La rivolta del bebop
Reagendo allo swing ormai commercializzato, il bebop nacque dunque a New York nel 1941-44, nel corso di jam sessions notturne fra giovani solisti neri di idee innovative: Christian (che morì prima della sua affermazione), Gillespie, Parker, Powell, Monk, Clarke e altri. Stile capriccioso, di notevole difficoltà esecutiva, basato su ritmi intricati, armonie ardite, melodie tortuose e poco orecchiabili, con parti vocali fondate su grottesche tiritere scat (la parola bebop ne è onomatopea), si connotò subito come una musica ribelle e protestataria, intesa da pochi iniziati. Alla fin fine, l'immediata immagine di caos che tale musica provocava si rivelava in pieno accordo con il clima dei tempi, logorato dalla guerra e sconvolto dall'ecatombe dei valori imposti dalla classe dominante.
Esploso con grande scandalo (1945), il bebop fu attaccato da più parti, ma anche salutato come una svolta del jazz, il quale si liberava così da ogni equivoco asservimento al gusto dominante e commerciale della borghesia bianca; segnò, inoltre, l'affermazione tra i neri di una più chiara consapevolezza della propria dignità e forza culturale. All'allegria di Armstrong era succeduto il lirismo di Lester Young e ora questo era rimpiazzato dal drammatico universo bebop riassunto in Charlie Parker. Parallelamente, la cruda euforia dello stile New Orleans aveva ceduto il passo alla spettacolare macchina delle orchestre e ora le piccole formazioni bop prendevano il sopravvento proponendo di liberare tutte le energie individuali. Il jazz imponeva ora, fra l'altro, la necessità di un ascolto molto più attento.
Bop, non pop
Mentre alcuni capiscuola swing, come Hawkins, Young e Christian, avevano imboccato una strada che avrebbe condotto al bebop, i primi musicisti a praticare in pieno questo stile uscirono da una generazione nuova, ancora sconosciuta, e si sforzarono di rendersi originali e di distinguersi mediante comportamenti e abbigliamenti strani, singolari ermetismi e un premeditato atteggiamento di ribellione verso le allora popolarissime convenzioni del jazz. Rifiutavano, in special modo, tutto ciò che aveva reso possibile il grande successo di questa musica: orchestre numerose, esecuzioni disciplinate, temi riconoscibili dal vasto pubblico, spettacolarità, adattamento al ballo. Da un punto di vista tecnico, il primo comandamento esigeva l'oscuramento del beat, cioè di quella continua pulsazione ritmica che impartiva il tempo ai ballerini. Di fatto, molti tra i jazzisti più dotati avevano già adottato un modo di fraseggiare più discontinuo, preparando quindi il terreno al tentativo del bop. Ma i boppers pretesero di scomporre la sezione ritmica su differenti piani strumentali, il che presupponeva un totale disdegno verso il jazz di largo consumo. Com'era immaginabile, nei primi tempi l'idea rimase relegata in jam sessions mattutine e club per pochi intimi; questi avvenimenti e questi locali attiravano, infatti, un esiguo numero di spettatori, fra cui non pochi musicisti di primo piano, e resero possibile il lento coagularsi di un nuovo culto, il cui idolo supremo fu Charlie Parker. A causa della mancanza di dischi che ne testimoniassero i rispettivi sviluppi, il bop e Parker rimasero praticamente sconosciuti al pubblico fino al 1945. Sicché, l'epoca d'oro di Parker, coincidente con l'ascesa e il culmine del bepop, trascorse lontano dalla notorietà. Contrariamente a ciò che si era verificato per il jazz del periodo swing, il bop non fu pop(olare).