antipsichiatrìa
sf. [anti-2+psichiatria]. Termine con cui ci si riferisce al movimento di contestazione della psichiatria tradizionale sviluppatosi negli anni Sessanta del sec. XX in tutto il mondo occidentale. Si tratta di un'espressione non del tutto propria e in cui molti esponenti del movimento si riconoscono con difficoltà. Il movimento infatti si può considerare nato negli Stati Uniti a opera di sociologi con interessi clinici (D. Scheff, E. Goffmann, T. Szasz) e in Gran Bretagna a opera di psichiatri spesso di provenienza fenomenologica (R. Laing e D. Cooper). In Italia ha preso l'avvio con F. Basaglia e la sua équipe (G. Jervis, A. Pirella, A. Slavich, L. Jervis Comba, F. Basaglia Ongaro, ecc.). I capisaldi della concezione dell'antipsichiatria sono la lotta all'istituzione manicomiale, vista come luogo di segregazione e di violenza, e la negazione della possibilità di applicare il modello classico alla malattia mentale, concepita piuttosto come ruolo sociale. In Italia, comunque, è stata soprattutto la “gestione della follia” ad aver impegnato gli esponenti del movimento e cioè la lotta ai manicomi, lo sforzo di reinserire nella società il malato di mente, la realizzazione di strutture assistenziali con compiti preventivi a livello di territorio. Un ruolo importante in tale direzione ha svolto l'associazione Psichiatria democratica. Il movimento ha avuto la forza di modificare l'immagine del malato mentale al punto tale che il 13 maggio 1978 è stata varata la legge n. 180 che prevedeva un'assistenza basata principalmente sulla cura e la riabilitazione del paziente psichiatrico, piuttosto che sulla sua segregazione. La legge ha portato alla chiusura degli ospedali psichiatrici e alla creazione di strutture alternative (per esempio le comunità terapeutiche) volte a realizzare il reinserimento dei malati mentali nel tessuto sociale.