bulino

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(ant. burino), sm. [sec. XVI; etim. incerta].

1) Utensile adoperato per l'incisione a mano di metalli dolci, come rame e argento. È un'asticciola d'acciaio, arrotata a un'estremità con taglio obliquo e diagonale formante una punta (detta becco o naso del bulino), infissa in un manico di legno tornito. Con lavoro di bulino si possono decorare oggetti di oreficeria, rifinire piccole fusioni ed eseguire lastre calcografiche atte alla stampa a incavo. Con questo termine si usano designare anche le stampe tratte da una lastra calcografica elaborata a bulino. Riportato il disegno sulla lastra, si approfondiscono i segni col bulino iniziando con una serie di tratti detti “primi”, passando poi ai “secondi” (più o meno perpendicolari ai primi) e, se necessario, ai “terzi”, incrociati a losanga sul preesistente incontro a squadra. Si possono usare inoltre gli intersegni, tra un primo e l'altro, e i punti d'impasto, al centro delle losanghe. Si passa poi alla pulizia della lastra e quindi alle “prove di stato” (acquaforte). Il bulino, usato già magistralmente durante il sec. XV da Pollaiolo, Mantegna, Dürer, ecc., raggiunse una grande diffusione nel Cinquecento, per opera principalmente di Marcantonio Raimondi, diventando poi, nei secoli successivi, la tecnica più usata per la stampa di riproduzione.

2) Strumento litico caratterizzato da uno stretto spigolo risultante dal distacco di una o più lamelle da un nucleo, da una scheggia o da una lama. Lo spigolo può essere determinato dall'intersezione di due distacchi (bulino diedro), da una frattura e da un distacco (bulino su frattura) o da una serie di ritocchi erti e da uno o più distacchi (bulino su frattura ritoccata). È uno degli utensili più frequenti nel Paleolitico superiore e dovette essere utilizzato specialmente per la lavorazione dell'osso e del corno.

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