infanticìdio
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Lessico
sm. [sec. XVI; da infanticida]. Uccisione volontaria di un neonato subito dopo il parto, o soppressione dei fenomeni vitali di un feto durante la fase della sua espulsione dal corpo materno. All'infanticidio è parificata la volontaria omissione di attenzioni e cure necessarie alla vita del neonato.
Diritto
Nel diritto dall'antica Atene l'infanticidio era riconosciuto come reato grave, mentre a Sparta era comandato per i neonati che presentassero difetti fisici tali da renderli inabili al servizio militare. A Roma l'infanticidio era proibito, ma il pater familias con lo ius vitae et necis (diritto di vita e di morte) poteva disporre dei neonati con autorità insindacabile. Nell'antico diritto germanico invece il rispetto del neonato era assoluto. Nel diritto italiano moderno l'infanticidio si sottrae alle norme sull'omicidio se è commesso dalla madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto. Coloro che concorrono al fatto sono puniti con la reclusione; la pena può essere diminuita da un terzo a due terzi se essi hanno agito al solo scopo di favorire la madre. Non si applicano all'infanticidio le circostanze aggravanti normalmente fissate dalla legge penale.
Etologia
L'infanticidio è praticato anche da alcune specie di animali, nei quali talvolta si identifica funzionalmente col cannibalismo. Nel leone, in alcuni roditori e nel langur, l'uccisione dei piccoli da parte dei maschi adulti che riescono a spodestare il maschio di un branco è una forma di competizione sessuale. Infatti in queste specie le femmine entrano normalmente in estro al termine dell'allevamento, ma il periodo dell'estro è accelerato, ed esse accettano di accoppiarsi, se sono private prematuramente dei figli. L'infanticidio, quindi, diminuisce il successo riproduttivo del maschio spodestato e accresce le probabilità per l'infanticida.