cultura
IndiceLessico
(antico, coltura), sf. [sec. XIV; dal latino cultūra, da cŭltus, culto].
1) L'insieme delle conoscenze intellettuali che una persona possiede; dottrina, istruzione: avere una buona cultura, farsi una cultura. In particolare, conoscenza approfondita di una determinata materia: cultura letteraria, filosofica. Per estensione, l'insieme delle tradizioni e delle nozioni acquisite da un popolo o dall'umanità intera nei vari rami del sapere: cultura italiana; diffondere la cultura; il mondo della cultura, in senso concreto, il complesso degli intellettuali, di coloro che in una società costituiscono il gruppo culturalmente più significativo. Anche come sinonimo di civiltà: cultura megalitica; culture andine.
2) Disus., coltivazione, allevamento.
3) Antico, culto religioso.
Filosofia
In generale, la formazione dell'uomo attraverso l'affinamento del suo spirito; in senso più specifico, il processo che conduce l'uomo a realizzarsi in ciò che propriamente costituisce il suo essere, ossia il complesso delle sue realizzazioni che, da un punto di vista soggettivo, si manifestano negli usi e costumi di un popolo o di un'epoca e, da un lato oggettivo, nei prodotti fabbrili, artistici e intellettuali. In senso individuale i Greci identificavano la cultura con la paidéia, cioè l'educazione proveniente dalle “buone arti” (poesia, eloquenza, filosofia, ecc.), capaci di esprimere nell'uomo ciò che egli è e deve essere. Un risultato che poteva provenire solo da uno stretto connubio dell'uomo con la filosofia, l'unica capace di dargli la conoscenza di se stesso e del mondo e di guidarlo nella ricerca della verità; altrettanto necessaria è però all'uomo una stretta conoscenza con la vita della comunità, entità sociale che sola consente all'uomo di realizzarsi: questa esigenza trova la sua massima realizzazione nella di Platone ed è ammessa anche da Aristotele quando afferma che l'uomo è per natura “un animale politico”. I Romani, a loro volta, sintetizzarono il concetto di cultura nel termine humanitas, insistendo su quanto è idoneo a esprimere l'uomo nella sua interezza. In questo concetto classico sono escluse sia l'attività meramente utilitaristica (arti, mestieri, lavoro manuale) sia quella che ha come oggetto il destino ultramondano dell'uomo. Si tratta di un ideale aristocratico e naturalistico assieme, che sceglie la “via teoretico-contemplativa” per raggiungere la sapienza, meta ultima della cultura. Il Medioevo accetta il carattere aristocratico della cultura ma respinge l'atteggiamento naturalistico e fa delle arti del trivio (grammatica, retorica, dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica) un gradino perché l'uomo s'innalzi alla conoscenza della vita ultramondana. E sarà compito precipuo della filosofia rendere accessibile all'uomo le verità religiose. Dove la filosofia non è più ricerca autonoma dell'uomo, ma diventa strumento alla comprensione del mondo soprasensibile, un campo adatto e tutto aperto alla “via contemplativa”, quale preparazione alla contemplazione beatifica dell'anima in Dio. L'elemento naturalistico fu invece rivalorizzato dal Rinascimento, nel tentativo di riscoprire l'ideale classico della cultura nella sua interezza e di attingere la vera sapienza umana, in cui l'uomo realizza pienamente se stesso (Pico della Mirandola). Per la prima volta partecipa a questa realizzazione anche il lavoro, finalmente riscattato da un presunto carattere puramente utilitaristico. Ciò nonostante la cultura rinascimentale rimase eminentemente aristocratica. Saranno gli illuministi a toglierle questo carattere, sia estendendo la critica razionale a ogni oggetto suscettibile d'investigazione sia dando alla cultura la massima diffusione quale “strumento di rinnovamento della vita sociale e individuale”. Espressione massima di questa tendenza fu l'Enciclopedia, ma tutta la produzione illuministica ebbe questa finalità, che non fu soffocata nemmeno dal riflusso reazionario e antiliberale del romanticismo. L'importanza attribuita da J. J. Rousseau e dall'illuminismo tedesco all'educazione e alla formazione dell'individuo contribuì a mettere in primo piano la nozione di “cultura” in opposizione a quella di “civiltà”. In tedesco con il termine Kultur si indicava l'espressione della natura umana e con la parola un insieme di valori e costumi perlopiù convenzionali ed esteriori. L'opposizione fra Kultur e Zivilisation, già decisiva in Kant, continuò nella storia del pensiero tedesco (F. Schiller, J. G. Fichte, A. Schopenhauer, F. Nietzsche). Al principio del secolo XX questa contrapposizione fu elaborata nelle Considerazioni di un impolitico (1918) di T. Mann e in Tramonto dell'Occidente (1918-22) di O. Spengler. Vasti spazi acquistava la cultura con le nuove discipline scientifiche, che presto si rivelavano elementi indispensabili alla formazione di una vita umana equilibrata e ricca. Per K. Marx la cultura è l'elemento sovrastrutturale necessario a conservare l'ordine sociale derivato dalla ripartizione e proprietà dei mezzi materiali di produzione. A. Gramsci riprese l'approccio critico marxista e introdusse il concetto di “egemonia culturale” per identificare quei processi di dominio da parte di una classe che impone la propria visione del mondo attraverso le pratiche culturali. All'inizio del secolo XX l'avvento massiccio dell'industrializzazione faceva decadere l'enciclopedismo incolpandolo di offrire molte conoscenze, ma non la “conoscenza”; in realtà essa obbediva all'esigenza di avere uomini preparati in un ramo specifico dello scibile umano, e precisamente quello che serviva alla produzione. Si formavano schiere di specializzati in un ramo ristretto, ma privi di una cultura generale che permettesse loro di risolvere i problemi che sconfinavano dalle loro ristrette conoscenze, creando un pericoloso squilibrio entro la stessa unità inscindibile dell'uomo individuo e una grave incomprensione con i propri simili. Di qui la necessità di ricomporre ancora una volta l'equilibrio fra le esigenze della civiltà industriale e quelle di una cultura generale estrinsecata in nuove forme capaci di sanare il grave dissidio: è il campo specifico della sociologia culturale. Nel secolo XXI la cultura non si identifica esclusivamente con le tradizioni scritte, ma con le nuove tecnologie multimediali (ipertesti, immagini e suoni). I grandi mezzi di comunicazione divengono quindi responsabili della cultura di massa.
Sociologia: generalità
Derivazione del latino colĕre (coltivare, prendersi cura), la parola cultura indica – nelle prime comunità civilizzate – la semplice “coltivazione del suolo”. Più tardi, assunse il significato di affinamento dello spirito e delle conoscenze, prerogativa delle classi dirigenti. Di qui un valore apprezzativo del termine, ma anche una sua connotazione come fattore di distinzione (e/o discriminazione) sociale. Per i sociologi, la nozione di cultura ha un'estensione assai maggiore di quella – ancora dominante nell'uso comune – che associa cultura a istruzione e relativo possesso di un importante privilegio di status. Una cultura sociale esprime perciò tendenzialmente il modo di vivere dell'insieme dei membri di una società e non va ridotta alle specifiche manifestazioni artistiche, scientifiche o etico-religiose di quella determinata comunità. Contro ogni interpretazione biologistica, va sottolineato come una cultura sia sempre il prodotto di un processo di apprendimento e non qualcosa di innato, come le caratteristiche somatiche ereditate geneticamente. La diffusione di una cultura fuori del proprio alveo di origine – fenomeno di eccezionale portata nell'età contemporanea, grazie allo sviluppo delle comunicazioni e alle potenzialità tecnologiche dei grandi mass media – rende possibile processi di trasmissione, interazione e scambio fra comunità diverse. Questi processi producono effetti imponenti di mutamento sociale, che possono essere di segno diverso: di incontro fecondo, di conflitto, di omologazione di una cultura a un'altra che si imponga come dominante (è il caso di alcuni esempi di colonialismo), sino alla distruzione della cultura soccombente (genocidio culturale). La cultura di una comunità è tanto più efficace nel condizionare i comportamenti individuali quanto più essa è interiorizzata. Alcune manifestazioni giudicate del tutto naturali e proprie della cosiddetta cultura materiale – dalle abitudini alimentari ai comportamenti sessuali, dalle tecniche agricole all'esercizio del gioco o alle più diverse pratiche della corporeità – sono in realtà aspetti fondamentali di una cultura socialmente trasmessa. Analogamente, valori religiosi ed etici, canoni del gusto e persino principi di decoro o ripugnanza sono impregnati di cultura molto più di quanto non sia soggettivamente percepito dai membri di una collettività. Di qui i rischi di etnocentrismo (esasperata rivendicazione dei propri caratteri distintivi che porta a intendere i comportamenti o i valori dell'altro come innaturali) e di conflitto culturale, sino alle derive razzistiche. Va invece affermato – pur senza enfatizzare il significato di relativismo culturale – che una cultura rappresenta un insieme complesso e articolato di rappresentazioni, credenze, simboli, norme e valori che possono dar vita a differenti modelli di comportamento. Analogamente, soprattutto nelle società complesse, tendono a prodursi culture proprie di gruppi che sono più o meno in consonanza con i modelli dominanti nella più ampia società. In questo caso parliamo di subcultura (per esempio subcultura giovanile, o cattolica, o impiegatizia), senza che al termine vada attribuito alcun significato svalutativo. Una cultura di gruppo che maturi nel contesto di un conflitto – e che manifesti caratteri di protesta o di sfida nei confronti della cultura sociale dominante – può essere invece definita come controcultura.
Sociologia: cultura di massa
L'avvento della cultura di massa è di solito collegato alla trasformazione delle masse contadine in proletariato industriale urbano – già avvertita da K. Marx, ma anche da pensatori non rivoluzionari (G. Le Bon, J. Ortega y Gasset), come il più sconvolgente fattore di perturbazione del vecchio ordine sociale –, che avrebbe provocato l'esaurimento delle vecchie culture di appartenenza e un diffuso fenomeno di omologazione di valori e stili di vita. Processo che anche autori più recenti – come T. W. Adorno e altri sociologi francofortesi – hanno interpretato criticamente per lo squilibrio di potere generatosi fra i pochi capaci di comunicare idee e modelli di comportamento e i molti teoricamente condannati alla nuova sudditanza del conformismo. In realtà, gli studi sul sistema della comunicazione e sull'industria culturale (M. McLuhan, E. Morin), pur confermando molte preoccupazioni della sociologia critica, evidenziano la complessità e la problematicità del circuito sociale della comunicazione. Si pensi soltanto ai diversi e talvolta contraddittori effetti collettivi di fenomeni propri della cultura di massa, che vanno dalla gestione del tempo libero al rapporto con lo spettacolo, nell'età dell'egemonia televisiva, sino alla pratica sportiva diffusa.
Sociologia: cultura popolare
L'insieme dei prodotti consci e inconsci creati dal popolo, che possono essere identificati nella lavorazione dei materiali, nelle poesie e nelle canzoni tramandate oralmente, nei valori e modelli culturali predominanti nel gruppo sociale preso in considerazione. La cultura popolare si distingue per il numero limitato degli individui che vi partecipano e che condividono gli stessi schemi comportamentali. Questo tipo di società, chiamata anche folk society, è caratterizzato dal fatto che, tramandando i prodotti culturali oralmente (a parte i manufatti e gli attrezzi da lavoro), attribuisce un grande prestigio agli anziani. Altra caratteristica importante è la tendenza del pensiero popolare a trattare la natura in maniera personale (animismo), contrariamente ad altri tipi di società cosiddette “colte” e “civilizzate” che razionalizzano ogni processo conoscitivo. Le conseguenze più immediate nell'ambito della produzione culturale sono le credenze popolari e la narrazione delle fiabe. La cultura popolare rappresenta quindi un tramite di formazione assai efficace pur nella non-istituzionalità dei suoi modi concreti di essere.
Etnoantropologia: la cultura come caratteristica dell'uomo sociale
Il concetto di cultura è indubbiamente quello più discusso e controverso nella storia del pensiero antropologico. Ne sono state elaborate innumerevoli definizioni, che è qui impossibile ricordare. Tuttavia, assumendo come punto di riferimento la prima definizione in senso antropologico del concetto, se ne possono delineare le articolazioni principali. Nella sua opera Primitive Culture (1871), l'antropologo evoluzionista Edward Burnett Tylor così definisce il concetto di cultura: “La cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità o abitudine acquisita dall'uomo in quanto membro di una società”. La definizione di Tylor è il punto di riferimento classico dell'antropologia culturale. Punto di riferimento cronologico, perché il 1871 è la data di nascita della disciplina; punto di riferimento logico, perché quella definizione si offre a precisazioni, riformulazioni, ampliamenti o restringimenti. L'espressione “insieme complesso” sottolinea uno degli aspetti più importanti della definizione tyloriana: il mescolare. Il costume è messo insieme alla conoscenza, all'arte, alla morale ecc. e il “qualsiasi altra capacità…” spiega qual è l'elemento che le parti della cultura hanno in comune e giustifica il mescolamento: come il costume, la conoscenza, il diritto ecc. non sono trasmessi geneticamente ma acquisiti socialmente. La definizione supera la separazione in classi, ceti o strati sociali; la cultura non emerge da alcuni ambiti esclusivi di attività intellettuale, propri di alcuni ceti sociali, e neppure, ampliando il concetto, è appannaggio esclusivo di alcune società, in opposizione a quelle che, proprio perché ritenute prive di cultura, venivano relegate all'ambito della natura, erano cioè società selvagge. Essa, “intesa nel suo ampio senso etnografico” accomuna tutte le società umane (così come tutti i livelli interni a una società). Questa accezione apre la via alla riflessione antropologica: perché sancisce che la cultura è una caratteristica dell'uomo sociale in quanto tale, quale che sia il luogo in cui si trova e il modo in cui si è organizzato. La cultura è qui, da noi, come è là, presso gli altri. Da ciò deriva l'importanza del viaggio etnografico, del viaggio verso forme diverse di cultura. Tuttavia, come vedremo, ha una sua ragionevolezza il sospetto che proprio dal viaggio etnografico verso le altre culture abbia avuto origine una logica opposta a quella del mescolamento che è alla base della definizione tyloriana di cultura.
Etnoantropologia: la dilatazione del concetto di cultura
Il concetto antropologico di cultura confuta la pretesa di universalità, abbattendo la barriera nei confronti dei costumi, mescolati appunto alle arti liberali e alla filosofia sulla base della comune matrice sociale. Attraverso questa riformulazione del concetto di cultura, gli antropologi possono iniziare a dare ordine, funzione e significato ai costumi che incontrano nel loro viaggio etnografico; non solo, ma una volta riconosciuta la comune base sociale alla nostra e alle altrui culture, lo studio di queste ultime non può non rivelarsi prezioso anche negli effetti di ritorno, cioè come riflessione su di noi. Il concetto tyloriano costituisce la base di sviluppo dell'antropologia nel nuovo secolo. Le definizioni successive hanno carattere descrittivo: a) cercano di individuare i contenuti che costituiscono l'ambito oggettivo della cultura (abiti e comportamenti sociali; i prodotti di queste attività; e, ancora sullo sfondo, il sistema di valori, credenze e regole di comportamento condivise dai membri della società); b) affermano esplicitamente il carattere di acquisizione sociale della cultura (sottolineando la differenza fra eredità biologica e eredità sociale: la cultura si apprende. Sia Franz Boas sia Bronislaw Malinowski, fondatori delle due maggiori scuole antropologiche del Novecento, respingono tuttavia il punto di vista storico-evolutivo di Tylor. Viene negata la possibilità di riportare tutte le culture a uno schema unico e universalmente valido di sviluppo culturale e di determinarne le fasi secondo leggi uniformi per ciascuna. Boas afferma la necessità di studiare le culture nel loro particolare contesto storico, evitando parallelismi fittizi e privi di fondamento; le generalizzazioni cui può pervenire l'antropologia sono di portata limitata e comunque sempre da condurre restando legati alla concretezza. Malinowski ritiene che ogni cultura sia un sistema chiuso, un complesso di elementi legati fra loro da relazioni funzionali. Ogni istituzione deve essere studiata nella sua funzione specifica. Entrambi riconoscono la pluralità delle culture. Rispetto a Tylor, che parla di cultura al singolare, come patrimonio di tutta l'umanità, il concetto si è ampliato in concetto collettivo, che indica una molteplicità di culture diverse e indipendenti. Oggetto dell'antropologia diventa quindi la singola cultura. Essa esiste nella sua individualità empiricamente osservabile in quanto portata da un singolo gruppo, un popolo, una collettività ecc. Questo secondo passaggio semantico del concetto, questa sua dilatazione, segna l'avvio della fase delle grandi imprese etnografiche, tese a ricostruire la cultura di un popolo, sulla base del principio dell'osservazione partecipante, parallelamente al consolidarsi della concezione di cultura come idea generale, concetto esplicativo potente grazie al quale gran parte dei comportamenti umani può essere compresa (in opposizione alla natura o a partire da questa), e come idea particolare, la cultura americana, quella filippina, quella russa ecc., attraverso la quale comprendere le regolarità del comportamento e della produzione di coloro che hanno aderito a una tradizione comune (Kluckhohn). Per dirla con le parole di J. Clifford, ha inizio la “collezione di culture”. Da questo momento in avanti, la “ricerca sul campo” diventa un luogo pratico e teorico sempre più complesso, passando da fase osservativa semplice e neutra delle culture a fulcro epistemologico attorno al quale ruoterà tutto il processo di costruzione del sapere antropologico. Tuttavia, appare importante soffermarsi su questo passaggio e sul cambiamento di logica che esso sembra esprimere. Secondo R. Wagner, “L'antropologia è lo studio dell'uomo come se vi fosse la cultura. È stata creata dall'invenzione della cultura, sia in senso generale, come concetto, sia in senso specifico, attraverso l'invenzione di particolari culture”. È possibile leggere questa affermazione come un modo di sottolineare che l'antropologia si è consolidata “inventando” le differenze, cioè marcando una distanza fra noi e gli altri per costruirsi un legittimo oggetto di studio? Se teniamo valida come punto di riferimento l'operazione di mescolamento fra la cultura che c'è qui da noi e quella che c'è altrove, possiamo evidenziare come essa esprima una logica della continuità fra noi e gli altri: vale a dire noi siamo gli altri alla massima potenza, gli altri sono dei noi in tono minore… Questa logica si era espressa, altresì, nel tentativo di costruire delle classificazioni cronologiche dell'umanità: sulla scia dei tentativi dell'Illuminismo francese di scansione cronologica dell'umanità secondo le fasi selvaggi-barbari-civiltà, gli antropologi evoluzionisti (Morgan e Tylor, per esempio) avevano ripreso e perfezionato i tentativi in questa direzione. In tal senso vanno intesi gli schemi evolutivi della civiltà e della cultura di seconda metà Ottocento.
Etnoantropologia: pluralità e discontinuità culturale
A partire dai primi decenni del Novecento, invece, parallelamente all'aumento delle conoscenze etnografiche e alla dilatazione del concetto di cultura, che ha portato al riconoscimento della molteplicità delle culture (e anche all'affermarsi dell'idea di cultura come di una “cosa” empiricamente osservabile) non si assiste a un perfezionamento (né a una conferma, poiché vengono nettamente rifiutati) degli schemi cronologici degli evoluzionisti; si assiste – ed è importante sottolinearlo – a una brusca rottura di questa logica: anziché proseguire lungo la via della logica della continuità fra noi e gli altri, alla base dell'operazione tyloriana di mescolamento, che avrebbe dovuto portare a un adeguamento degli schemi teorici alla pluralità culturale sempre più conosciuta, si fa strada la logica opposta: quella della discontinuità. Il riconoscimento della molteplicità culturale; le teorie del relativismo culturale; il concetto di cultura come “oggetto”; l'urgenza della salvaguardia culturale (di mondi ormai in via di estinzione per l'inesorabile avanzare del progresso, dell'Occidente; l'avvio appunto della “collezione di culture”: queste sono tutte derivazioni dell'affermarsi della logica della discontinuità, che risulterà infatti dominante nelle scienze sociali (e nell'antropologia in particolare) del Novecento. Tutta la massiccia attività degli antropologi di costruire tipologie per rendere conto delle differenze culturali, appunto, appare come la costruzione di differenze, laddove esisterebbero solo continuità. Ciò ha condotto sul piano empirico al rafforzamento dell'immagine di un pianeta frazionato in tante culture distinte, ciascuna portata da un popolo (nel tempo) e localizzata nello spazio, e sul piano teorico ha trovato espressione in un deciso schiacciamento degli schemi interpretativi delle differenze culturali, che sono regrediti a una forma elementare: quella dell'opposizione dicotomica fra le società tradizionali da un lato e le società moderne dell'altro. Così come predomina l'idea (piuttosto tenace in Lévi-Strauss) che le società primitive, tradizionali, premoderne siano mondi chiusi, integri, puri e, nello stesso tempo, fragili, destinati soltanto, di fronte all'avanzata della modernità occidentale, a resistere e cercare di conservare disperatamente la propria identità oppure definitivamente sparire. Ovunque nel mondo - sostiene J. Clifford - “le popolazioni indigene hanno dovuto fare i conti con le forze del “progresso” e dell'unificazione “nazionale”; ma “i risultati sono stati sia distruttivi sia inventivi”; la “sozzura” che, secondo Lévi-Strauss, l'espansione dell'Occidente ha “gettato sul volto dell'umanità”, appare a Clifford un “fertilizzante per nuovi ordini di differenza”. Questa visione di un futuro assai meno tragico e possibilista comporta il riconoscimento che anche “altrove” – negli “angoli di mondo” non più tanto nascosti e anzi invasi dalla “sozzura” della modernità – si fa storia, si può produrre del “nuovo” e si aprono “sentieri della modernità” specifici, peculiari, alternativi.
Etnoantropologia: la cultura come relazione e costruzione sociale
Con il consolidarsi dell'antropologia, si avviò il periodo – dagli anni Venti agli anni Settanta, circa – in cui le condizioni della ricerca antropologica risposero all'“ideale” teorico e metodologico: lo studio di piccole comunità relativamente isolate, categorizzabili come tante “culture”, rappresentabili attraverso la monografia etnografica, sulla base del concetto di cultura inteso, come scrive Clifford Geertz, come il “modo-di-vita-di-un-popolo”. Comunità, nazioni, civiltà, popolazioni (e in seguito anche regioni e gruppi etnici, classi e categorie sociali, per esempio “i giovani”) tutti dovevano avere una cultura: il compito dell'antropologo era, “andare là e poi tornare qui a raccontarci che cultura era”. Questa concezione dell'antropologia è espressione dell'azione della “ragione tassonomica” (come ha sottolineato Jean Luop Amselle) che caratterizza il rapporto che l'Occidente ha impostato con le altre società sin dal sec. XVIII e che costituisce il comune denominatore di tutte le modalità di rappresentazione – e, quindi, di categorizzazione e classificazione – dell'alterità. A partire, all'incirca, dagli anni Sessanta-Settanta, sono cambiati il mondo e le culture ed è cambiato anche il modo di intendere il mondo e le culture, è cambiata l'antropologia, sono cambiati i Paesi e i popoli che l'antropologia studia, e l'Occidente ha avviato tuttavia nuove modalità di organizzare, sempre a suo uso e consumo, il rapporto con le altre società, che prevedono per esempio l'inserimento in un circuito turistico molto redditizio delle popolazioni esotiche (e dei luoghi e delle tradizioni), o che prevedono la trasformazione dell'altro in un identico qualora questi si rechi presso una società occidentale. L'antropologia ha in modo parziale iniziato a esaminare queste dinamiche, che non possono non influenzare pesantemente anche il contesto antropologico, sia quello teorico, in riferimento alla nozione di cultura, che si è rivelata non più adeguata all'analisi di processi complessi, come l'ibridazione culturale, sia quello empirico, il cosiddetto “campo”, che non è più il luogo “puro” dove incontrare i nativi originari, ma una eventuale “tappa” di un itinerario decisamente più articolato e “contaminato”. La cultura appare essere, allora, relazione e costruzione sociale. Non è un sistema originario, essenziale, immutabile, ma un insieme di processi mutevoli, dinamici, instabili, come l'identità. Ciò equivale ad affermare che una nozione di cultura come oggetto dotato di visibilità, una sorta di massa che si impone agli individui determinandone azioni, pensieri e credenze, ricostruibile nelle sue parti costituenti e rappresentabile come un modello, una totalità, un tipo, appunto, è fonte di fraintendimenti teorici e di guai politici, è un “imbarazzo” dal quale l'antropologia, da quando ne è consapevole, cerca con difficoltà di togliersi. Le culture, viceversa, non sono “frutti puri”, ma sono incrociate, contaminate l'una con l'altra, degli ibridi, insomma, che possono essere in qualche aspetto – mai nell'insieme – compresi solo partendo da una prospettiva che adotti una “logica meticcia”. Ciò non equivale forse a una riproposizione del mescolamento che abbiamo individuato alla base della prima definizione del concetto? Come scrive C. Geertz: “Penso che vi siano molte cose vere. Una è che vi sia stato un gran mescolamento di generi e di stili nella vita intellettuale di questi ultimi anni, e che questa confusione continui imperterrita”. Nell'era della globalizzazione i concetti di cultura e di diversità culturale sono divenuti temi fondamentali per gli antropologi. Nelle società complesse le esperienze culturali divengono sempre più differenziate. Lo svedese U. Hannerz, studioso di antropologia urbana e di globalizzazione, afferma che non sono più i “territori” a essere i contenitori delle culture, ma che esse riguardano prima di ogni altra cosa le relazioni sociali e che “appartengono ai luoghi solo indirettamente e senza una necessità logica”.
Paletnologia: le culture preistoriche
Le scienze preistoriche, che si propongono di ricostruire idealmente la natura, la fisionomia e lo svolgersi delle manifestazioni delle attività umane che si sono succedute antecedentemente ai tempi storici, hanno inquadrato la preistoria dell'umanità in varie civiltà, costituenti grandi complessi che si sono susseguiti cronologicamente dal Pleistocene antico e che comprendono a loro volta serie più o meno numerose di aspetti secondari, detti culture preistoriche, distribuite in senso cronologico fino dall'alba della storia e in senso spaziale in tutto il mondo. La divisione generale ammessa da tutti gli studiosi comporta innanzi tutto due grandi fasi cronologico-culturali, chiamate Età della Pietra, la più antica, ed Età dei Metalli, quella successiva. A loro volta si distinguono, per l'Età della Pietra, il periodo più antico col nome di Paleolitico, quello intermedio di transizione col nome di Mesolitico e quello più recente col nome di Neolitico. L'Età dei Metalli viene suddivisa in Eneolitico, Età del Bronzo ed Età del Ferro. Nell'ambito di ognuna di queste grandi classi, è possibile individuare una moltitudine di aspetti minori, che prendono solitamente il nome da quello delle località nelle quali si sono rinvenuti per la prima volta i reperti più tipici di ogni cultura. Per il Paleolitico dell'Europa è consuetudine distinguere nella fase più antica (Paleolitico inferiore) le industrie diversamente caratterizzate (su ciottoli o su schegge) che precedono cronologicamente la comparsa dei complessi a bifacciali; questi ultimi sono a loro volta suddivisi in Acheuleano inferiore, medio, superiore e finale. Più o meno parallelamente sembrano distinguersi, in talune aree, complessi privi di (o con pochissimi) bifacciali (come per esempio il Tayaziano, il Clactoniano), anche se non vi è un generale consenso tra gli studiosi sulla reale autonomia culturale di alcune di queste denominazioni. Nel corso del Paleolitico medio si sviluppa, soprattutto nel continente europeo e nel Vicino e Medio Oriente, il Musteriano, nel quale alcuni autori hanno distinto, su basi tipologiche e tecnologiche, diverse facies culturali; secondo altri ricercatori, le differenze osservate riflettono piuttosto un significato funzionale o di adattamento dei gruppi umani a diversi ambienti e a diverse condizioni. Verso 35.000 anni fa, gli ultimi rappresentanti dei Neandertaliani (Homo sapiens neanderthalensis) sono i responsabili di una facies di transizione verso le culture del Paleolitico superiore, nota, in Francia, col nome di Castelperroniano, cui corrisponde, in Italia, l'Uluzziano. Nel Paleolitico superiore si distinguono altre culture come l'Aurignaziano, il Gravettiano, l'Epigravettiano, il Solutreano e il Magdaleniano, alle quali si affiancano culture coeve tipiche di aree di diffusione più ristrette. Tali sono per esempio il Romanelliano in Italia; lo Szeletiano, il Brommiano, l'Ahrensburgiano, lo Swideriano e il Pavloviano nell'Europa centro-settentrionale e orientale. Tra le principali culture paleolitiche fuori d'Europa si distinguono, in Africa, l'Olduvaiano, il Middle Stone Age e il Late Stone Age, l'Ateriano, l'Iberomaurusiano e il Capsiano. In Asia vengono distinte varie facies, tra cui l'Anyaziano in Birmania, il Soaniano in India, il Tampaniano e il Padjitaniano a Giava. Per l'America vengono ricordate specialmente le culture di Sandia, di Clovis e di Folsom per il Nord e di Fell per il Sud. Varie facies culturali, come, per citare solo alcuni esempi, l'Aziliano, il Sauveterriano e il Tardenoisiano, marcano la fine del Mesolitico nel continente Europeo. Nel Neolitico e nelle età dei metalli sono attestate numerose facies culturali. L'individuazione di queste facies, costituite dall'associazione ricorrente di determinati tipi di oggetti in determinate aree geografiche e in determinati periodi cronologici, risale alla fine del secolo scorso, come reazione degli studiosi alle tendenze evoluzioniste dei primi studi di paletnologia. Si deve a Gordon Childe la più completa sistemazione teorica del concetto di cultura preistorica. Tale termine è stato contestato, dapprima dagli studiosi sovietici, tra le due guerre, poi da quelli anglosassoni di formazione antropologica, più interessati alla ricostruzione dei modi di vita delle popolazioni preistoriche anche in base alle analogie con le popolazioni primitive attuali. Successivamente, pur conservando tale strumento metodologico per motivi di classificazione cronologica, si è teso a mettere in rilievo come alcuni aspetti di quelle che vengono comunemente definite come culture siano in realtà manifestazioni tipiche di aspetti sovrastrutturali o rituali (si veda per esempio il concetto di villanoviano, applicato anche al di fuori dell'area di distribuzione originaria di tale facies, in realtà dovuto a una più vasta diffusione di un rituale funerario, l'incinerazione, comune a molte popolazioni dell'età del Ferro dell'Italia centro-meridionale).
Etologia
Per cultura negli animali si intende quel fenomeno per cui moduli di comportamento acquisiti non per via genetica vengono trasmessi da un individuo a un altro utilizzando l'apprendimento, in modo da creare tradizioni. Si ha cioè un passaggio non genetico di informazioni entro e tra le generazioni. Vi sono vari modi per apprendere un modulo comportamentale, ma quello che è più tipicamente legato ai fenomeni di trasmissione culturale è l'apprendimento osservazionale o imitazione, per cui un animale acquisisce una certa capacità semplicemente osservando un altro individuo compiere l'azione che le è connessa, senza passare attraverso una serie di esperienze dirette basate sul metodo dei tentativi ed errori. Il fenomeno è presente nella classe degli Uccelli in specie tra loro assai diverse. Alcune specie di cince del genere Parus hanno instaurato per via culturale l'abitudine, contratta in origine solo da pochi individui, di rompere la stagnola che chiude le bottiglie del latte (lasciate abitualmente sulle soglie delle case inglesi) per rubare la panna: in breve tempo questa abitudine si è diffusa tra le cince di quelle specie in tutta l'Inghilterra. Così pure apprendimento per imitazione si ha in quelle coppie di uccelli in cui è presente il canto antifonale, cioè un tipo di duetto in cui maschio e femmina cantano una parte definita, ma imparano anche quella del partner (vedi comunicazione); anche i canti di volo di alcuni fringillidi del genere Carduelis vengono appresi attraverso imitazione. Il fringuello delle Galápagos (Geospiza difficilis) possiede una particolare abitudine trasmessa quasi certamente per via culturale. Questi uccelli si nutrono di parassiti di altri uccelli, le sule: probabilmente nel far ciò qualche individuo ha rotto incidentalmente un vaso sanguigno e ha scoperto la possibilità di nutrirsi di sangue. Il fatto è divenuto poi un'abitudine e il sangue rappresenta ormai un alimento importante per questa specie. Anche nelle scimmie è stata riscontrata la trasmissione culturale di nuove abitudini acquisite da qualche individuo; in proposito si possiede un'ampia documentazione su una popolazione di macachi giapponesi (Macaca fuscata) che vive su una piccola isola. Una di queste scimmie scoperse che le patate dolci erano più gustose se lavate e prese a farlo metodicamente; l'abitudine si estese rapidamente a buona parte della popolazione e lo stesso accadde per la seconda scoperta, quella di intingere le patate, prima di mangiarle, nell'acqua di mare, così da renderle più saporite. Altre acquisizioni, e la loro susseguente diffusione, avvennero negli anni seguenti, come quella di separare i grani di frumento, che venivano offerti loro come cibo mischiati a sabbia: la separazione viene fatta buttando il tutto in mare e, approfittando poi del fatto che il frumento galleggia, raccogliendolo pulito; oppure quella di imparare a nuotare e perfino a tuffarsi. Fenomeni del genere sono stati osservati anche nei gorilla, negli orango, nei babbuini e negli scimpanzé. In questi ultimi vi è trasmissione culturale di abitudini che coinvolgono anche l'uso di arnesi, come l'uso di stecchini per pescare fuori dai termitai le termiti, o di randelli per difendersi dai predatori. Nei gatti, la coordinazione dei moduli di caccia che portano all'uccisione dei ratti viene appresa attraverso imitazione; altri moduli di comportamento vengono trasmessi per questa via anche nei ratti e nei topi. Un'analisi approfondita della dinamica di espansione di un'abitudine che si trasmette per via culturale è stata fatta però solo per i macachi giapponesi e si è visto che l'informazione si diffonde non a caso ma secondo determinate vie: passa di solito dagli individui più anziani e di più alto stato sociale ai più giovani. Sono questi ultimi, tuttavia, i più abili a scoprire nuovi metodi per l'alimentazione e a elaborare azioni utili per il singolo individuo. I rapporti affettivi (e ciò è stato dimostrato anche nel gatto) hanno pure notevole importanza perché possa aversi trasmissione culturale. In senso più generale si è osservato che il fenomeno della trasmissione culturale è più diffuso e complesso in quelle specie che hanno un'organizzazione sociale con strutture gerarchiche e in cui vi è sovrapposizione di generazioni, cioè cure parentali prolungate. In questo modo infatti si assicura un sufficiente periodo di contatto tra gli individui adulti ricchi di esperienza e quelli giovani che sono in un periodo favorevole per l'apprendimento. La trasmissione culturale delle informazioni è per molti versi vantaggiosa rispetto a quella genetica, in quanto permette un rapido espandersi nella popolazione di ogni nuovo modulo di comportamento che abbia un valore positivo per l'adattamento. Questa rapidità è dovuta al fatto che mentre la trasmissione genetica è legata alle barriere di parentela e di generazione, la trasmissione culturale le scavalca. Inoltre, con l'apprendimento osservazionale l'individuo può accumulare un grande numero di informazioni senza partire da zero, ma utilizzando l'esperienza altrui.
Per la cultura in generale
R. Benedict, Modelli di cultura, Milano, 1961; B. Malinowsky, A Scientific Theory of Culture, Milano, 1962; F. Tessitore, Storiografia e storia della cultura, Bologna, 1990.
Per l'etnologia
C. Levi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, Torino, 1967; E. B. Tylor, Primitive Culture, Londra, 1971.
Per la sociologia
P. Sorokin, Society, Culture and Personality, New York, 1947; A. L. Kroeber, C. Kluckhohn, Culture: A Critical Review of Concepts and Definitions, Cambridge, 1952; A. R. Radcliffe-Brown, Structure and Function in Primitive Society, Londra, 1952; J. J. Honigmann, Culture and Personality, New York, 1954; R. König, Soziologie, Francoforte sul Meno, 1958; D. Hebdige, Sottocultura, Genova, 1983; R. Bastide, Noi e gli altri. I luoghi d'incontro e di separazione culturali e razziali, Milano, 1990.
Per le culture preistoriche
V. G. Childe, I frammenti del passato, Milano, 1960; G. Filip, Manuel encyclopédique de préhistoire et prothoistoire européennes, Praga, 1966; L. Clarke, Analytical Archaeology, Londra, 1968; H. Müller-Karpe, Introduzione alla preistoria, Roma-Bari, 1979; C. Grahame, La preistoria del mondo, Milano, 1989.