Rapisardi, Màrio
poeta italiano (Catania 1844-1912). La sua vita fu agitata da polemiche letterarie (celebre quella con Carducci, che lo definì “arcade” e “tenorino di provincia”) e da scandali mondani (ebbe una relazione con la Contessa Lara e fu abbandonato dalla moglie, invaghitasi di G. Verga). Seguace del positivismo, compose tre poemi monumentali e macchinosi: la Palingenesi (1868), in cui è tracciata una storia dell'umanità nella prospettiva di una riforma religiosa; Lucifero (1877), in cui si esalta la forza liberatrice dell'ateismo e si condannano come “matricidi” i comunardi; l'Atlantide (1894), in cui si inneggia al socialismo. Migliore il Giobbe (1884), per il vagheggiamento di un mondo patriarcale incontaminato e per una faustiana ansia di sapere e di diradare le tenebre del mistero. Alla tematica del Giobbe si ricollega l'idillio Empedocle (1892), in cui Rapisardi si identifica con l'antico poeta-filosofo siciliano. Nella vasta produzione di Rapisardi sono tuttavia da preferire le composizioni meno condizionate da ambizioni filosofiche: le giovanili Ricordanze (1872), pervase da un ingenuo leopardismo, le Poesie religiose (1887), gli Epigrammi (1888) e L'asceta e altri poemetti (1902), dove si rivela l'influsso della scuola parnassiana, la Giustizia (1880-82), dove l'ispirazione sociale è meno torbida e magniloquente. Sono anche da ricordare le traduzioni da Lucrezio e da Shelley.