karman

s.neutro sanscrito. Nell'ideologia religiosa indiana, “forza” resa oggettiva dall'azione. La dottrina del karman appare per la prima volta in forma esplicita nelle più antiche Upaniṣad (sec. VI a. C.): la sorte di un individuo, dopo la morte, non dipende dalle pratiche di culto (concernenti l'acquisizione del benessere nella vita attuale), ma dal karman prodotto dal suo tenore di vita, cioè il frutto di ogni azione, sia positivo sia negativo. Dalla prevalenza di un karman sull'altro dipende la condizione in cui si dovrà rinascere, dato che il karman è in funzione del samṣāra, l'esistenza è concepita come un'infinita successione di vite. La concezione del karman, che si può far risalire alla credenza nei “meriti” rituali oggettivamente intesi, giustifica appieno la tradizionale suddivisione in caste della società indiana, nel senso che la nascita in una casta superiore o inferiore non viene attribuita al caso (o a privilegi genetici), bensì al karman prodotto dall'individuo nella sua vita precedente. D'altra parte, in una visione pessimistica della vita in generale, la catena delle rinascite poté essere sentita come un'oppressione dell'“io” metafisico; e allora si formularono teorie liberatrici intese a interrompere la catena, interrompendo la produzione di karman, sia positivo sia negativo. Essenzialmente due furono i modi prescritti dall'ortodossia: adempimento disinteressato dei propri doveri (dharma), in modo da negare l'individuo pur accettando la sua funzione sociale; rinunzia al mondo e pratica dell'ascetismo, negando così la funzione sociale assieme all'individualità. Ma l'anelito alla liberazione generò anche religioni eterodosse, tra cui le due più importanti sono il buddhismo e il giainismo, da considerarsi, in un certo senso gli ultimi sviluppi della dottrina del karman.

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