balbùzie
sf. [sec. XIV; da balbuziente]. Disturbo formale del linguaggio, che può comparire nell'infanzia (5% dei bambini in età scolare) ed evolvere successivamente sino all'età adulta. Si distinguono una forma clonica, caratterizzata dalla ripetizione più o meno accentuata dei fonemi, e una tonica, che si manifesta con un brusco arresto dell'emissione vocale, accompagnato da reazione emotiva più o meno intensa e da tentativi ripetuti per riprendere la parola. È un disturbo che può essere compreso (e quindi trattato) solo con metodi di osservazione complessi. All'origine della balbuzie concorrono fattori somatici e psicosociali. Tra i fattori somatici sono stati riscontrati: una disfunzione globale del sistema nervoso, disturbi dell'integrazione senso-motoria, anomalie della dominanza emisferica cerebrale, disordini della dinamica respiratoria. È stata inoltre considerata l'ipotesi che la balbuzie sia dovuta a insufficiente organizzazione del linguaggio di fronte alle necessità di relazione: ciò avviene per lo più nell'età scolare, durante la quale viene generalmente richiesto un adattamento linguistico e affettivo non da tutti conseguito. Dal punto di vista psicologico la balbuzie è considerata un sintomo nevrotico che compare principalmente nel periodo di latenza. Si manifesta in bambini la cui personalità è costretta da un bisogno precoce di controllare e reprimere gli impulsi psichici. Per il trattamento vengono impiegate terapie rieducative; nelle forme recenti si procede come per i ritardi semplici del linguaggio, nelle forme stabilizzate da parecchi anni si rendono necessari metodi di decondizionamento. Tra le diverse tecniche impiegate alcune sono fondate sull'autocontrollo del ritmo respiratorio, avendo cura che la fonazione avvenga fin dall'inizio dell'espirazione; altre hanno un carattere misto, rieducativo e psicoterapeutico, qualora la balbuzie faccia parte di un quadro più complesso di disadattamento alla vita di relazione o abbia una componente nevrotica preponderante.