superstizióne
sf. [sec. XIV; dal latino superstitío-ōnis]. Termine e concetto derivati dagli antichi Romani per indicare forme di religiosità superflua o vana o addirittura eterodossa. Ciò che sembra implicare un giudizio negativo da parte di una religione su una religione diversa, in realtà costituisce la difesa da parte di una cultura dall'infiltrazione di elementi estranei a essa o non integrabili in essa: è l'espressione di un rifiuto di certe realtà conseguente all'edificazione di altre. Presso gli stessi Romani pare che superstitio indicasse originariamente una forma di divinazione di tipo cleromantico, ossia basata sul caso, rifiutata dalla cultura romana fondata sulla divinazione augurale e sull'esercizio della volontà. Per quanto concerne il cristianesimo, già San Paolo indicava come superstiziose singole pratiche difformi dal culto stabilito (Lettera ai Colossesi 2, 16-23). Se ne annoverano diverse specie: culto non dovuto al vero Dio; culto dei falsi dei; divinazione; magia; osservanze vane. Viene anche distinta in culto verso falsi dei (idolatria) e culti disordinati e in opposizione alla religione. Soprattutto di questi si è occupata la teologia, perché, nonostante la loro banalità, non sono atti senza senso, ma sono investiti, da parte di chi li compie, di significato rivelatore per il destino dell'uomo. La Chiesa romana ha perciò sempre combattuto ogni forma di associazione di culto e pratiche guaritorie, consultazione della sorte, osservanza timorosa di congiunture volgari.