József, Attila
poeta ungherese (Budapest 1905-Szárszó 1937). Poeta lirico del subrazionale (“le sofferenze si depositano nell'anima come il calcio nelle vene”) e poeta sociale del proletariato sia urbano sia agricolo. Di umili origini, fu educato nei primi anni dalla madre abbandonata dal marito, un artigiano emigrato in America. Il periodo saturo di sortilegi e di superstizioni passato poi in casa di un'indovina lasciò tracce sensibili nella sua poesia, così come gli anni trascorsi presso genitori adottivi in campagna lo condussero a una scissione di personalità che, aggravandosi con gli anni, fu causa anche del suo suicidio, attuato facendosi investire da un treno. Domestico, porcaro, mozzo, seminarista, redattore di rivista (Szép Szó, La bella parola) furono solo poche tappe della sua travagliata esistenza. Come attivista del clandestino partito comunista (da cui venne poi espulso) tenne corsi di dottrina nei sobborghi della capitale. Libero da ogni settarismo, pervaso da un amore universale, più che da coscienza di classe, fu in realtà assai vicino al cristianesimo. Alla spiritualità dei preti operai francesi lo accomunò anche la conquista della fede in Dio attraverso la fatica fisica. La stessa esperienza gli permise di innalzare in una dimensione mitologica la figura della madre-lavandaia: “il cielo è luminoso solo grazie al candeggio di lei”. Pubblicò numerosi volumi di versi: Mendicante di bellezza (1922), Non sono io che grido (1925), Versi 1922-1926 (1927), Non ho padre né madre (1929), Libro di versi dall'anno 1931, Notte di sobborgo (1932), Danza dell'orso (1934), Versi 1927-1936, Fa molto male (1936), Ultimi versi (1937). Le edizioni di tutte le poesie si moltiplicarono a cominciare dal 1938 arricchendosi man mano di testi inediti. Il primo a richiamare l'attenzione degli italiani su József fu Benedetto Croce su La Critica (1942). Da allora il nome di József figura in quasi tutte le antologie poetiche moderne.