La formazione giovanile

Poeta italiano (Recanati 1798-Napoli 1837). Sulla formazione della sua personalità di pensatore e di poeta molto si è detto. Anche respingendo le tesi positivistiche, e soprattutto le facili interpretazioni psicologiche, non si può fare a meno di riconoscere che l'ambiente familiare e provinciale in cui Leopardi visse e lo stato di salute che lo angustiò per tutta la vita dovettero avere su di lui un peso non indifferente, anche se non determinante. L'ambiente familiare era quello di una piccola e antica nobiltà di provincia, chiusa e altezzosa, che reagiva ostilmente al grande rinnovamento intellettuale e sociale europeo della fine del sec. XVIII. Il padre, Monaldo, incapace quasi per obbligo di casta di amministrare il patrimonio familiare, tanto che fu soppiantato dalla moglie, la marchesa Adelaide Antici, nel governo della casa, si dilettava di studi umanistici, e fu uno dei primi maestri del figlio, che apprese da lui quella erudizione accademica dalla quale presto si distaccò. La madre si dimostrò, forse non con l'intensità con la quale è dipinta nello Zibaldone (novembre 1820), fredda in un chiuso egoismo, in un pedante bigottismo, per cui nacque nel poeta, alle soglie dell'adolescenza, una sorta di torpido rancore, provocato da un tipo di educazione dei sentimenti troppo lontana dalla naturale spontaneità. Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro passò tuttavia una infanzia felice coi due fratelli di poco più giovani, Paolina e Carlo; a nove anni fu affidato a un precettore, don Sebastiano Sanchini, che forse si accorse subito di avere a che fare con un bambino precoce, dotato di grande fantasia e curioso dell'erudizione umanistica, filosofica e scientifica, sia pure antiquata, che il padre e il maestro gli proponevano, e lo vide stendere i primi versi non privi di garbo poetico. Alla fine, nel 1812, il buon prete si dichiarò onestamente incapace di apportare alcunché di nuovo allo straordinario bagaglio conoscitivo del discepolo. Durante questo primo periodo, prevalse in Leopardi il gusto per la ricerca filologica: conosceva perfettamente il latino, il francese e il greco, studiava l'ebraico, l'inglese, lo spagnolo; traduceva, commentava, compiva revisioni critiche di testi inesplorati, tanto da stupire famosi filologi e storici italiani e stranieri, pur mostrando sempre il segno di un'erudizione aneddotica e accademica di stampo settecentesco. A quindici anni terminò una Storia dell'astronomia (1813), un'opera di compilazione che possiede appunto le caratteristiche di una straordinaria erudizione, ma due anni più tardi il Saggio sopra gli errori degli antichi (1815) mostra già una diversa maturità e una più personale costruzione. Aveva continuato intanto a comporre versi, affrontando ogni genere di componimento (notevole il sonetto La morte di Ettore, 1809), le due tragedie Virtù indiana e Pompeo in Egitto (1812), insieme a prose oratorie e accademiche, come il Dialogo filosofico (1812), un Discorso sopra l'epigramma, l'orazione Agli Italiani per la liberazione del Piceno (1815), che è un indice della sua adesione ai principi reazionari del padre, un inno al dispotismo illuminato. Il noviziato letterario di Leopardi terminò tra il 1815 e il 1816: avvenne in questo scorcio di tempo quella che egli stesso definì la sua conversione letteraria, dopo uno “studio matto e disperatissimo” che aveva cominciato a minare la sua salute. Fu proprio attraverso lo studio dei classici che si accorse dello splendore di certi autori prima disprezzati: Dante, Omero, del quale tradusse il I canto dell'Odissea, Mosco, del quale tradusse gli Idilli (1815), Virgilio, del quale tradusse il II dell'Eneide, Esiodo, gli alessandrini. Attraverso queste esercitazioni raggiunse una perfezione di stile tale da ottenere la fama fra i letterati del tempo: Pietro Giordani, che fu il suo primo vero amico, era ammirato di questo giovanissimo filologo “d'una grandezza smisurata, spaventevole”, ma non comprendeva il poeta che aveva già composto le Rimembranze e l'Appressamento della morte, il cui esordio, molto elaborato, entrò poi a far parte dei Canti, e l'Elegia I, che fece anch'essa parte dei Canti col nuovo titolo Il primo amore, manifestazione evidente di una sensibilità nuova, tuffata nella realtà degli affetti.

L'avvicinamento al romanticismo

Pochi anni più tardi avvenne la conversione filosofica di Leopardi, il trapasso cioè dalla letteratura alla filosofia, dalla poesia dell'immaginazione a quella dei sentimenti. L'iniziazione a questo trapasso fu di natura romantica; ve lo condussero infatti le letture della Vita di Alfieri, dell'Ortis, del Werther, di Chateaubriand, di Madame de Staël, delle poesie di Berchet, delle teorie del di Breme. Si manifestò a quel punto in Leopardi una crisi di ripulsa del mondo gretto che lo circondava, avvertibile nelle lettere a Giordani, specialmente quelle tra il 1817 e il 1819; crisi che esplose nel 1819 quando, agli altri mali che lo tormentavano, non ultima un'“ostinata, nera, orrenda, barbara malinconia”, si aggiunse una malattia agli occhi, che gli precluse anche la gioia della lettura e del lavoro. Di quell'anno è il tentativo di fuga da Recanati, la scoperta della “vanità di tutte le cose”, il “solido nulla”, il primo orientamento della sua poetica, del suo “sistema” filosofico, come alcuni lo chiamano impropriamente. Da quell'anno vita e opera leopardiane procederanno di pari passo. Il permesso concessogli dal padre nel novembre del 1822 di soggiornare per qualche tempo a Roma, in casa dello zio Carlo Antici, servì soltanto a rafforzare nell'animo di Leopardi il suo pessimismo. Tornato deluso a Recanati nell'aprile dell'anno successivo – la più profonda emozione la provò davanti al sepolcro di Tasso – vi restò fino al luglio del 1825 e in questo periodo stese le Operette morali, dialoghi e prose filosofiche sulla natura, la morte, il dolore, la felicità, la noia, diciotto delle ventiquattro che pubblicherà nel 1827, abbozzate quattro anni prima.

Il concetto di dolore

Nel 1824 analizzò con spietata acutezza il concetto rousseauiano, che aveva accettato con entusiasmo qualche anno prima, della natura madre dispensatrice di felicità agli uomini, finché la ragione, distruggendo le illusioni, non li getta in una condizione di cosciente dolore. Alla luce delle sue nuove esperienze, fu costretto a modificare le sue convinzioni, dando loro una forma più rigorosa e cruda: la natura non è affatto una madre benigna, preoccupata del bene delle sue creature, ma anzi una matrigna che “per necessità della legge di distruzione e riproduzione, e per conservare lo stato attuale dell'universo, è essenzialmente regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gli individui d'ogni genere e specie, ch'ella dà in luce, e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui li ha prodotti”. Dal concetto di “dolore personale”, il poeta passò a quello di “dolore collettivo” e a quello di “dolore storico”, prodotto della civiltà e del progresso, fino a giungere alla consapevolezza di un “dolore cosmico”, che è suggerito poeticamente nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Dai presupposti della filosofia sensistica del Settecento, Leopardi si spinse verso un concetto di assoluto materialismo (Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco), dove “tutta la storia dell'universo è rappresentata come un processo di successive trasformazioni della materia eterna” (Sapegno). Era quello il tempo in cui Leopardi scriveva quasi soltanto in prosa. Aveva composto tra il 1817 e il 1819 le prime due canzoni All'Italia e Sopra il monumento di Dante, ispirate dall'entusiasmo patriottico suscitato dall'incontro, avvenuto per merito di Giordani, con alcuni carbonari; aveva scritto tra il 1819 e il 1821 i primi Idilli (L'infinito, Alla luna, La sera del dì di festa), poi la canzone Ad Angelo Mai (1820), Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel gioco del pallone, Bruto minore (1821), l'Ultimo canto di Saffo, Inno ai Patriarchi – che è l'unico esempio di poesia religiosa leopardiana, di tante che ne aveva progettate – e Alla Primavera (1822). Dopo la parentesi delle Operette, periodo in cui compose una sola canzone (Alla sua donna, 1823), cominciò per il poeta una parentesi di vita attiva, tra Milano, Bologna, Firenze e Pisa. L'editore Stella, che già nel 1816 gli aveva proposto di collaborare al suo periodico Lo spettatore italiano e straniero, gli affidò il commento al Canzoniere petrarchesco (1823), le due Crestomazie di prosatori e poeti italiani d'ogni tempo, le versioni degli scritti di Isocrate e di Epitteto. Leopardi si aiutava anche dando lezioni di latino e greco. A Firenze, alle riunioni di Vieusseux, incontrò alcuni amici che, sia pure reagendo in modo diverso alle sue concezioni, lo aiutarono concretamente: Capponi, Ranieri, Colletta, Poerio, Gioberti; altri che gli furono ostili, come Tommaseo, o reticenti, come Manzoni e Stendhal. A Bologna s'innamorò della contessa Teresa Carniani Malvezzi, che lo respinse sdegnosamente: è questa la prima volta che Leopardi esprime in maniera manifesta i suoi sentimenti; prima di allora erano stati fuggevoli invaghimenti, forse soltanto immaginazioni poetiche: per la cugina Gertrude Cassi Lazzeri, giovane sposa, ospite per due giorni a Recanati, che ispirò al poeta l'elegia Il primo amore; per Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere, morta di tisi nel 1818, che gli ispirò la splendida canzone A Silvia; poi Maria Berardinelli, la tessitrice che rivive forse nella figuretta di Nerina de Le ricordanze. Infine l'altra bruciante delusione, la più atroce, forse, perché la donna, Fanny Targioni Tozzetti, durante il soggiorno fiorentino, lo illuse e lo derise per lungo tempo.

Gli ultimi capolavori

Nel 1828 si rifugiò a Pisa, angustiato dal freddo di Firenze, e in quella città che amava si risvegliò la sua vena poetica (solo nel 1825 aveva rotto il silenzio con l'epistola Al conte Carlo Pepoli): scrisse Il risorgimento e A Silvia; rifiutò l'offerta di una cattedra all'Università di Bonn o di Berlino e tornò a Recanati per l'ultima volta nel novembre 1828 accompagnato da Gioberti, che fu il primo a capire e a mettere in risalto la grandezza della sua poesia: “sedici mesi di una notte orribile”, durante i quali, però, nacquero Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia e forse anche Il passero solitario. Nell'aprile del 1830 gli “amici fiorentini” gli vennero in aiuto, e Colletta con molto garbo gli propose di accettare un “prestito” che gli consentisse di restare ancora un anno a Firenze, a patto che curasse l'edizione definitiva dei Canti. Leopardi acconsentì e l'anno successivo pubblicò ventitré liriche, le cui bozze vennero corrette da Ranieri: data da quei giorni la loro fraterna amicizia, che si trasformò presto in comunanza di vita. Fino al 1833 Leopardi restò a Firenze: l'amore infelice per Fanny Targioni Tozzetti ispirò al poeta il breve “ciclo di Aspasia” (Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo, A se stesso, Aspasia). Ottenuto un assegno mensile dalla famiglia, nel settembre del 1833 Leopardi seguì Ranieri a Napoli e godette di qualche periodo di serenità, curato dalla sorella dell'amico, Paolina, tanto che poté riprendere il lavoro, spesso interrotto dalle crisi d'asma. Terminò così i Paralipomeni della Batracomiomachia, l'opera con la quale satireggia la vita del nuovo secolo, “secol superbo e sciocco”; scrisse la Palinodia al marchese Gino Capponi (1834-35), con la quale finge di ritrattare i suoi principi pessimistici; ripubblicò i Canti con aggiunte e correzioni (1835) e nello stesso anno compose La ginestra. Per salvaguardarsi dall'epidemia di colera scoppiata a Napoli, nell'aprile del 1836 i due amici si rifugiarono in una piccola villa sulle pendici del Vesuvio, tra Torre del Greco e Torre Annunziata. Durante uno dei ritorni in città, Giacomo fu assalito da un'altra crisi d'asma e morì quasi all'improvviso la mattina del 14 giugno 1837. Ranieri lo fece tumulare clandestinamente nella piccola chiesa di S. Vitale per eludere le rigorose leggi igieniche che imponevano la fossa comune; Giordani dettò l'epigrafe. Nel 1938 la salma fu traslata nel Parco Virgiliano, a Posillipo, accanto alla tomba di Virgilio. Leopardi è con Foscolo il poeta italiano moderno che ha maggiormente stimolato l'interesse degli uomini di cultura, e la varietà di giudizi è appunto un indice della straordinaria complessità del personaggio. È stato scoperto dapprima il Leopardi filologo-erudito, poi il filosofo, il precursore degli “ermetici”, il progressista: di particolare interesse, per quest'ultimo aspetto, gli studi di S. Timpanaro, che ha dimostrato come il progressismo scientifico di Leopardi, risolvendosi in una lotta per liberare l'uomo dal pregiudizio, sia intimamente connesso con il progressismo politico-sociale. A questa evoluzione di giudizi contribuì la pubblicazione postuma di altri scritti leopardiani che, pur non possedendo un valore artistico e speculativo autonomo, costituiscono un documento essenziale per ricostruire la storia della sua attività di poeta e di prosatore: i Cento undici pensieri (postumo; 1845), l'Epistolario, che fu pubblicato in parte da P. Viani nel 1849, e infine lo Zibaldone – cioè l'insieme degli appunti fissati dal poeta tra il 1817 e il 1832 – pubblicato fra il 1898 e il 1900 da una commissione presieduta da Carducci che l'intitolò Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura (7 vol.).

Bibliografia

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