienza etnica da parte di gruppi amerindi in condizioni di emarginazione dalla grande società (per esempio, pastori e agricoltori navaho in Arizona; indiani hopi del New Mexico). Sensibile, nell'ambito del sottosviluppo di queste minoranze, la distinzione fra Indiani delle Praterie e Indiani dei pueblos. La maggior vitalità di questo folclore si manifesta durante i Pow-Wow, spettacoli di danze rituali e guerresche organizzati annualmente. Nel portato della colonizzazione si inseriscono due diversi filoni: quello europeo (inglese e francese) e quello africano. Del primo si conservano arredi e architetture nei villaggi (piccoli centri del Québec o “città morte” dell'Arizona), ricorrenze celebrative di fatti storici (sfilate in costumi militari, azioni delle famose Giubbe Rosse canadesi e della lotta contro gli Amerindi). Canti e danze persistono nel mito legato alla vita del cow-boy nei rodei (celebre quello tenuto annualmente al Madison Square Garden di New York). Pittoresche e vivaci sono le numerose manifestazioni che si rifanno alla tradizione dell'Old America, nelle quali rivive l'epopea della corsa all'oro (fiera del Gold Rush, la Powder River Cavalcade), la costruzione delle grandi ferrovie, la guerra di Secessione. A tutto ciò si aggiunge un folclore più recente, che si confonde ancora in gran parte con gli usi e i costumi della vita attuale e che si esprime, fra l'altro, nel Memorial Day, nel Fral Day, nell'Indipendence Day, nell'I am an American Day, o in tante feste di varie minoranze europee, come il Columbus Day (12 ottobre) celebrato dagli Italiani. Il folclore nero, la cui espressione più viva e intensa è quella del jazz, si rintraccia anche in usi (funerali) e leggende, riprese anche nel quadro di una contestazione politica e sociale. § Nell'America Meridionale si assiste a un ben definito sviluppo indipendente di tradizioni spagnole e portoghesi, spesso molto affini e integrantisi. A differenza del Nord si hanno però alcune precise differenziazioni per quanto concerne la consistenza del folclore indigeno, ben più accentuato e vivo. I conquistatori hanno inserito intimamente la tradizione cattolica nell'ambito di gruppi etnici che per la loro persistente primitività hanno dato luogo a culture e tradizioni di tipo nuovo (per esempio riti funebri messicani, cristiani e insieme pagani). Esistono aree circoscritte di folclore tipicamente locale, come quelle dei gruppi incaico e maya, con credenze animistiche e miti del tutto autonomi (per esempio Indios peruviani). Singolare, specie in Messico (dove complessa è la struttura della mexicanidad), appare la persistenza dell'uso di funghi allucinogeni. La tradizione nera sudamericana si esprime in forme del tutto proprie nell'area dei Caraibi (tradizioni afrocubane), dove si mescolano a sovrapposizioni soprattutto francesi; si ricordano qui specialmente i riti vodù. Assai noti sono poi i balli tipici sudamericani, i canti, l'uso di costumi di origine chiaramente spagnola, i caratteristici strumenti musicali che compongono il complesso quadro di una cultura meticcia. Vivacissimo è il folclore religioso, che dà luogo spesso a manifestazioni cattoliche intimamente connesse ad atteggiamenti magici primitivi. Celebre fra tutte le manifestazioni collettive è il carnevale di Rio, immensa e interminabile kermesse di danze e di musica della durata di più giorni; segue quindi un'ampia serie di feste religiose, tra cui importante è la Pasqua. Fra i miti più persistenti si ricorda quello dei gauchos delle pampas. Completano il quadro, sia pure sommario, le numerose manifestazioni più propriamente etnologiche che sopravvivono tra le numerose tribù amazzoniche tuttora in condizioni di vita primitive.
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Per le religioni dell’intero continente
G. Shearer, Pontificia Americana. A Documentary History of the Catholic Church in the U. S. (1784-1884), Washington, 1933; S. Canals Frau, Las civilizaciones pre-hispanicas de America, Buenos Aires, 1952; L. Pericot Garcia, America Indigena, Barcellona, 1962; F. Turniello, Dai quaccheri a Gandhi, Bologna, 1988.
Per le lingue indigene dell’intero continente
Linguistic Structures of Native America, Viking Fund Publications in Anthropology, t. 6, New York, 1946; Handbook of South American Indians, Washington, 1950; R. Breton, Geografia delle lingue, Venezia, 1984.
Per la letteratura nordamericana
A. Kazin, Storia della letteratura americana, Milano, 1952; F. O. Matthiessen, Rinascimento americano, Torino, 1954; W. Fuller Taylor, The Story of American Letters, Chicago, 1956; M. Cunliffe, Storia della letteratura americana, Torino, 1958; R. H. Pearce, The Continuity of American Poetry, Princeton, 1961; R. E. Spiller, Storia della letteratura americana, Firenze, 1962; R. E. Spiller, W. Thorp, H. S. Canby, T. H. Johnson, Storia letteraria degli Stati Uniti, Milano, 1963; C. Izzo, Storia della letteratura nordamericana, Torino, 1967; idem, Civiltà americana, Roma, 1967; E. Vittorini (a cura di), Americana, Milano, 1968; V. L. Parrington, Storia della cultura americana, Torino, 1969; F. La Polla, Struttura e mito della narrativa americana del Novecento, Padova, 1974; F. Pivano, America rossa e nera, Milano, 1977; E. Zolla, I contemporanei. Novecento americano, Roma, 1982; D. Amodeo, English and American Literature, Roma, 1984; R. Giacchetti, Lo scrittore americano, Milano, 1987; M. Iannacone, Rivoluzione psichedelica: la CIA, gli hippies, gli psichiatri e la rivoluzione culturale degli anni Sessanta, Milano, 2020; L. Briasco, Americana: libri, autori e storie dell'America contemporanea, Roma, 2020.
Per la letteratura latino-americana
P. Henríquez Urena, Historia de la cultura en la América hispánica, Messico, 1947 (trad. it., Torino, 1966); E. Anderson Imbert, E. Florit, Literatura hispanoamericana, New York, 1960; E. Anderson Imbert, Historia de la literatura hispanoamericana, 2 voll., Messico, 1964; G. Bellini, La letteratura ispanoamericana dall’età precolombiana ai nostri giorni, Milano-Firenze, 1970; L. A. Sanchez, Historia comparada de las Literaturas americanas, 4 voll., Buenos Aires, Losada, 1976; D. L. Shaw, Nueva narrativa hispanoamericana, Madrid, 1981; L. D'Arcangelo, Letteratura ispanoamericana, Chieti, 1982; J. Marco, Literatura hispanoamericana, Madrid, 1987; L. Sainz de Medrano, Historia de la literatura hispanoamericana desde el Modernismo, Madrid, 1989.
Per il teatro nordamericano
H. Blau, The Impossible Theatre, New York, 1965; E. Gagey, Il teatro in America dal 1900 al 1950, Roma, 1965; M. Raimondi Capasso, Teatro americano contemporaneo, Milano, 1986; M. Russo, Origini del teatro nordamericano, secoli XVII e XVIII, Firenze, 1998.
Per il teatro latino-americano
W. K. Jones, Breve historia del teatro latinoamericano, Messico, 1956; A. del Saz, Teatro social hispanoamericano, Barcellona, 1967; C. M. Suárez Radillo, Temas y estilo en el teatro hispanoamericano contemporáneo, Saragozza, 1975; B. Boal, Teoria e tecnica del teatro popolare latinoamericano, Milano, 1977; M. Galvez Acero, El teatro hispanoamericano, Madrid, 1988; F. Zega, Politica in scena: teatro e cinema tra Europa e America Latina, Leonforte, 2017.
Per l’arte precolombiana del continente
F. H. Douglas, R. D'Arnoncourt, Indian Art of the United States, New York, 1941; I. Marquina, Arquitectura prehispanica, Città di Messico, 1951; F. Boas, Primitive Art, New York, 1955; M. Covarrubias, Indian Art of Mexico and Central America, New York, 1957; idem, The Eagle, the Jaguar and the Serpent, New York, 1967; I. Bernal, L’arte precolombiana, Firenze, 1971; C. Rocchi, Arte dell’America precolombiana, Roma, 1984; D. Domenici, Il senso delle cose: materialità ed estetica nell'arte mesoamericana, Bologna, 2017.
Per l’arte del periodo coloniale del continente
D. Angulo Iniguez, Historia del arte hispanoamericano, Barcellona, 1950; P. Kelemen, Baroque and Rococo in Latin America, New York, 1951; E. Richardson, Painting in America, New York, 1956; G. Groce, D. Wallace, Dictionary of Artists in America 1564-1860, New Haven-Londra, 1957; F. Català Roca, Arte popolare d’America, Milano, 1981.
Per l’arte moderna del continente
J. Baur, Revolution and Tradition in Modern American Art, Cambridge, 1951; A. Ritchie, Abstract Painting and Sculpture in America, New York, 1951; T. F. Hamlin, Form and Functions of Twentieth Century Architecture, New York, 1952; A. Ritchie, Sculpture of the Twentieth Century, New York, 1953; S. Giedion, Spazio, tempo e architettura, Milano, 1954; M. Brown, American Painting from the Armory Show to the Depression, Princeton, 1955; W. Gropius, Architettura integrata, Milano, 1959; L. Benevolo, Storia dell’architettura moderna, Bari, 1960; N. Pevsner, I pionieri dell’architettura moderna, Milano, 1964; H. R. Hitchcock, Architettura - Ottocento e Novecento, Torino, 1969; R. Barilli, L’arte contemporanea, Milano, 1988.
Per la musica dell’intero continente
N. Slominsky, Music of Latin America, New York, 1945; S. L. Moreno, La musica de los Incas, Quito, 1957; G. Chase, A Guide to the Music of Latin America, Washington, 1962; W. Mellers, Musica dal nuovo mondo. Storia della musica americana, Torino, 1975; T. J. Howard, K. G. Bellows, Breve storia della musica in America, Roma, 1983; E. Giudici, Il Novecento e la musica americana, Milano, 2019.
Per il cinema dell’intero continente
L. Jacobs, L’avventurosa storia del cinema americano, Torino, 1952, Milano, 1966; A. Viany, Introduçao ao cinema brasileiro, Rio de Janeiro, 1959; D. Di Nubila, Historia del cine argentino, 2 voll., Buenos Aires, 1960; E. Goodmann, The fifty-year Decline and Fall of Hollywood, New York, 1961; U. Casiraghi, Cinema cubano, Roma, 1967; R. Prédal, Jeune cinéma canadien, Lione, 1967; J. Ayala Blanco, La aventura del cine mexicano, Messico, 1968; F. Birri, Il nuovo cinema latinoamericano, Roma, 1988; M. Cipolloni, L. De Rosa, Pagine di celluloide: letteratura e cinema in America, Salerno, 1999; F. Minganti, Tre o quattro sfumature di nero. Il cinema afroamericano, in Storia del cinema mondiale, a cura di G.P. Brunetta, 2° vol., t. II, Gli Stati Uniti, Torino 2000, pp. 1309-76; G.King, Il cinema indipendente americano, Torino 2006.