apòcrifo

agg. e sm. [sec. XVI; dal greco apókryphos, nascosto]. Dicesi degli scritti connessi con la letteratura biblica, ma esclusi dal canone della Bibbia. Per estensione, di libro o documento non appartenente all'autore o all'epoca cui è attribuito. § La denominazione di apocrifo per i libri dell'Antico Testamento compresi nel canone alessandrino ma estranei al canone palestinese risale a San Girolamo (deuterocanonici, pseudoepigrafici). La loro datazione va dal sec. II al IV. Gli apocrifi del Nuovo Testamento, spesso giunti a noi solo frammentariamente, sono analoghi, sotto il profilo formale-letterario, agli scritti neotestamentari. Essi si dividono in: Vangeli apocrifi(Vangelo degli Ebrei, Vangelo degli Egiziani, Vangelo di Pietro, Protovangelo di Giacomo, ecc.); Atti apocrifi (generalmente assai tardivi: Atti di Paolo e Tecla, Atti di Pietro, Storia di Pietro e Paolo, ecc.); Epistole apocrife (tra le quali un noto epistolario tra Paolo e Seneca) e Apocalissi apocrife(Apocalisse di Pietro, del sec. II; Apocalisse di Paolo, molto più recente, ecc.). Quanto al contenuto, essi si presentano in gran parte (soprattutto molti dei Vangeli e gli Atti) come ampliamenti leggendari e fantastici di elementi narrativi, spesso secondari, del Nuovo Testamento, ovvero come raccolte di detti apocrifi del Signore o esposizioni dottrinali, miranti a legittimare prassi e dottrine di determinate sette eretiche (tale è il caso degli scritti gnostici di Nag ʽHammâdi, tra i quali un Vangelo di Tommaso, e del Vangelo di Bartolomeo, anch'esso gnostico, del sec. III).

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