Palamâs, Kostís
poeta greco (Patrasso 1859-Atene 1943). Incarnando un autentico filone romantico, inaugurò un nuovo corso della poesia neogreca sul finire dell'Ottocento, e dominò un cinquantennio di vita letteraria, esercitando un influsso di enorme portata. Orfano a sette anni, passò l'infanzia a Missolungi; giunse ad Atene nel 1875 e vi occupò il posto di segretario generale dell'università dal 1897 al 1928; fu accademico e presidente dell'Accademia di Atene (1930). Nella sua “cella” in via Periandru 5 fu visitato da tre generazioni di scrittori; né gli mancarono riconoscimenti e amicizie internazionali. Ai suoi funerali la Grecia intera, stremata dalla guerra e dalla fame, recò un tributo di amore e di gratitudine al poeta-vate, che diede davvero “una voce alle speranze e ai lutti, pianse e amò per tutti”. Rendendo operante, sul piano linguistico, la lezione del Solomós, Palamâs contribuì potentemente, con l'opera creativa e anche con l'animoso impegno critico e polemico (gli furono compagni Drosinis, Pallis, Psicharis), all'affermazione definitiva della demotica come unica lingua dell'espressione letteraria. All'insonne attività di poeta congiunse una vasta produzione critica (si ricorda in particolare la riscoperta di A. Kálvos), giornalistica e saggistica (2500 scritti); scrisse anche racconti (fra i quali la celebre Morte di Pallikari) e una tragedia, Trisèvieni, piena di lirismo e intrisa di spunti nietzschiani e ibseniani, ma aderente insieme a un ethos popolare greco. L'intera sua produzione è stata ordinata (dal 1955) in 18 grossi volumi, a cura di G. K. Katsímbalis. Si ricordano qui le principali raccolte liriche: I canti della mia terra (1886), Gli occhi dell'anima mia (1892), Giambi e anapesti (1897), La tomba (1898), per la morte d'un figlioletto, La vita immobile (1904), Il dodecalogo dello zingaro (1907), Il flauto del re (1910), che celebra in 12 canti l'imperatore bizantino Basilio II e si risolve in una vasta esaltazione della grecità, Città e solitudine (1912), Rimpianti della laguna (1912), Altari (1915), Versi timidi e crudeli (1928), Notti di Femio (1935). Le esperienze più ambiziose nel campo della poesia di pensiero (Inno ad Atena, 1889) e del poemetto (La palma; L'Ascreo) si mescolano a una continua ricerca anche ritmica e metrica (I pentasillabi, 1925; Il ciclo delle quartine, 1929). Il canto è spesso aduggiato da sovrastrutture intellettualistiche e anche da derivazioni culturali. Sul piano intimo, vi si colgono le antinomie di carne e spirito, bene e male, obliosi abbandoni e vigile presenza della ragione; sul piano storico, il senso dell'alterna vicenda delle umane sorti (rigoglio di civiltà e decadenza) e la coscienza della perennità della Grecia edella sua missione nei secoli, che non fu mai smarrita da Palamâs neppure in momenti cruciali (Inno dei profughi, 1922). Quanto ai caratteri più propriamente formali, al gusto odierno ripugnano l'esuberanza e talora l'intemperanza di questo fiume espressivo, le esclamazioni enfatiche, i sonori rimbombi, il tremolo d'intonazioni magniloquenti e patetiche; ma il talento genuino di Palamâs è ovunque evidente nell'ardito volo delle immagini, nella trama dei simboli, nella suggestività dei timbri e delle movenze.