monarcòmaco
agg. e sm. lett. (pl. m. -chi) [da monarca+tema del greco máchesthai, combattere]. Nome attribuito a pensatori e scrittori politici che nella seconda metà del sec. XVI e nei primi decenni del successivo cercarono di opporsi alla trasformazione assolutistica dell'istituto monarchico allora in atto, sostenendo che il potere del principe derivava dalla sovranità popolare e dal consenso del popolo che per ragioni funzionali lo aveva delegato al sovrano, il quale quindi doveva essere subordinato alle leggi del Paese e mantenersi fedele al principio dell'utilitas populi. Da ciò derivava, come conseguenza logica, il diritto di resistere al principe, qualora questi avesse trasgredito ai doveri della propria carica, divenendo un tiranno. Nel qual caso, l'insurrezione armata, la deposizione del principe e addirittura la sua uccisione, sostenevano i monarcomachi, erano legittime o addirittura doverose. In seguito alle persecuzioni e alle stragi interne e internazionali delle guerre di religione, le teorie dei monarcomachi trovarono accesi propagandisti sia in campo protestante, soprattutto fra i calvinisti, sia in campo cattolico. Tra i primi si ricordano Teodoro di Beza, François Hotman, Odet de La Noue, Hubert Languet, Philippe Duplessis-Mornay, il non meglio identificato Eusebio Filadelfo Cosmopolita, autore del Réveille-Matin (1574), George Buchanan, Johann Althaus, Ponet o Poynet, John Knox; mentre in campo cattolico i principali esponenti dei monarcomachi furono i gesuiti spagnoli padre Juan de Mariana e Francisco Suárez e il cardinale Roberto Bellarmino. Il pensiero politico moderno che ha voluto elaborare il concetto di Stato democratico è debitore alle dottrine dei monarcomachi, pur con tutti i loro limiti dell'epoca, delle prime teorizzazioni dei principi di sovranità popolare, di legge naturale, di contratto sociale.