ecumène
sf. [sec. XIX; dal greco oikuménē, la terra abitata]. La parte della Terra abitata o abitabile dall'uomo. Nel corso dei millenni il concetto di ecumene si è andato notevolmente articolando e allargando dal punto di vista spaziale; tanto che la storia dell'umanità è, appunto, anche la storia dell'ampliamento dei limiti dell'ecumene; a questo si contrappongono le zone disabitate, o anecumeniche, separate tra loro da fasce subecumeniche, in cui la presenza umana è limitata ad alcuni periodi dell'anno. I confini dell'ecumene includono la quasi totalità delle terre emerse e alcuni ambienti marini nei quali l'attività umana può considerarsi stabile; questa definizione classica è andata progressivamente perdendo di significato poiché da una parte il continuo progresso tecnologico ha reso possibile la sopravvivenza e la permanenza umana in ambienti prima considerati proibitivi, dall'altra si è assistito al progressivo aumento di attività di sfruttamento delle risorse ambientali anche là dove non esiste insediamento umano vero e proprio (per esempio, l'estrazione del petrolio in zone desertiche). Questo ampliamento, segnando il pressoché totale asservimento della natura da parte dell'uomo, è stato anche caratterizzato dalla irreversibile distruzione di ambienti e di animali. Se, però, grandissima parte delle zone una volta anecumeniche sono oggi sede di attività residenziali e produttive, buona parte di queste zone diventa sempre più difficilmente abitabile a causa del progressivo inquinamento e della generale distruzione ambientale. A tutt'oggi restano anecumeniche per un totale di circa 10 milioni di km² le zone polari, le aree a elevate altitudini e i deserti. Non è da escludere che lo sviluppo tecnologico possa rendere stabilmente abitabile anche parte di queste zone, con effetti che sono però del tutto imprevedibili.