Definizione

(in sanscrito, venerabile, santo). Titolo dato ai monaci nella religione buddhista. Nel primo buddhismo l'arhat è un essere ormai giunto alla perfezione, ma già nel sec. IV a. C. si comincia a dubitare della sua perfezione. Anch'egli può peccare e non può perciò dirsi ancora salvo in senso buddhista. Comunque l'arhat resta sempre un esempio per i laici, che si acquistano meriti anche col solo provvedere al suo sostentamento.

Iconografia

La raffigurazione dell'arhat ha trovato nella fantasia dell'arte cinese maggiore varietà e aderenza al tema, secondo i diversi significati attribuiti dalle scuole del buddhismo all'essenza spirituale di questa immagine umana. Nella pittura T'ang l'arhat (lohan in cinese) è rappresentato come eremita dal corpo consunto dall'ascesi. Il pittore Kuan-hsiu fu uno specialista di queste raffigurazioni, improntate a un realismo sobrio e deciso attraverso l'essenzialità del disegno. Una variante iconografica diffusa in epoca Sung è ben documentata da una scultura in argilla dipinta trovata a Ichou (Hopei) e trasferita all'University Museum di Filadelfia: l'arhat è ritratto in posa di meditazione; la sua espressione, venata di contenuta sofferenza, rivela l'intensità spirituale interiore. Come santo eremita “avvolto da un serpente” appare in una pittura posteriore di Mu Hsi (sec. XIII). Mentre nell'arte cinese viene raffigurato un gruppo di diciotto arhat, nell'iconografia giapponese gli arhat sono sedici, intesi come i discepoli vicini a Buddha morente. Essi (rakan in giapponese) sono rappresentati come eremiti: vestono la tunica indu e hanno il cranio rasato; ognuno reca il simbolo che gli compete. Una delle più antiche illustrazioni è una espressiva figura dolente in argilla essiccata, che appare nell'episodio del Parinirvana scolpito entro una fitta grotta nel piano inferiore della pagoda dell'Hōryū-ji di Nara. Anche nel Tibet la raffigurazione dei sedici arhat (neten) fu molto diffusa, specie attraverso xilografie del sec. XVIII.

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