léso

agg. [sec. XIV; pp. di ledere]. Che è stato offeso; che ha subito lesione; in particolare, parte lesa, nell'uso giuridico, che ha subito lesione; lesa maestà, qualsiasi delitto a scopo politico. § Nell'antico diritto romano il termine maiestas era riservato al potere di veto esercitato dai tribuni della plebe e una prima legislazione al riguardo venne formulata nelle leggi Apuleia (103 a. C.) e Varia (90 a. C.); la legge Silla dell'81 a. C. riferì l'istituto legislativo a tutto lo Stato e ai suoi rappresentanti e il crimine di lesa maestà configurò un'infrazione contro la dignità e potestà del popolo e dei suoi rappresentanti. In particolare rientravano in quest'ordine di crimini: l'organizzazione di sedizioni, la rivolta armata, gli attentati contro magistrati, l'uccisione di ostaggi, la permanenza in un incarico pubblico oltre il termine fissato; con il principato i delitti di lesa maestà si accentrarono nelle persone del principe e della sua famiglia. L'istituto fu recepito nel Medioevo dalla legge franca e nel periodo feudale fu esteso anche ai baroni, al vescovo-conte, al comune, a istituti e persone ecclesiastiche sotto il titolo di crimen lesae maiestatis divinae. La lista dei delitti si allungò sempre di più tanto che nei sec. XVI e XVII i giuristi ne contavano fino a quarantacinque. L'illuminismo ridimensionò questi crimini mitigandone le pene. In Italia il crimine di lesa maestà scomparve dal codice Zanardelli; oggi questi delitti sono contemplati nel libro II del Codice Penale sotto il titolo: Delitti contro la personalità interna dello Stato.

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