scàldo
sm. [sec. XIX; dall'antic. nordico skāld]. Poeta-cantore islandese operante, oltre che in Islanda, presso le corti dei Paesi scandinavi tra il sec. IX e il XV, autore di quel tipo particolare di poesia che si usa chiamare skaldedikt e che si distingue dalla poesia eddica per il suo stile più elaborato. Al di là dell'esplicita funzione poetica, espressa per lo più in composizioni encomiastiche, va riconosciuta agli scaldi una funzione religiosa: essi furono, nei limiti e nelle forme concesse dall'egemone cultura cristiana, i cultori di una tradizione germanica, conservata quasi come una sapienza segreta. Iniziati a questo sistema sapienziale, se ne servivano come di un linguaggio capace di esprimere in termini “vichinghi” (metastorici, “sacrali”) un'attualità storicamente connotata dal rifiuto dei valori soggiacenti al superato mondo vichingo. L'elemento espressivo più cospicuo, attestante questa funzione della poesia scaldica, è la kenning (pl. kenningar), una specie di metafora per cui a parole d'uso corrente (profano) si sostituivano circonlocuzioni rinvianti ad antiche realtà mitico-cultuali vichinghe. Tra i principali scaldi islandesi, vissuti dal sec. X al XIV, c'è Egill Skallagrimsson (sec. X), autore di una delle liriche più belle di tutta l'antichità nordica, La perdita dei figli, canto di dolore e di sentimento universale.