cognitivismo
sm. [da cognitivo]. Corrente psicologica affermatasi a partire dagli anni Sessanta in reazione al comportamentismo e alla psicologia della Gestalt. Il termine deriva dal titolo di un famoso libro di U. Neisser, uno dei più significativi esponenti di questo indirizzo, Cognitive Psychology (1967). Contrariamente a comportamentismo e psicologia della Gestalt, però, il cognitivismo non è una vera e propria scuola psicologica, che si richiami a una teoria unitaria. Si tratta piuttosto di un modo diverso di concepire la ricerca psicologica, contrassegnato semmai, secondo una famosa espressione di un altro grande psicologo cognitivista, l'inglese A. T. Welford, da un rifiuto delle “grandi teorie onnicomprensive”, che “non rendono giustizia alla complessità del comportamento umano”. La polemica dei cognitivisti è comunque diretta soprattutto contro il comportamentismo, definito in un libro che segna forse la vera data di nascita dell'indirizzo, Plans and the Structure of Behaviour di G. A. Miller, E. Galanter e K. H. Pribram (1960), la “psicologia del gettone nella macchinetta”. In altri termini il comportamentismo riteneva passibili di ricerca scientifica solo le risposte emesse dall'organismo a seguito degli stimoli ambientali e rifiutava di studiare i processi mentali, ciò che avveniva dentro l'organismo. L'interesse del cognitivismo è invece rivolto proprio ai processi mentali e l'accusa di “mentalismo” che i comportamentisti rivolgono ai cognitivisti viene da questi accolta di buon grado, ritenendo che è molto più importante cercare di capire quel che realmente avviene, che perdersi in astratte dispute di principio e in rigorismi metodologici. Uno degli aspetti caratterizzanti il cognitivismo è l'attenzione per la cibernetica e per i processi di simulazione del comportamento con calcolatori. In generale, comunque, vi è da parte dei cognitivisti un notevole interesse per gli apporti di tutte le “scienze di confine” (neurologia, linguistica, ecc.).