ager publicus
espressione latina (terreno pubblico). Nell'antica Roma, il terreno di proprietà dello Stato, in contrapposizione all'ager romanus, oggetto invece di proprietà privata (dominium ex iure Quiritium) ed esente da tributo fino a Diocleziano. L'ager publicus s'ingrandì rapidamente con le successive confische delle terre dei popoli vinti; una parte era concessa a una comunità o a più persone per esercitarvi il pascolo; un'altra serviva per fondarvi colonie o per assegnazioni ai veterani; le terre incolte potevano essere occupate da chi le volesse mettere a coltura, previo pagamento di un canone annuale (vectigal). L'assegnazione era fatta dal questore (all'asta), dal pretore o dal censore, dapprima per cinque anni e poi in perpetuo; l'ager viasis vicanis datus era sito lungo le grandi strade consolari, di cui i concessionari curavano la manutenzione per il tratto prospiciente il proprio fondo. L'ager publicus, gradualmente, venne accaparrato dai grandi proprietari che, riuscendo a eludere anche il pagamento del vectigal, ne poterono alla fine disporre come di proprietà privata. Da tale accaparramento grave pregiudizio venne ai pastori, che si videro sempre più ridurre il terreno disponibile per le greggi. Benché alcune leggi limitassero l'occupazione dell'ager publicus, la situazione si aggravò, favorendo il formarsi del latifondo a danno dei piccoli coltivatori, cosicché nella penisola l'allevamento del bestiame si sostituì sempre più alla cerealicoltura. Le riforme agrarie dei Gracchi, tese a porvi rimedio con il recupero dell'ager publicus per distribuirlo ai plebei poveri, non sortirono grande effetto. Anzi le cose peggiorarono, donde l'emanazione delle varie e contrastate leggi agrarie dell'ultima età repubblicana per la sistemazione dei sempre più numerosi veterani. Al tempo di Vespasiano, l'ager publicus fu aggregato ai beni della corona.