Autori, generi e correnti letterarie del Cinquecento
Poesia, prosa, novellistica e teatro: tutti gli stili e i generi che hanno caratterizzato la letteratura italiana del XVI secolo.
- Classicismo rinascimentale
- Pietro Bembo
- Baldesar Castiglione
- Classicismo freddo e rigoroso: Annibal Caro
- Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini
- Niccolò Machiavelli
- Francesco Guicciardini
- Novellistica e teatro del Rinascimento
- La novellistica e Matteo Bandello
- La commedia
- Ruzante
- La tragedia classicistica
- Novellistica e teatro del Rinascimento in sintesi
- Anticlassicismo
- Teofilo Folengo
- Pietro Aretino
- Anticlassicismo in sintesi
- Manierismo
- Giovanni Della Casa
- Berni e il modello burlesco
- Agnolo Firenzuola
- Bizzarria manierista: Lasca e Gelli
Secolo decisivo per le sorti d'Europa, inizia con la creazione del grande impero asburgico di Carlo V e le inevitabili guerre per la supremazia tra Impero e Francia; in tale quadro l'Italia è territorio di conquista e teatro di lotte che culminano con il sacco di Roma (1527). Dal 1530 è riconosciuto il predominio di Carlo V sull'Italia, che sarà definitivamente sancito con la pace di Cateau-Cambrésis (1559). Parallelamente si affermano la grande Riforma protestante di Lutero prima, e lo scisma inglese poi: si rompe così l'unità religiosa dell'Europa. La Chiesa cattolica, da parte sua, con il concilio di Trento ridefinisce le sue strutture e precisa i suoi dogmi contro la scissione protestante. Intorno agli anni '30 ritroviamo la sintesi della cultura umanistico-rinascimentale nell'opera di Machiavelli e Ariosto. L'opera di Guicciardini è come il simbolo di una società italiana ormai irrimediabilmente in crisi, schiacciata dal potere dei Francesi e degli Spagnoli. Il lavoro filologico e poetico di Bembo (insieme a quello di Castiglione e di tanta altra trattatistica) stabilisce il canone del classicismo italiano (il petrarchismo). Solo marginalmente si diffonde la cultura del manierismo (soprattutto Folengo e Pietro Aretino e, diversamente, Bandello) accanto alla grande esperienza vernacolare del teatro veneto (Ruzante). Dagli anni '50 in poi la letteratura entra in una crisi profonda che è anche segno di una decadenza politica: lo stesso classicismo, sempre più coincidente con le istanze manieristiche, include un inevitabile conformismo culturale. Figura di sintesi altissima quanto dolorosa è Torquato Tasso, la cui Gerusalemme liberata è il segno di un'aspra tragedia, di una decadenza culturale e storica ormai senza via di uscita.
Classicismo rinascimentale
Nella letteratura italiana, alla ricerca di un proprio modello linguistico-letterario, a partire dagli anni '20 e '30 del sec. XVI si consolida un'idea di classicismo, di raffinatezza e di armonia linguistico-espressiva che non si limiti a proporre i canoni di un'imitazione generica della letteratura classica. Pietro Bembo si pone il problema della lingua letteraria e ne fissa il canone; a lui, inoltre, risale l'idea ancora attuale di "classico", come testo che impone il proprio valore attraverso i tempi. Baldesar Castiglione invece codifica le norme di comportamento del perfetto uomo di corte. Verso la metà del secolo il dibattito si irrigidisce in una precettistica più severa: le norme classicistiche vanno a coincidere con il nuovo clima della Controriforma.
Pietro Bembo
Pietro Bembo (1470-1547) fu una delle figure salienti del periodo rinascimentale; egli pose le basi del petrarchismo e diede un contributo decisivo alla codificazione della lingua letteraria italiana.
La vita e le opere
Nato in una ricca famiglia del patriziato veneziano, ebbe una formazione umanistica completa e studiò il greco a Messina alla scuola di C. Lascaris. Ritornato a Venezia, collaborò con il grande stampatore Aldo Manuzio presso il quale pubblicò il suo primo testo: una breve prosa latina intitolata De Aetna (1496). Nel 1501, sempre per Manuzio, curò un'edizione delle rime del Petrarca e una della Commedia dantesca (1502). Tra il 1497 e il 1499 fu alla corte ferrarese, dove approfondì gli studi filosofici. Nel 1505, presso Manuzio, stampò gli Asolani, dialoghi in 3 libri in cui si alternano poesia e prose. Tipico prodotto della letteratura cortigiana d'influsso neoplatonico, gli Asolani trattano dell'esperienza amorosa. La novità dell'opera consiste nel fatto che il tema dell'amore è sviluppato non più solo nella canonica forma poetica, ma anche in quella prosastica. Le rime presenti si segnalano per uno stile petrarchesco assai rigoroso. Nel 1506 Bembo si trasferì da Venezia a Urbino, presso la corte dei Montefeltro, e abbracciò la carriera ecclesiastica per esigenze economiche. Al periodo urbinate, durato sei anni, appartengono le Stanze, 50 ottave di stile petrarchesco recitate a corte nel 1507. Nel 1512, a Roma, divenne segretario di Leone X; appartiene a questo periodo la polemica con l'umanista Giovan Francesco Pico e la conseguente stesura del trattato De imitatione, in cui si sosteneva la necessità per la prosa di imitare un solo scrittore: Cicerone. Nel 1522 Bembo si stabilì a Padova, città in cui progettò e ultimò le Prose della volgar lingua (1525), un trattato in 3 libri che, in forma di dialogo, svolge il tema della lingua e della letteratura in volgare. Divenuto ormai celebre, nel 1530 pubblicò le Rime, che costituivano l'applicazione dei suoi precetti linguistici in campo poetico. In quello stesso anno fu nominato storiografo e bibliotecario della Repubblica di Venezia, per la quale redasse una Historia veneta. Nel 1539 il papa Paolo III lo nominò cardinale. Raccolse inoltre le proprie lettere in un Epistolario, anch'esso pubblicato dopo la sua morte avvenuta a Roma.
Il problema della lingua
Stabilita la necessità di usare il volgare come lingua letteraria, nel primo libro delle Prose della volgar lingua Bembo sostiene il recupero del toscano di Dante, e soprattutto di Boccaccio e di Petrarca, come lingua letteraria nazionale, in opposizione a chi proponeva l'uso della lingua delle corti (per esempio, B. Castiglione) o quello del fiorentino contemporaneo. Nel secondo libro, riferendosi specificamente alla poesia del Petrarca, Bembo individua in Petrarca il modello di perfezione stilistica, metrica e retorica da imitare per i versi. Nel terzo libro egli detta le regole grammaticali della lingua volgare unitaria, ricavandole dai testi dei tre grandi scrittori del Trecento. In questa maniera Bembo delinea un "classicismo del volgare" (una lingua fondata sulla "gravità" e la "piacevolezza") in grado di superare in modo unitario l'ibridismo linguistico e stilistico dei vari volgari italiani scritti. La sua soluzione riuscì a imporsi nella società letteraria italiana: Ariosto, per esempio, modificò la lingua del Furioso e molti altri scrittori si adeguarono alle norme e alle regole codificate da Bembo. L'anno 1525 (prima edizione delle Prose) può essere considerato la data d'inizio dell'affermazione in sede letteraria del toscano ed è solo da tale data che si può, a ragione, distinguere tra "lingua" e "dialetto". Infatti quest'ultima categoria presuppone l'esistenza di una lingua unitaria, sia pure solo sul piano letterario.
Baldesar Castiglione
Baldesar Castiglione (1478-1529) fu il letterato che codificò gli ideali rinascimentali della perfetta società aristocratica.
La vita e le opere minori
Nato a Casatico, presso Mantova, ricevette, nella Milano di Ludovico il Moro, un'educazione umanistica di primissimo ordine che comprese oltre alle arti e alle lettere anche il greco. Nel 1499 per la morte del padre rientrò a Mantova, dove si mise al servizio di Francesco Gonzaga. Iniziò così la fortunata carriera di "cortegiano", che proseguì nel 1504 a Urbino al servizio di Guidobaldo da Montefeltro. Nel 1513 il duca di Urbino lo inviò a Roma come ambasciatore presso la corte papale di Leone X, dove conobbe Bembo, Bibbiena e Raffaello. Rientrato a Mantova nel 1516, riprese servizio come ambasciatore presso i Gonzaga e sposò Ippolita Torelli, che gli diede tre figli. Rimasto vedovo nel 1520, abbracciò la carriera ecclesiastica. Nel 1524 il nuovo papa Clemente VII lo nominò nunzio apostolico a Madrid, presso la corte di Carlo V. Morì di malaria a Toledo. La sua produzione letteraria minore consta di alcune rime volgari e latine di carattere encomiastico, di un'egloga (Tirsi, 1506) e di un nutrito epistolario. A ciò si deve aggiungere il prologo (oggi perduto) alla Calandria del Bibbiena e l'epistola latina a Enrico VII De vita et gestis Guidubaldi Urbini ducis (1508).
Il "Cortegiano"
Ma Castiglione è giustamente celebre per il trattato in 4 libri, scritto in forma dialogica e intitolato Il libro del Cortegiano. Lo iniziò verso il 1513-14 e lo pubblicò a Venezia nel 1528. Il Cortegiano è ambientato nell'anno 1506, quando l'autore immagina che presso la corte urbinate dei Montefeltro si riuniscano, intorno alla duchessa Elisabetta Gonzaga, alcuni eletti personaggi (fra i quali storicamente riconoscibili sono Bembo, Bibbiena, Giuliano de' Medici). Nell'arco di quattro serate, attraverso le loro conversazioni, si delineano il ritratto psicologico, fisico e le regole di comportamento del perfetto uomo di corte. Nel primo libro ne vengono elencate le qualità fisiche e morali: nobiltà, esercizio nelle armi, conoscenza di tutte le arti liberali e così via. La lingua in cui si esprimerà il "cortegiano" (contrariamente alle tesi di Bembo) dovrà essere il volgare delle migliori corti, nobilitato dai termini più eleganti "d'ogni parte d'Italia". Nel secondo libro si descrivono i comportamenti del cortigiano ideale nelle più svariate circostanze: diplomazia, conoscenza dei giochi di società, opportuna scelta degli amici, capacità ironiche, spirito. Nel terzo libro si delineano i tratti ideali della "donna di palazzo", versione femminile del cortigiano: bellezza, devozione, intelligenza, moralità. Il quarto libro, dopo una prima parte ancora dedicata ai rapporti tra principe e cortigiano, si chiude con una lunga disquisizione filosofica sull'amor platonico, strumento fondamentale per la conoscenza del Sommo Bene. Lo stile del Cortegiano è improntato agli ideali rinascimentali di equilibrio, classicità e compostezza. Modello ideale di una pratica sociale e di una visione aristocratica del mondo, il Cortegiano ebbe da subito una grande fortuna presso le principali corti europee, che durò fino alla rivoluzione francese. La sua grandezza e quella del suo autore stanno nel porsi come coscienza critica di alcuni aspetti della condizione umana di ogni tempo.
Classicismo freddo e rigoroso: Annibal Caro
A metà secolo il classicismo rischia di irrigidirsi in un modello formale e tutto esteriore. È il caso del modenese Ludovico Castelvetro (1505-1571), noto soprattutto per la Poetica d'Aristotele vulgarizzata e sposta (stampata nel 1570, ma elaborata prima), straordinario commento fatto con metodo rigoroso e radicalmente razionale; nonostante l'acume, il suo classicismo si trasforma in fredda precettistica.
Annibal Caro
Annibal Caro (1507-1566), di Civitanova Marche, studiò a Firenze e passò poi a Roma. La sua prima prova letteraria fu una libera traduzione dal greco del romanzo pastorale Amori pastorali di Dafni e Cloe di Longo Sofista (iniziata nel 1537). Compose anche versi che si ispiravano ai modi di Berni. Nel 1544, su commissione di Pier Luigi Farnese, scrisse la commedia Gli straccioni (1582, postuma). Divenne noto negli ambienti letterari romani per la polemica con Castelvetro, che lo aveva attaccato a proposito della canzone Venite all'ombra de' gran gigli d'oro, a cui rimproverava l'eccesso di irregolarità linguistiche. Il Caro rispose scrivendo l'Apologia (1558) e alcune rime oltraggiose. Nel 1536, stanco della vita cortigiana, si ritirò nella sua villa di Frascati dove attese alla sistemazione delle Rime (1569, postume) e riunì le Lettere famigliari (1575-77, postume), importante testimonianza storica e culturale dei tempi scritta in un volgare armonico ed equilibrato. La sua opera più nota rimane tuttavia la traduzione in volgare e in endecasillabi sciolti dell'Eneide virgiliana (1563-66), versione che intenzionalmente "riscrive" l'originale poema con grande abilità retorica. L'ideale classico vi si ritrova reinterpretato alla luce della nuova sensibilità estetica e morale del Rinascimento.
Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini
Se per la poesia rinascimentale possiamo dire che fu Ariosto la voce più alta, per la prosa il culmine venne ragguinto da Machiavelli e Guicciardini. Machiavelli espone nel Principe la teoria dello Stato moderno e delinea il profilo dell'uomo "prudente e virtuoso". Guicciardini, politico sul campo in anni cruciali per la storia italiana, ne diviene lucido e scettico storiografo. Se la storiografia umanistica aveva cercato nell'insegnamento del passato una virtù nuova per il presente, quella del primo Cinquecento muta prospettiva: gli storici maturano una concezione drammatica e dinamica della storia.
Niccolò Machiavelli
Acuto testimone della storia del suo tempo e uno dei maggiori prosatori italiani, Machiavelli è il teorico di una politica rigorosamente razionale, come unica risposta possibile all'egoismo degli uomini.
La vita e le opere
Nato a Firenze nel 1469, ebbe una formazione umanistica quando la città di Lorenzo de' Medici era all'apice della potenza e del prestigio culturale. Dopo il rogo di Savonarola (1498), Machiavelli iniziò l'attività politica al servizio della Repubblica fiorentina come segretario dei Dieci di Balia, organo di governo della città. Svolse diversi incarichi diplomatici, dei quali stilò precisi resoconti: nel 1500 fu inviato presso Caterina Sforza, contessa di Forlì; nel 1501 fu in Francia; tra il 1502 e il 1503 si recò più volte presso Cesare Borgia, divenuto signore delle Marche e della Romagna (incontri dai quali trasse materiale per l'opuscolo Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vittellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini (1503). Nel 1503 fu mandato a Roma per seguire il conclave e nel 1504 si recò di nuovo in Francia presso Luigi XII. Intanto era cresciuto il suo peso politico: scrisse Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati (1503) e ottenne l'incarico (1505-09) di preparare la milizia della Repubblica. Anche in quegli anni Machiavelli continuò un'importante attività diplomatica: nel 1506 fu al seguito delle campagne militari di papa Giulio II e nel 1507-08 partecipò a una missione presso l'imperatore Massimiliano, al ritorno dalla quale stilò il Rapporto di cose della Magna (1508), rielaborato poi nel Ritratto delle cose della Magna (1512). Nel 1510 fece un terzo viaggio in Francia e ne trasse il Ritratto di cose di Francia (1510), penetrante indagine sulle caratteristiche politiche di quello Stato. Nel 1512 si ruppe l'equilibrio tra Francia e Spagna; a Firenze la Repubblica, alleata dei francesi, dovette capitolare ai Medici, che assunsero di nuovo il governo della città appoggiati dalla Spagna. Machiavelli fu allontanato da tutti gli incarichi e condannato al confino per un anno; sospettato poi di aver preso parte a una congiura antimedicea (1513), fu incarcerato, torturato e condannato a un nuovo confino. Amnistiato dopo l'elezione del papa Medici Leone X, si ritirò nel podere dell'Albergaccio, vicino a San Casciano, in Val di Pesa. In questo isolamento, di cui parla nella celebre lettera del 1513 allo storiografo e uomo politico F. Vettori, scrisse i suoi capolavori, in primo luogo il trattato Il Principe (1513-14), poi l'impegnativa riflessione storico-politica dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1515-17), i dialoghi De re militari (L'arte della guerra, 1521), e infine la Vita di Castruccio Castracani (1520).
Scrisse anche opere di genere letterario: il Decennale primo e il Decennale secondo (1504-06 e 1516) in terzine dantesche, che cantano le vicende drammatiche d'Italia; il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua (1515-16) a favore del fiorentino; il poemetto satirico l'Asino (1518), su temi filosofici; la favola Belfagor arcidiavolo, o il demonio che prese moglie (circa 1518); e soprattutto la commedia La mandragola (1518), la cui rappresentazione in occasione di una festa medicea segnò una parziale attenuazione dell'ostilità dei signori nei confronti dello scrittore, che ricevette nuovi incarichi. Nel 1525 rappresentò a Firenze la commedia Clizia, storia grottesca di un amore senile, e concluse le Istorie fiorentine, pubblicate nello stesso anno. Poco dopo ottenne la revoca dall'interdizione dai pubblici uffici. La nuova guerra della Lega formata da papato, Francia e Firenze contro l'impero di Carlo V lo vide coinvolto in attività diplomatiche e militari; ma la Lega fu travolta (1527, sacco di Roma), i Medici cacciati e a Firenze fu restaurata la repubblica guidata da esponenti savonaroliani, ai quali Machiavelli era sgradito e sospetto. Morì nel giugno 1527.
Nel clima della Controriforma le opere di Machiavelli furono giudicate scandalose, prive di valori morali. Nel 1559 tutte le sue opere vennero inserite nell'Indice dei libri proibiti.
"Il Principe"
Scritta tra il luglio e il dicembre del 1513, l'opera più famosa e innovativa di Machiavelli è un breve "ghiribizzo" (per sua definizione) di 26 capitoli, in cui egli compendia la riflessione politica e filosofica acquisita in quindici anni passati al servizio dello Stato. Nella prima parte Machiavelli sviluppa l'analisi dei vari tipi di principato (ereditari, nuovi, misti) e del modo in cui vengono acquistati. Lo scrittore presenta anche alcune figure di fondatori di Stati, come Mosè, Ciro, Teseo e Romolo e di riformatori come Girolamo Savonarola, nei confronti del quale esprime il giudizio lapidario di "profeta disarmato". L'attenzione è però concentrata (cap. VII) sulle azioni del duca Valentino, Cesare Borgia, indicato come l'esempio migliore di "uomo prudente e virtuoso", cioè di politico capace di coniugare un progetto di vasto respiro (la formazione di un solido Stato nell'Italia centrale) con la scelta oculata degli strumenti adatti per indebolire gli avversari, utilizzare gli amici potenti senza divenirne ostaggio, sfruttare le situazioni favorevoli, acquisire la stima e la fedeltà del popolo e della piccola nobiltà. Machiavelli sottolinea anche l'importanza per il principe di avere un esercito proprio invece che dipendere da uno mercenario. Nella seconda parte ribalta il concetto tradizionale di teoria politica, tradizionalmente orientata a proporre modelli ideali di organizzazione statale e di comportamento dei governanti. Per Machiavelli il fulcro dell'attività politica è costituito dalla ricerca di ciò che è utile per l'insieme dello Stato (che coincide con l'utile del principe e dell'insieme dei sudditi) e il terreno d'indagine della politica è la "verità effettuale della cosa" e non "la immaginazione di essa". Ne deriva un radicale capovolgimento del rapporto tra politica e morale; il giudizio sugli atti del principe non dipende dalla loro corrispondenza ad astratte norme, ma dalla loro congruità a produrre la sicurezza dello Stato. Celebre è poi la concezione della fortuna sviluppata da Machiavelli: essa è la sintesi instabile delle diverse e imprevedibili forze che agiscono nella storia; con questa mobilissima antagonista deve misurarsi la virtù del principe, che può prevalere solo se sa prevederne gli sviluppi, contrastarne le bizzarrie, infine dominarla con l'audacia non sconsiderata. Machiavelli conclude il suo scritto con un caldo appello a un esponente della dinastia medicea perché raccolga l'aspirazione di tutti gli italiani a combattere e vincere il "barbaro dominio" delle potenze straniere. Il Principe pone le basi della nuova concezione della politica proprio perché individua in essa l'ambito in cui si può realizzare la virtù dell'individuo, cioè la capacità di affrontare gli eventi razionalmente, avendo come fine il raggiungimento di un modo di convivenza tra gli uomini in cui l'interesse individuale si realizzi e si riconosca nell'interesse collettivo.
I "Discorsi" e la "Mandrangola"
Al vero centro del proprio pensiero, cioè la formazione e la conservazione dello Stato, Machiavelli dedica, oltre alle pagine del Principe, lo sforzo di riflessione dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Machiavelli ricava conferme alla necessità del consenso dei cittadini, alla ricerca dell'equilibrio di interessi tra le classi sociali, alla funzione non solo militare ma anche politica di un esercito composto di cittadini, come del resto all'utilizzo della religione come strumento di coesione dello Stato. Nel ripercorrere la storia di Roma (e in parallelo quella di Firenze nelle Istorie fiorentine, largamente improntate allo stile oratorio della storiografia classica) lo scrittore sottolinea come anche gli ordinamenti più solidi vengono corrotti e indeboliti dalla stoltezza, dagli errori, dall'incostanza degl'individui. Proprio perché si propone traguardi molto alti, la visione pessimistica del comportamento umano è una costante in Machiavelli.
Essa va accentuandosi negli anni dell'inattività politica e si manifesta, in chiave artistico-letteraria, nella commedia della Mandragola, in cui l'obiettivo "basso", il tema comico (la conquista di una donna con l'inganno) mette in luce l'incapacità degli individui di andare oltre il proprio meschino interesse personale. Forse è la protagonista femminile Lucrezia colei che meglio interpreta l'ideale di Machiavelli: vittima di intrighi e meschinità, essa è poi capace di cogliere l'occasione offerta dalla fortuna e di diventare l'artefice della propria vita.
Il dibattito su Machiavelli
In ambiente gesuitico venne elaborata, come sintesi di tutto il pensiero machiavelliano, l'espressione divenuta proverbiale "il fine giustifica i mezzi", che mai appare nei suoi scritti. L'aggettivo "machiavellico" divenne sinonimo, in tutta Europa, di astuto, senza scrupoli e tale significato fu conservato. Nel Settecento si vide in Machiavelli sia il teorico dell'assolutismo, sia l'ardente repubblicano che attraverso il Principe insegna ai popoli a insorgere contro i tiranni. Durante il Risorgimento, criticato per l'"immoralità" delle sue tesi, fu però ritenuto un profeta dell'unità d'Italia. Nel sec. XX, da un lato si è teso a storicizzare il suo pensiero, inquadrandolo nel particolare contesto storico, dall'altro si è operato lo sforzo di utilizzarlo come stimolo alla riflessione sull'attualità. In realtà Machiavelli fonda la politica come scienza autonoma, in cui il rapporto "fini-mezzi" va inteso nel senso che in politica non valgono predicazioni morali e nessun "fine" anche quello moralmente più alto può realizzarsi se non è fornito di "mezzi" adeguati e coerenti.
Francesco Guicciardini
Francesco Guicciardini (1483-1540) fu protagonista della politica italiana negli anni delle guerre tra Francia e Spagna per il dominio della penisola, e ne divenne anche il lucido interprete sul piano storiografico.
La vita e le opere
Discendente di una delle più importanti famiglie fiorentine, ricevette una solida formazione umanistica. Nel 1512 interruppe la stesura della sua prima opera, le Storie fiorentine, per assumere un incarico diplomatico, un'ambasceria alla corte di Spagna, ove rimase fino al 1514. Qui scrisse l'opera politica il Discorso di Logrogno (1512), una proposta di organizzazione politica dello Stato fiorentino, cui fece seguire poco dopo l'altro discorso Del governo di Firenze dopo la restaurazione dei Medici e un Diario di viaggio. Tornato in Italia ed entrato in buoni rapporti con i Medici di nuovo al potere, nel 1516 ebbe da papa Leone X l'incarico di governatore di Modena (in seguito governerà Reggio Emilia e la Romagna). In quegli anni si dedicò alla stesura del Dialogo del reggimento di Firenze (1525). In campo politico operò soprattutto per favorire l'alleanza tra Francia e Papato in funzione antimperiale (lega di Cognac), al cui interno fu nominato luogotenente generale della Chiesa. Dopo il sacco di Roma (1527), venne rimosso dalle cariche che ricopriva.
Tornato a Firenze, da cui nel frattempo erano stati cacciati i Medici, si dedicò all'attività letteraria: scrisse una parte dei Ricordi (1528) e opere storiche, come le Cose fiorentine (1528-31) e soprattutto le Considerazioni sopra i Discorsi del Machiavelli (1528), rilevanti per comprendere la sua concezione della politica. Bandito dalla città a causa delle sue simpatie medicee, prima si ritirò nella proprietà di Finocchieto e poi si rifugiò in Romagna presso Clemente VII. Quando nel 1530 la Repubblica fiorentina fu abbattuta, Guicciardini riprese i rapporti di collaborazione con il papa, che nel 1531 lo nominò governatore a Bologna e nel 1533 lo volle con sé in un viaggio a Marsiglia per incontrare il re di Francia. Si dedicò quindi all'organizzazione del potere mediceo a Firenze, ma poco alla volta venne emarginato: ritiratosi allora nelle sue proprietà, si dedicò sempre più al lavoro letterario e in particolare alla stesura del suo capolavoro, la Storia d'Italia, iniziata nel 1536 e non del tutto terminata quando lo colse la morte nella villa di Montici.
I "Ricordi"
Nessun'opera di Guicciardini fu pubblicata durante la sua vita: fra le altre, rimasero tra le carte di famiglia più di duecento pensieri e aforismi pubblicati nel 1576 con il nome di Avvertimenti e poi con il titolo ottocentesco di Ricordi. La stesura di queste brevi riflessioni coprì tutto l'arco della vita dello scrittore, dagli anni giovanili (la prima serie di pensieri risale addirittura agli anni spagnoli) fino al 1530. Guicciardini riflette sulla "ruina d'Italia" con una lucidità che esclude ogni riferimento a modelli e teorie: non cerca e non accetta spiegazioni e interpretazioni universali della realtà politica. Egli è convinto che, in linea di massima, i rapporti umani siano caratterizzati da una negatività raramente modificabile e che quindi il risultato di ogni azione politica sia determinato più da mutamenti in superficie che da iniziative che pretendono di agire sui meccanismi profondi del processo storico. A essi si deve abituare "il buon occhio del saggio" per esercitare la "discrezione", cioè la capacità di comprendere e sapersi orientare in mezzo alle infinite variazioni che si propongono allo sguardo di chi deve guidare la cosa pubblica. In questo quadro l'obiettivo da perseguire è costituito dal "particulare", che riguarda sia la sfera personale e si identifica con il "decoro" (cioè la reputazione e l'onore personali e familiari), sia il campo politico, in cui si realizza come il migliore equilibrio possibile tra le violente e oscure forze contrastanti. Il "particulare" non è quindi la trasformistica capacità di fare comunque i propri interessi (come a lungo è stato interpretato), quanto la salvaguardia della propria dignità in tempi di crisi in cui non si riescono a realizzare alti ideali collettivi.
La "Storia d'Italia"
Questa concezione dell'agire umano è il risultato di una drammatica sconfitta non solo di una politica o di una strategia militare, ma di tutta una civiltà. La Storia d'Italia (20 libri) fu pubblicata, con numerosi tagli censori, a Firenze nel 1561 e più completa a Venezia nel 1564. Il periodo considerato è relativamente breve: dal 1492 (morte di Lorenzo il Magnifico) al 1534 (morte di Clemente VII, l'ultimo papa Medici). In questi decenni si passò dalla prosperità e dall'equilibrio del tardo Quattrocento alla rovina totale, drammaticamente rappresentata dal sacco di Roma (1527) da parte delle truppe dell'Impero, raccontato da Guicciardini in pagine di alto valore letterario. Egli individua i principali responsabili di tale disastro in Ludovico il Moro e in papa Alessandro VI, che, mossi da un irrefrenabile desiderio di potenza, chiamarono in Italia gli eserciti stranieri. Più in generale la narrazione mette in risalto il percorso di violenza, di presunzione, di cecità dei principi italiani che si illusero di saper controllare e utilizzare per i propri piccoli interessi dinastici o territoriali forze di gran lunga più potenti di loro. Da queste vicende Guicciardini ricava la convinzione che non è più possibile ragionare in termini campanilistici, in quanto le cause della rovina di ogni singolo stato italiano derivano dalla crisi di tutto il sistema politico. Così dallo studio del passato nasce una riflessione politica proiettata nel futuro: l'identità storico-culturale d'Italia ha bisogno di realizzarsi in un organismo unitario, che egli pensa di tipo federale. Ma Guicciardini non si illuse che ciò potesse avvenire in tempi brevi: nel suo radicale pessimismo egli avvertì costantemente lo scarto tra le teorizzazioni della ragione e la resistenza opposta dalla realtà.
Unica opera che Guicciardini scrisse per la pubblicazione, la Storia d'Italia presenta una lingua di grande nobiltà formale, a cui non fu estraneo il confronto con le Prose della volgar lingua di Bembo.
Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini in sintesi
Niccolò Machiavelli | Nato a Firenze (1469-1527), fu uomo politico e diplomatico. Sue opere principali sono: Il Principe (1513-14), Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1515-17), i dialoghi De re militari (1521) e la Vita di Castruccio Castracani (1520). È autore anche della commedia La mandragola (1518). |
Il pensiero politico | Il fulcro dell'attività politica è costituito dalla ricerca di ciò che è utile per l'insieme dello Stato (che coincide con l'utile del principe e dell'insieme dei sudditi) e il terreno d'indagine della politica è la "verità effettuale della cosa" e non "la immaginazione di essa". La formazione e la conservazione dello Stato è il vero centro del pensiero machiavelliano, che fonda la politica come scienza autonoma, capace di affrontare razionalmente i casi della "fortuna" e di fornire i "fini" di "mezzi" adeguati e coerenti. |
Francesco Guicciardini | Francesco Guicciardini (1483-1540) fu uomo politico protagonista negli anni delle guerre fra Spagna e Francia. Tra le opere principali, i Ricordi, il cui tema è la politica: l'uomo politico deve possedere "il buon occhio del saggio" per esercitare la "discrezione", cioè la capacità di comprendere e sapersi orientare in mezzo alle infinite e concrete variazioni che si propongono, e per perseguire il "particulare", cioè l'onore e la dignità in un'epoca di crisi priva di alte finalità collettive. |
La "Storia d'Italia" | Nella Storia d'Italia (dal 1492 al 1534), dalle vicende storiche Guicciardini ricava la convinzione che non è più possibile ragionare in termini campanilistici, in quanto le cause della rovina di ogni singolo stato italiano derivano dalla crisi di tutto il sistema politico. Così dallo studio del passato nasce una riflessione politica proiettata nel futuro: l'identità storico-culturale d'Italia ha bisogno di realizzarsi in un organismo unitario, che egli pensa di tipo federale. |
Novellistica e teatro del Rinascimento
L'eccezionale produzione letteraria di cui fu artefice l'Italia nel Cinquecento si espresse con particolare ricchezza anche nei generi della novella, che ebbe in Matteo Bandello l'esponente più importante, della commedia, con l'esperienza anticlassicista del Ruzante, e della tragedia.
La novellistica e Matteo Bandello
Il modello più imitato rimase Boccaccio e i testi erano quindi inseriti in una cornice narrativa. Bandello costituì una vera novità nel grande filone del genere. Tuttavia altri autori si distinsero, come il bergamasco Giovan Francesco Straparola (morto dopo il 1557), il cui nome è legato alla raccolta Le piacevoli notti (1550 e 1553) ambientata nell'isola di Murano: sono fiabe e novelle su temi fiabeschi, due delle quali, in bergamasco e in pavano, costituiscono importanti documenti linguistici.
Matteo Bandello
Matteo Bandello (1485-1561) fu letterato finissimo e seppe portare l'arte rinascimentale della conversazione alla dignità di genere letterario. Nato a Castelnuovo Scrivia da una famiglia nobile, entrò giovanissimo nel convento milanese dei domenicani; viaggiò, condusse vita mondana, fu agente diplomatico presso la corte di Isabella d'Este a Mantova. Nel 1522 lasciò definitivamente il convento e chiese, senza successo, di essere sciolto dai voti. Continuò la sua vita di cortigiano, mettendosi a servizio tra gli altri di Cesare Fregoso, luogotenente del re di Francia Francesco I. Fu nominato vescovo di Agen (1550) ma resse la carica solo nominalmente. Durante i vent'anni di permanenza in Francia, Bandello ebbe modo di rielaborare alcune opere minori scritte in Italia e soprattutto curò la grande raccolta di Novelle. Tra il 1536 e il 1538 scrisse i Canti XI delle lodi della signora Lucrezia Gonzaga, che pubblicò nel 1545 insieme ai capitoli in terza rima intitolati Le tre Parche. Del 1539, invece, è il volgarizzamento dell'Ecuba di Euripide, mentre precedente (1509) è la traduzione latina della novella boccacciana dedicata a Tito e Gisippo. Alla sua produzione poetica appartengono più di 200 Rime, di gusto petrarchesco, edite solo nel 1816.
Le "Novelle" di Bandello
Bandello scrisse novelle durante tutta la vita e infine le raccolse e organizzò in 4 libri, di cui pubblicò i primi tre a Lucca (1553-54) e l'ultimo a Lione (1573). A differenza del Decameron, le sue Novelle non sono inserite in alcuna struttura generale e il loro accostamento non segue un ordine o un criterio tematico ben definito. Si tratta, come ha scritto lo stesso autore, d'una "mistura d'accidenti diversi". Tuttavia ogni novella è preceduta da un'epistola dedicatoria, indirizzata a personaggi contemporanei, nella quale l'autore dichiara le circostanze "cortigiane" in cui finge di aver ascoltato la storia che si accinge a narrare. Grande è la varietà di temi e registri di questi testi: si va dal tragico al grottesco, dal comico al farsesco, dall'osceno al patetico. Si osserva comunque una certa predilezione per il genere erotico e per gli "amori sfortunati". Celebre la storia di Giulietta e Romeo. Le fonti delle novelle sono assai varie: dal fatto di cronaca alla leggenda popolare, al resoconto di viaggio; abbondano i rilievi storici e i piccoli eventi quotidiani della vita delle corti, così che le novelle si possono definire il prolungamento scritto delle "conversazioni" cortigiane. Nella lingua delle Novelle si riscontrano numerosi dialettalismi settentrionali e svariati gallicismi; lo stile è intenzionalmente dimesso. Il realismo quotidiano che domina tematicamente questi testi impone del resto una sintassi piana, volta alla rappresentazione "vera" e non letteraria degli eventi.
Il senso della grande arte narrativa di Bandello è racchiuso nella sua capacità di proporre un'indagine psicologica sempre sottile e concreta, ma non per questo rifiutandosi a notevoli aperture fiabesche e comiche o tragiche o all'improvviso oscene. Le sue Novelle ebbero grande fortuna europea, da Shakespeare a Stendhal, da A. de Musset a Byron, per citare gli autori più noti.
La commedia
La commedia cinquecentesca in italiano riprende materiali classici (Plauto e Terenzio) e più recenti (Decameron). Anche per la lingua la commedia cinquecentesca si apre a una contrapposizione di timbri e linguaggi diversi. Accanto al Formicone di Publio Filippo Mantovano (primo esempio di commedia in volgare, 1503), alla Cassaria (1508) e ai Suppositi (1508) di Ariosto, i maggiori risultati nella prima metà del secolo sono la Mandragola (1518) di Machiavelli e La Calandria (1513) del cardinale Bernardo Dovizi, noto come Bibbiena dal luogo di nascita (1470-1520). La Calandria mostra un particolare e positivo equilibrio fra ordine teatrale ed espressività della lingua. La commedia non fu estranea in seguito alla sperimentazione manieristica o dialettale. Scrissero commedie A. Firenzuola, il Lasca e G. Gelli, P. Aretino e G. Bruno. Verso la fine del secolo Annibal Caro scrisse Gli straccioni (1582, postumo). Altissimo è l'esempio del teatro veneto.
Già al 1514 risale l'anonima Bulesca, una commedia in dialetto con varie battute in gergo furbesco (ovvero il linguaggio, comicamente trattato, del mondo della delinquenza e del vagabondaggio). Agli anni '30 può risalire l'anonima Veniexiana, un vero esempio di teatro "diretto", rapidissimo, fondato sulla massima quotidianità del dialetto.
Ruzante
Il padovano Angelo Beolco, detto Ruzante, o Ruzzante (1496-1542) è una delle figure maggiori del Cinquecento. Il mondo rinascimentale viene da lui parodiato in chiave anticlassicistica attraverso la grottesca ed espressionistica rappresentazione del mondo rurale.
La vita e l'attività teatrale
Figlio naturale di un medico, ricevette una buona educazione a contatto con la cultura accademica e aristocratica dell'entroterra veneto. Dopo il 1520 entrò al servizio del nobile mecenate veneziano Alvise Cornaro, con il quale strinse amicizia e di cui amministrò le vaste proprietà situate nella campagna padovana. La sua attività teatrale iniziò probabilmente come attore dilettante nella parte di Ruzante, maschera comica del contadino rozzo e in miseria, maltrattato dai potenti e sbeffeggiato dalle donne. Presto egli assunse questa figura come propria immagine e pseudonimo, facendone il personaggio principale della sua produzione in dialetto pavano, cui diede un grande spessore umano e psicologico.
Le commedie
Il primo testo scritto di Ruzante fu la Pastoral (1518), che riprende lo schema della commedia bucolica e in parte anche le situazioni tipiche del genere colto (amori convenzionali e atteggiamenti artefatti), ma li modifica in maniera grottesca ed espressionistica attraverso l'uso dei dialetti padovano e bergamasco e la presenza della greve comicità contadina. Il primo testo in cui si manifesta tutta l'originalità dello scrittore è la commedia in versi Betìa (1524-25), che prende spunto dal genere dei "mariazi" (farse rusticali per nozze o fidanzamenti), rappresentando una lunga disputa fra contadini per conquistare la mano della bella Betìa. Il conflitto tra il mondo naturale della campagna e le dure conseguenze imposte dalle leggi e consuetudini innaturali della città diventa straordinario gioco scenico nei tre atti unici che rappresentano il momento più alto della produzione di Ruzante: il Dialogo facetissimo (1528), in cui è protagonista la carestia, che riduce il contadino Menego a tale livello di fame da spingerlo a minacciare un suicidio grottesco; il Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo (1529), che celebra il dramma di un contadino sopravvissuto a una battaglia (mirabilmente descritta "dal basso"), che torna a Venezia e trova la moglie in compagnia di un mascalzone dal quale viene picchiato; il Bilora (1529) in cui, ancora una volta, un contadino accoltella, dopo una serie di diverbi, il vecchio e ricco mercante presso il quale la moglie è andata a vivere. In queste opere il mondo contadino è rappresentato senza abbellimenti o sfumature letterarie, senza patetismi né tendenze caricaturali: in primissimo piano vi è la rappresentazione nuda e dolente della realtà, da cui il riso sgorga per il susseguirsi scomposto dei gesti e delle parole con i quali i protagonisti tentano di farsi schermo dalla condizione grottesca della vita, mentre diventa sempre più forte nello spettatore la percezione della tragicità dei fatti narrati con linguaggio e strumenti comici. Di maggiore complessità scenografica e più attenta ai modelli letterari è la Moscheta (1529), commedia in cinque atti che mette in scena le avventure di due contadini inurbati, Ruzante e sua moglie Betìa, della quale si sono innamorati anche l'agricoltore Menato e il soldato bergamasco Tonin. La situazione dà luogo a un crescendo di vicende comiche che coinvolgono i quattro personaggi e che si concludono con la scelta spregiudicata di un rapporto a tre tra Ruzante, Betìa e Menato. Nel prologo Ruzante afferma il valore supremo della "snaturalité", la naturalità, che deve essere posta a fondamento di tutte le relazioni umane e che si traduce in una fruizione gioiosa del proprio corpo. Tra gli elementi costitutivi della "snaturalité" vi è l'uso della lingua della propria terra, nello specifico il pavano, che si contrappone alla lingua artificiale, il "fiorentinesco" di origine colta e letteraria, o alla lingua affettata e piena di fronzoli, la "moscheta" (linguaggio usato da Ruzante per mimetizzarsi presentandosi travestito alla moglie). Negli anni successivi la creatività di Ruzante s'impoverì: la Fiorina (1530) riprende la trama della Moscheta, ma con minore vigore comico e polemico. In seguito cercò di misurarsi con i modelli tradizionali e classici, trasferendo nel suo mondo i temi della commedia di Plauto: documentano questa svolta le commedie Piovana (1532), Vaccaria (1533) e l'Anconitana, di datazione incerta. L'ultima opera pervenuta è la Lettera all'Alvarotto (1536), indirizzata all'amico che era solito fargli da spalla sul palcoscenico.
La tragedia classicistica
All'inizio del Cinquecento la Poetica di Aristotele divenne testo normativo dei principali generi letterari. Per la tragedia si ritenne che le riflessioni compiute dal filosofo greco fornissero "regole"(le unità di tempo, luogo e azione) da seguire comunque per il genere tragico. La prima tragedia fedele a queste norme fu proposta da G.G. Trissino. A essa seguì l'opera di altri autori: il fiorentino Giovanni Rucellai (1475-1520) con Rosmunda (1516) e Oreste (1525); il ferrarese Giambattista Giraldi Cinzio (1504-1573) con Orbecche (1541), di ispirazione senechiana; il padovano Sperone Speroni (1500-1588) con Canace (1546); il veneziano Ludovico Dolce (1508-1568) con Didone (1547) e Marianne (1565); infine, Pietro Aretino con Orazia (1546).
Gian Giorgio Trissino
Il vicentino Gian Giorgio Trissino (1478-1550) godette dell'appoggio dei papi Leone X, Clemente VII e Paolo III, per i quali compì numerose missioni diplomatiche in Italia e Germania. Fu un fiero sostenitore del classicismo letterario e artistico. Nel dialogo Il castellano (1529) affrontò la questione della lingua, rifiutando le tesi della "toscanità" e della "fiorentinità" a favore di una fusione dei vari dialetti (il "parlar comune"), sulla base del dantesco De vulgari eloquentia, da lui tradotto. Propose persino una riforma ortografica. Nell'Arte poetica (1529-62) teorizzò il sistema dei generi letterari, stabilendo norme rispettose della poetica di Aristotele e ispirate al classicismo. Le sue opere teatrali costituiscono un'applicazione dei suoi principi: la commedia I simillimi (1548), sul modello di Aristofane e di Plauto; la Sofonisba (1524), prima tragedia "regolare", in endecasillabi sciolti e fedele allo schema della tragedia greca. Scrisse inoltre la raccolta di Rime volgari (1529), interessanti per le sperimentazioni metriche; il poema epico L'Italia liberata dai Goti (1547-48).
Novella | Continua l'imitazione del Boccaccio. Principale esponente Matteo Bandello (1485-1561), le cui novelle non sono inserite in alcuna struttura generale e il loro accostamento non segue un ordine o un criterio tematico ben definito. Grande è la varietà di temi e registri: si va dal tragico al grottesco, dal comico al farsesco, dall'osceno al patetico. Si osserva comunque una certa predilezione per il genere erotico e per gli "amori sfortunati". |
Commedia | Riprende temi classici e volgari (Decameron). Esponenti principali Bernardo Dovizi da Bibbiena (1470-1520), autore della Calandria (1513), e Angelo Beolco detto Ruzante (1496-1542). Nelle sue opere (Betìa, 1524-25; Bilora, 1529; Moscheta, 1529) il mondo contadino è rappresentato senza abbellimenti o sfumature letterarie, senza patetismi né tendenze caricaturali: in primissimo piano vi è la rappresentazione grottesca e dolente della realtà, mentre diventa sempre più forte nello spettatore la percezione della tragicità dei fatti narrati con linguaggio (i dialetti padovano e bergamasco) e strumenti comici. |
Tragedia classicistica | Segue le regole formulate nella Poetica di Aristotele: unità di tempo, luogo e azione. Autore della prima tragedia "regolare" (Sofonisba, 1524) è Gian Giorgio Trissino (1478-1550), che affrontò anche la questione della lingua a favore di un parlar comune contro la fiorentinità (Il castellano, 1529). |
Anticlassicismo
Nel Rinascimento si manifestano anche proposte alternative al classicismo: esperienze plurilinguistiche e sperimentali (o persino parodistiche e grottesche come la lingua "macheronica", cioè la contaminazione di parole latine con termini volgari e viceversa) promuovono una letteratura assai lontana dal modello petrarchesco , con protagonisti eccezionali come Teofilo Folengo e Pietro Aretino.
Teofilo Folengo
Il mantovano Teofilo Folengo (1491-1544), autore del Baldus, un poema "macheronico", rielaborò la materia classica senza temere di contaminare la tradizione letteraria e senza fermarsi di fronte ad alcuna stranezza.
La vita e le opere
Gerolamo Folengo fu monaco benedettino con il nome di Teofilo. Nel 1517 (o forse 1518) pubblicò con lo pseudonimo di Merlin Cocai il Liber macaronicus, che comprendeva, tra gli altri testi, la prima versione del poema epico Baldus di 6230 versi; ne pubblicò nel 1521 una seconda edizione, aumentata e rielaborata, cui diede il titolo di Opera del poeta mantovano Merlin Cocai dei Macheronici (Opus Merlini Cocai poetae mantuani Macaronicorum). In essa, oltre al Baldus, assumono particolare importanza le egloghe della Zanitonella, che cantano l'amore non corrisposto del contadino Tonello per Zanina, e il poema eroicomico in tre libri Moschea, che narra la guerra vittoriosa delle formiche contro le mosche. Verso il 1525 uscì dall'ordine benedettino e si mise al servizio di Camillo Orsini, capitano veneziano, come precettore del figlio Paolo. Sotto lo pseudonimo di Limerno Pitocco pubblicò un poema cavalleresco in italiano, l'Orlandino (1526) e un'opera singolare, il Caos del Triperuno, composta da versi e prose in latino, in italiano e in maccheronico. Nel 1530 tornò alla vita religiosa e con il fratello Giambattista si ritirò come eremita dapprima sul monte Conero presso Ancona, poi in diverse località dell'Italia meridionale e in particolare nella penisola sorrentina; qui fece la conoscenza della poetessa Vittoria Colonna e compose il poema religioso La umanità del Figliolo di Dio (1533), oltre a numerosi epigrammi latini e al poemetto Janus (1535). Verso il 1539 fu trasferito in Sicilia; tra il 1535 e il 1540 pubblicò la terza edizione della sua opera con il titolo Macaronicorum poema. Nel 1542 fu assegnato a un monastero presso Bassano del Grappa dove due anni dopo morì. Negli ultimi anni compose alcuni testi di argomento religioso pubblicati dopo la sua morte nella raccolta Hagiomachia; postuma fu anche la quarta e ultima edizione dell'opera principale, nuovamente modificata (1552).
Il "Baldus"
Il poema al quale Folengo si dedicò per quasi tutta la vita prende spunto da materiali dei cicli cavallereschi, manipolati con estrema libertà compositiva. Baldo è figlio di Guido di Montalbano e di Baldovina, figlia del re di Francia. Egli nasce a Cipada, vicino a Mantova e, allevato da un vecchio contadino, diventa capo di una banda di violenti che si fanno valere con zuffe e percosse. Baldo e i suoi s'imbarcano per andare a combattere contro mostri, streghe e diavoli, fino a giungere all'inferno. Qui il poema s'interrompe all'improvviso: il Baldus ha i caratteri tipici di un'opera in perpetuo divenire e la trama subisce corrispondenti modificazioni; a ciò si aggiunge la decisione del poeta di non concludere il poema, lasciando volutamente spazio all'immaginario del lettore. La regola fondamentale del poema è la ricerca paradossale di sempre nuove situazioni con cui confrontarsi per sperimentare la forza espressionistica di una lingua che si regge sulla tensione fra i due suoi elementi costitutivi: da una parte la rigidità metrico-grammaticale del latino e dall'altra la magmaticità incontenibile, carnevalesca del dialetto. Ne consegue una continua demistificazione di ogni tradizione colta, bruciata non appena viene sfiorata dalla materialità, dalla fisicità grottesca che caratterizza il poema.
Pietro Aretino
Pietro Aretino (1492-1556), singolare figura di consigliere di principi e re, amico di letterati e artisti, libellista temutissimo, fu penna spregiudicata e libera, trionfalmente digiuna di ogni educazione umanistica.
La vita e le opere
Nato in povertà ad Arezzo, si trasferì a Roma (1517), dove s'impose come autore satirico, scrittore di violente "pasquinate" (sonetti satirici che ogni 25 aprile venivano attaccati a Roma alla statua detta di Pasquino, un torso ellenistico). Lasciata la città, vi tornò nel 1523 quando Giulio de' Medici, suo protettore, divenne papa Clemente VII. La pubblicazione dei 16 Sonetti lussuriosi (1526), scritti a commento delle incisioni erotiche di Giulio Romano, fece scandalo e Aretino fu costretto a lasciare definitivamente Roma. Rifugiatosi presso il campo militare dell'amico Giovanni delle Bande Nere, alla morte di quest'ultimo si ritirò per pochi mesi a Mantova presso i Gonzaga. Nel 1527 si trasferì a Venezia (dove rimase sino alla morte), circondandosi di una cerchia di amici intellettuali di risonanza europea e divenendo così un punto di riferimento culturale per tutta la città. Negli anni veneziani sperimentò quasi tutti i generi letterari; si ricordano le commedie La cortigiana (1534) e Il marescalco (1527-30), la tragedia in versi Orazia, opere cavalleresche, religiose e agiografiche (Salmi, Passione di Gesù ecc.).
I "Ragionamenti"
La fama di Aretino è legata ai dialoghi osceni di prostitute, indicati con il titolo generale di Ragionamenti o con quello di Sei giornate. Tra questi si segnalano il Ragionamento della Nanna e dell'Antonia (1534) e il Dialogo nel quale la Nanna insegna a la Pippa (1536). Nel primo testo si assiste a un rovesciamento parodistico dell'ideale percorso dell'educazione femminile codificato nel Cortegiano di B. Castiglione e nei trattati d'amore: la monaca lasciva passa allo stato di moglie infedele per giungere all'ideale perfezione della cortigiana e cioè della prostituta. Sfruttando tutte le potenzialità espressive del parlato volgare e giocando su differenti modi linguistici (l'epico, il ricattatorio, il comico, l'osceno, il devoto ecc.), Aretino perviene a una lingua perfettamente adeguata a rappresentare la sua prospettiva dissacratoria e il suo scetticismo morale. Con la stampa a Venezia (1538) del primo libro delle sue Lettere, inventò il genere letterario dell'epistolario volgare. Le Lettere, infatti, non sono semplici raccolte di epistole scritte dall'autore, ma sono state pensate come libro.
Considerato autore osceno fino a tutto l'Ottocento, Aretino è stato rivalutato dalla critica del Novecento per la vivacità stilistica dei mezzi espressivi e per l'efficace e realistica rappresentazione della società cinquecentesca. La sua tematica e la sua operazione "antiletteraria", tuttavia, si rivelano infine d'orizzonte artisticamente e culturalmente limitato.
Anticlassicismo | Plurilinguismo, lingua macheronica (la continua contaminazione di parole latine con termini volgari e viceversa) sperimentano una forma opposta al classicismo volgare. |
Teofilo Folengo | Monaco benedettino mantovano, Teofilo Folengo (1491-1544) fu autore del poema epico maccheronico Baldus, la cui regola fondamentale è la ricerca paradossale di sempre nuove situazioni con le quali confrontarsi, per sperimentare la forza espressionistica di una lingua che si regge sulla tensione fra i due suoi elementi costitutivi: da una parte la rigidità metrico-grammaticale del latino e dall'altra l'espressione carnevalesca del dialetto. |
Pietro Aretino | Pietro Aretino (1492-1556), amico di letterati e artisti, consigliere di principi e re, nei suoi Ragionamenti, scritti negli anni '30, sfruttò tutte le potenzialità espressive del parlato volgare e, giocando su differenti modi linguistici (l'epico, il ricattatorio, il comico, l'osceno, il devoto ecc.), pervenne a una lingua perfettamente adeguata a rappresentare la sua prospettiva dissacratoria e il suo scetticismo morale. |
Manierismo
Il termine "manierismo" sta a indicare una concezione estetica fondata sull'imitazione di particolari aspetti di poetiche già affermate e definite come modelli. Inizialmente utilizzato per designare una tendenza tipica dell'arte figurativa della seconda metà del Cinquecento, in ambito letterario la parola è di uso piuttosto recente: infatti solo alla metà del sec. XX alcuni critici hanno iniziato a parlare di manierismo per i cambiamenti che si manifestarono nella produzione letteraria dal 1530 fino alla fine del secolo.
Alla base del manierismo letterario in primo luogo è la teorizzazione del modello petrarchesco elaborata da Bembo: essa comportava lo sviluppo di un virtuosismo formale e concettuale da cui derivò un'infinità di minute variazioni, che accentuarono ora l'uno ora l'altro degli aspetti fusi in Petrarca in un quadro omogeneo (toni elegiaci, sottolineatura del tema del dolore, tendenza a privilegiare effetti decorativi e paesaggistici). Appartengono al manierismo il piacere del paradosso di Berni, l'accentuato autobiografismo eroicizzante di Cellini, la prosa raffinata di Giovanni Della Casa, il controllo stilistico di Agnolo Firenzuola, la bizzarria del Lasca e di Gelli e soprattutto la grande poesia di Tasso.
Giovanni Della Casa
Giovanni Della Casa (1503-1556) fu una delle figure più rappresentative del petrarchismo manierista.
La vita e le opere
Nativo del Mugello, dopo aver studiato lettere a Bologna, Firenze e Padova, nel 1534 decise di trasferirsi a Roma. Lì intraprese una felice carriera ecclesiastica che lo portò a diventare arcivescovo di Benevento (1544) e nunzio apostolico a Venezia (1549). Durante il soggiorno veneziano, istituì il tribunale dell'Inquisizione in Veneto e compilò il primo Index librorum proibitorum (1548). Nel 1555 papa Paolo IV lo chiamò a Roma come segretario di Stato.
D'argomento politico sono le due Orazioni in prosa volgare rivolte alla Repubblica di Venezia e a Carlo V. Le Rime, edite postume nel 1558, vengono solitamente considerate il più bel canzoniere italiano tra Ariosto e Tasso. Sono 66 componimenti di stile petrarchesco strutturati in modo organico e unitario. La loro originalità rispetto all'illustre modello risiede nella tematica, perché al tema amoroso Della Casa preferisce i temi della disillusione, della vanità del mondo, del rovello morale e dei conflitti tra reale e ideale; nella struttura stilistico-metrica, perché il discorso viene articolato superando spesso l'unità del verso e della strofa. In questo modo i concetti e le immagini non sono più confinati negli spazi tradizionali, ma fluiscono liberamente imponendo al testo un ritmo nuovo e suggestivo.
Il "Galateo"
Il Galateo (1558, postumo), considerato il capolavoro di Della Casa, è un trattato sulle buone maniere e sul corretto modo di comportarsi in società. L'opera deve il titolo (diventato sostantivo per antonomasia) al nome latinizzato del suo committente: il vescovo di Sessa Galeazzo (Galatheus) Florimonte. Nel testo un vecchio, illetterato ma saggio, educa un giovane alle buone maniere da tenere a tavola, nelle riunioni conviviali, nel vestire, nelle conversazioni. In una prosa raffinata il Galateo codifica così, all'interno degli ideali umanistici della cortesia e della misura, norme di comportamento improntate all'ideale classico del giusto mezzo.
Berni e il modello burlesco
Francesco Berni (circa 1497-1535), con un sistema retorico dominato da figure quali l'illusione, l'amplificazione caricaturale, la parodia e l'elencazione, diede l'avvio a una tradizione di poesia satirica e demistificatoria.
La vita
Nato a Lamporecchio in Val Nievole, ebbe la sua prima educazione letteraria a Firenze. Nel 1517 si trasferì a Roma presso il cardinal Bernardo Dovizi detto il Bibbiena e poi da Angelo Dovizi, protonotaio apostolico. Quando, nel 1522, divenne papa il fiammingo Adriano VI, Berni, che lo aveva duramente attaccato nelle sue poesie, dovette lasciare Roma. Ritornatovi dopo l'elezione di Clemente VII, passò successivamente al servizio del vescovo di Verona Matteo Giberti. Nel 1532, a Firenze, servendo il cardinale Ippolito de' Medici e divenuto intimo del duca Alessandro de' Medici, fu coinvolto nelle lotte che opponevano Ippolito al duca Alessandro. In quelle drammatiche circostanze, morì avvelenato.
Poesia e parodia
La prima opera di valore di Berni è il dramma rusticale in ottave La Catrina (scritto intorno al 1516 ma edito postumo nel 1567), che narra il contrasto tra i villani Beco e Mecherino per il possesso della bella Catrina. Agli anni 1524-31 risalgono il Dialogo contra i poeti (1526), rifacimento, in forma burlesca (cioè ribelle, parodistica) e toscana dell'Orlando innamorato di M.M. Boiardo, e soprattutto la maggior parte dei suoi celebri Capitoli in terza rima. Questi, insieme a sonetti satirici, furono pubblicati in edizioni incomplete a partire dal 1537. Nel clima dominato dal classicismo di Bembo, Berni fu, insieme all'Aretino, il più violento demistificatore dell'edonismo letterario cinquecentesco. Le sue radicali dichiarazioni di poetica, unitamente ai suoi versi aspri e dissacratori, esprimono un atteggiamento decisamente antiletterario. All'interno del capitolo (componimento poetico con forma metrica derivata dalla terzina dantesca) Berni loda oggetti poetici paradossali come l'orinale, la peste, l'ago, le pesche, il debito, il caldo del letto, le anguille. Le realtà più miserabili della condizione umana vengono così esaltate in un linguaggio vivacissimo e plebeo in cui dominano, arguti e frequenti, i doppi sensi osceni. La codificazione degli elementi stilistici che compongono la poesia satirica di Berni è stata così forte da determinare la nascita di una vera e propria "maniera".
Agnolo Firenzuola
Agnolo Firenzuola, pseudonimo di Michelangiolo Giovannini (1493-1543) per la costante ricerca di una forma dall'andamento musicale, ricca di artifici, sensuale e festosa, si impose come uno dei maestri del manierismo.
Nato a Firenze, entrò nell'ordine monastico dei Vallombrosani, in cui ricoprì importanti incarichi. A Roma, dove si era trasferito nel 1518, entrò in contatto con P. Aretino, A. Caro, G. Della Casa. Tradusse le Metamorfosi dello scrittore latino Apuleio, alle quali egli diede il titolo di Asino d'oro (1525). Fra il 1523 e il 1525 compose i Ragionamenti, originale raccolta costituita da novelle di contenuto erotico e comico, scritte in una lingua vicina al parlato, e da dotti e raffinati interventi sulla natura d'amore, per i quali è usato un linguaggio ricercato e fortemente letterario. L'opera rimase incompiuta. Scrisse due commedie, La Trinunzia e I lucidi (1549, postumo) e stese La prima veste dei discorsi degli animali (circa 1540), libero adattamento di antiche favole indiane del Pañcatantra conosciute da Firenzuola attraverso le versioni latine e spagnole. In quest'opera la sua vena narrativa si realizza in modo più limpido e felice che nei Ragionamenti e si concretizza in una serie di favole e di apologhi raccontati con garbo in una lingua semplice, ma sempre stilisticamente controllata. Compose anche il Celso, dialogo delle bellezze delle donne (1548).
Bizzarria manierista: Lasca e Gelli
Il fiorentino Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca (1503-1584) nel 1540 fondò l'Accademia degli Umidi, assumendo il soprannome di Lasca. Nel 1582 aderì alla nascente Accademia della Crusca. Fu autore di farse (Il frate; La giostra; La Monica, andata perduta) e di 7 commedie, tutte precedenti il 1566 (La gelosia; La spiritata; La strega; La pinzochera; La Sibilla; I parentali; L'arzigogolo). In esse la soggezione ai modelli del teatro classico è riscattata dall'osservazione di un piccolo mondo cittadino, condotta con grazia e arguzia efficaci. L'opera più nota è la raccolta di 22 novelle intitolata le Cene e divisa in tre parti. La prima fu pubblicata solo nel 1756, la seconda nel 1743, la terza, incompleta, nel 1815. Secondo il modello del Decameron, una cornice inquadra le novelle, che si immaginano narrate in tre sere da una compagnia di cinque giovani e di cinque ragazze. Di argomento vario (beffe, storie comiche e tragiche, avventure amorose), le novelle reinterpretano il motivo della burla boccaccesca con sensualità ed estro caricaturale. Il Lasca scrisse anche numerose rime sul modello burlesco del Berni, del quale curò un'edizione delle opere, e fu tra i primi a sperimentare il poema eroicomico con la Guerra de' mostri (1547).
Il fiorentino Giambattista Gelli (1498-1563), autodidatta, frequentò la corte medicea di Cosimo I e tenne tra il 1541 e il 1563 una serie di lezioni pubbliche su passi dell'opera dantesca, raccolte poi sotto il titolo di Letture sopra la "Commedia" di Dante. Oltre a questa produzione critica ed esegetica compose due commedie, La sporta (1543) e Lo errore (1553), entrambe di derivazione machiavelliana, opere di riflessione morale ma di sano gusto popolare come I ragionamenti di Giusto bottaio (1548) e soprattutto La Circe (1549) e, ancora, un trattato sulla questione della lingua, Ragionamento sopra le difficoltà di mettere in regole la nostra lingua (1551), in cui, contro le teorie di Bembo, sostenne la superiorità del fiorentino parlato su quello letterario e sulla lingua cortigiana da esso derivata.
Il Manierismo in sintesi
Manierismo | Si sviluppa a partire dal 1530 una tendenza, sorta in ambito artistico, che privilegia, in letteratura, il virtuosismo formale con accentuazione di toni elegiaci, effetti decorativi e paesaggistici, tema del dolore. Il petrarchismo ne fu uno degli aspetti più manifesti. |
Giovanni Della Casa | Giovanni Della Casa (1503-1556) fu ecclesiastico di carriera. Le Rime, edite postume nel 1558, sono considerate il più bel canzoniere italiano tra Ariosto e Tasso. Il Galateo, anch'esso postumo (1558) in una prosa raffinata codifica, all'interno degli ideali umanistici della cortesia e della misura, norme di comportamento improntate all'ideale classico del giusto mezzo. |
Francesco Berni | Francesco Berni (circa 1497-1553), al servizio di ecclesiastici famosi e dei Medici, morì avvelenato. Nei suoi Capitali, pubblicati a partire dal 1537, le radicali dichiarazioni di poetica, unitamente ai versi aspri e dissacratori, esprimono un atteggiamento decisamente antiletterario. |
Agnolo Firenzuola | Pseudonimo del fiorentino Michelangiolo Giovannini (1493-1543), monaco vallombrosano, compose tra il 1523 e il 1525 i Ragionamenti, originale raccolta costituita da novelle di contenuto erotico e comico, scritte in una lingua vicina al parlato, affiancata però da dotti e raffinati interventi sulla natura d'amore, per i quali il linguaggio diventa ricercato e fortemente letterario. |
Lasca | Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca (1503-1588), fiorentino, scrisse le novelle delle Cene (pubblicate postume, 1743, 1756 e 1815) di argomento vario (beffe, storie comiche e tragiche, avventure amorose), che reinterpretano il motivo della burla boccaccesca con sensualità ed estro caricaturale. |