Dalle origini al XVII secolo

Nell'opera confluiscono, stabilendo equilibri di volta in volta diversi, musica, poesia, scenografia, danza, recitazione. Nel Medioevo e nel Rinascimento esistevano forme di spettacolo con musica (dai drammi liturgici alle sacre rappresentazioni, alle feste teatrali e agli intermedi), ma l'opera propriamente detta nacque solo quando fu chiaro il fine di realizzare un dramma attraverso la musica e il canto, che dovevano avere una funzione primaria nella definizione dei personaggi e delle situazioni. In tal senso alle origini dell'opera si collocano le ricerche condotte negli ultimi due decenni del Cinquecento dalla Camerata dei Bardi o Camerata fiorentina, soprattutto nel circolo che faceva capo a J. Corsi. A esso appartenevano Peri e Rinuccini, autori del primo melodramma, Euridice, nato sotto il segno di un'aspirazione a una mitica rinascita della tragedia greca, e concretamente vicino all'impostazione teatrale del dramma pastorale. Rappresentato nel 1600 alla corte medicea per il matrimonio di Maria de' Medici ed Enrico IV di Francia, fu seguito da analoghe esperienze presso altre corti o ambienti patrizi italiani, a Mantova e Venezia, dove operò Monteverdi, e a Roma con i fratelli Domenico e Virgilio Mazzocchi, Abbatini, Marazzoli. Già con Monteverdi il “recitar cantando” delle prime esperienze fiorentine assunse i caratteri di un recitativo che, pur nel rigoroso rispetto della parola e delle ragioni drammatiche, si definì con più complessa autonomia musicale. Questa evoluzione proseguì nel corso del Seicento, mentre mutò il carattere dei libretti che, abbandonata la linearità pastorale degli inizi, si fecero sempre più densi delle componenti più svariate, desunte dalla storia, dalla mitologia, da molteplici fonti letterarie moderne, con spregiudicate mescolanze di serio e di comico, con ampi pretesti per fastosi effetti scenografici. Tra i maggiori successori di Monteverdi furono F. Cavalli, A. Cesti, A. Stradella, autori di opere che uscirono dai salotti patrizi e dalle corti per rivolgersi a vasti pubblici paganti. Infatti nel 1637 a Venezia era stato aperto il primo teatro per un pubblico pagante, cui, in un breve volgere di anni, se ne aggiunsero altri.

Dalla fine del XVII al XVIII secolo

Al gusto composito che dominò la seconda metà del Seicento (al quale contribuirono anche libretti di A. Scarlatti, una delle maggiori figure a cavallo fra i due secoli) reagirono A. Zeno e soprattutto Metastasio, i cui 27 melodrammi (1723-71) ebbero tale fortuna da essere musicati in ca. 900 opere. Riportando l'opera a maggior dignità letteraria, Metastasio finì per sancire definitivamente la separazione tra musica e dramma, confinando l'azione nei recitativi (che venivano per lo più liquidati sbrigativamente dai compositori con un formulario convenzionale) e facendo sì che l'interesse musicale si concentrasse nelle arie. L'opera seria settecentesca, dominata dalla scuola napoletana, si configurò di fatto come un'antologia di arie, concepita secondo principi profondamente diversi da quelli del dramma musicale moderno, ma non per questo degna delle sbrigative condanne di cui questa civiltà musicale fu un tempo oggetto: nei due Antonio Maria e Giovanni Battista Bononcini, in Porpora, in Händel (che scrisse opere nello stile italiano), in A. Scarlatti, e poi in L. Vinci, L. Leo, Pergolesi, Hasse, e infine in Jommelli, Traetta, De Maio, sensibili a esigenze di rinnovamento, si ravvisano valori musicali altissimi. Nell'evoluzione dell'opera ebbe un peso essenziale il parallelo definirsi di un gusto e di una tecnica vocale che conobbero il loro massimo fulgore con la voga dei castrati: si ebbe allora l'esplosione virtuosistica del “bel canto”. Anche negli altri Paesi l'opera italiana conobbe immediato successo e vasta diffusione: Vienna ne divenne uno dei centri maggiori; nell'area tedesca la suggestione dell'opera italiana si concretò nei vari tentativi di Schütz di creare un'opera nazionale, e nelle esperienze amburghesi di R. Keiser; anche in Inghilterra, un capolavoro come Dido and Aeneas (1689) di Purcell rimase un fatto isolato. Un'autonoma tradizione nazionale nacque invece in Francia a opera di Lulli, che definì la tragedie-lyrique come composito incontro di musica, poesia e danza, iniziando un genere che conobbe una significativa evoluzione con M. A. Charpentier e Rameau. Dopo la metà del Settecento il tedesco Gluck fece proprie le istanze di rinnovamento dell'opera seria italiana, che egli condusse a organica unità drammatico-musicale, e agì in modo determinante anche all'interno della tradizione francese. Altro essenziale fattore del superamento dell'opera seria fu la crescente affermazione dell'opera buffa. Con minore rilievo si sviluppò nel Settecento francese l'Opéra-Comique che mescolava musica e recitazione, con Dalayrac, Philidor, Monsigny, Grétry. Le varie istanze di superamento dell'opera seria accompagnarono una profonda trasformazione del gusto e della coscienza civile del pubblico: dalla fine del Settecento il rapporto tra situazione storica e trasformazione del gusto operistico si fece anche più diretto, mentre si affermavano, anche nel teatro lirico, il romanticismo e la concreta esigenza di un'opera nazionale, lontana dall'astrattezza cosmopolita di quella metastasiana. Diversi furono dunque nei vari Paesi gli sviluppi dell'opera ottocentesca, nonostante l'importanza dei rapporti reciproci.

Il XIX secolo: l'opera in Italia

Lento fu in Italia il superamento dell'opera settecentesca: di fatto compositori come Cherubini e Spontini si ridussero a operare all'estero portando avanti la linea di rinnovamento gluckiana. Tra le varie istanze di rinnovamento che si delinearono in Italia all'inizio dell'Ottocento vi fu quella di S. Mayr, ma su tutte emerse l'esperienza di Rossini che dominò per alcuni decenni le scene europee. Egli conferì una nuova dimensione all'opera buffa, facendone esplodere le strutture e conducendo a un punto conclusivo la tradizione settecentesca del genere; ma operò profondi rinnovamenti anche nell'opera seria, dove, pur rimanendo fedele al “bel canto” e mantenendo alcuni aspetti legati a un gusto neoclassico e sostanzialmente conservatore, preannunciò chiaramente il melodramma romantico; e con le ultime opere francesi (Guillaume Tell, 1829) approdò infine al grand-opéra. Un'ultima singolarissima incarnazione del “bel canto” si ebbe nel romanticismo di Bellini e nella sua ricerca di continuità drammatica che giunse con Norma (1831) all'esito più compiuto. Se Donizetti, e in minor misura Mercadante, segnano il momento della compiuta assimilazione dei temi del romanticismo europeo, con Verdi si tocca il vertice drammaturgico-musicale dell'Ottocento italiano. Egli diede voce agli ideali risorgimentali nel momento della loro crescita e affermazione in una prospettiva chiaramente popolare. E alla fine della sua lunga evoluzione, venute meno le basi spirituali del suo mondo nella trasformata società italiana, seppe cogliere con vigile attenzione la nuova situazione. Alla fine dell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento si ebbero poi il dignitoso epigonismo di Ponchielli, le velleità innovatrici di A. Boito, le inquietudini e le generiche istanze di rinnovamento di Catalani e la “giovane scuola”, dei “veristi” Mascagni, Leoncavallo, Giordano, Cilea, che guardarono essenzialmente a modelli francesi dando voce schietta ai limiti provinciali della cultura musicale italiana del tempo. L'interprete più intelligente e aggiornato degli ideali della borghesia italiana, a cavallo tra i sec. XIX e XX, fu Puccini.

Il XIX secolo: l'opera in Francia

In Francia Cherubini, ricollegandosi a ideali gluckiani, perseguì una nuova dimensione drammatica (specie in Medea, 1797) ; in età napoleonica si affermò l'opera di Spontini, in cui il gusto aulico e magniloquente si unisce ad aspetti già propriamente romantici. Dal 1830 ca. prevalse il gusto del grand-opéra, che trovò il suo più significativo rappresentante in Meyerbeer e nel suo eclettismo. Isolati restarono i capolavori teatrali di Berlioz, mentre una vena di rinnovata freschezza animava l'Opéra-Comique con Boïeldieu, Auber, Adam, Isouard. Dopo la metà del sec. XIX il superamento del grand-opéra e della sua retorica spettacolare nella dimensione più raccolta e borghese dell'opéra-lyrique fu realizzato da Gounod e proseguito con esiti di compiuta autenticità da Massenet. La voga del gusto esotico di certe opere di Delibes, Saint-Saëns, Lalo e dello stesso Massenet trovò ben altra incarnazione nella Carmen (1875) di Bizet, la cui violenza drammatica e nettezza di segno rivelano un'eccezionale carica innovatrice.

Il XIX secolo: l'opera in Germania

In Germania la nuova opera nazionale romantica poté porre le proprie radici nel Singspiel e nei capolavori che Mozart col Flauto magico (1791) e Beethoven col Fidelio avevano creato servendosi di questo genere. A definire l'opera romantica tedesca e il clima magico-fantastico e popolare che essa prediligeva furono innanzitutto i capolavori di Weber, a iniziare dal Franco cacciatore (1821). Accanto a lui bisogna ricordare E.T.A. Hoffmann, Spohr, Marschner e Schumann, mentre nell'opera comica emersero Lortzing e O. Nicolai; alle generazioni successive appartennero le esperienze teatrali di Cornelius, Humperdinck e Wolf nella seconda metà del secolo. Alla tradizione dell'opera romantica si riallacciò, per trarne ben diverse conseguenze, R. Wagner, che ne riprese tra l'altro l'intensa esigenza di unità drammatica e il rilievo assunto dall'orchestra per farne un uso più radicale alla luce di una rivoluzionaria visione della musica e del dramma musicale che andò progressivamente definendosi da Lohengrin (1846-48) all'Anello del Nibelungo (1853-74) . Alla tecnica del Wort-Ton-Drama wagneriano si rifece R. Strauss volgendola a temi poetici e a esiti profondamente diversi, intimamente legati alla situazione della Germania guglielmina.

Il XIX secolo: l'opera in Russia e nei Paesi slavi

Dominata fino ai primi decenni dell'Ottocento dal teatro musicale italiano e francese, la Russia vide nascere una propria opera nazionale con Una vita per lo zar (1836) di Glinka. Al suo esempio si ricollegarono idealmente Dargomyzskij e il Gruppo dei cinque, che mossero alla ricerca di un linguaggio rinnovato attraverso l'assimilazione del canto popolare russo, puntando inoltre su soggetti di carattere nazionale e sul superamento delle forme del melodramma tradizionale. Gli esiti più alti si ebbero in Musorgskij, rivoluzionario nell'impostazione del declamato, costantemente alla ricerca di un realismo adeguato alla non convenzionalità dei suoi temi politici; in Borodin e in Rimskij-Korsakov, incline a favolistiche evocazioni di mirabile intensità e varietà coloristica. Non può essere catalogato esclusivamente come atteggiamento mutuato dalla tradizione occidentale il malinconico lirismo di Cajkovskij; mentre all'Europa guardarono decisamente conservatori quali Rubinstein e Serov. § Tra gli altri Paesi slavi si distinse in particolare la Cecoslovacchia, dove l'opera nazionale venne a interpretare istanze di indipendenza. Essa toccò i primi grandi esiti con Smetana, cui seguirono Dvorák e infine Janácek, la cui problematica si inserisce nella storia dell'opera del Novecento.

Il XX secolo

Nel sec. XX non è più possibile parlare di scuole e tradizioni operistiche nelle quali si riflettano organicamente atteggiamenti morali, esigenze e ideali di un pubblico. Di conseguenza l'opera è un problema cui ciascuno dà caso per caso una risposta individuale, per lo più irripetibile. Ciò non significa che dopo Pelléas et Melisande di Debussy, che per molti aspetti è la prima opera del Novecento, non si siano più prodotti capolavori: il teatro musicale di Berg e Schönberg e, in altra direzione, quello di Stravinskij annoverano esiti altissimi; né si possono ignorare le opere di Sostakovic, Prokofev, Ravel, Hindemith, Weill, G. F. Malipiero, di certo Britten, ma tutte recano il segno di un'impostazione personalissima e problematica. Altrettanto si può dire per Dallapiccola e Petrassi, e a maggior ragione per le esperienze del dopoguerra, in complesso tese a recuperare una dimensione teatrale al di fuori dell'opera propriamente detta (cui pure si sono rivolti con intenti diversi Berio, Nono, Bussotti, Manzoni, Pousseur). È solo a partire dagli anni Ottanta che si è manifestata la tendenza al ritorno verso l'opera in senso tradizionale, tendenza alla quale si sono mostrati interessati, soprattutto in Italia, tutti i principali esponenti delle ultime generazioni.

L'opera nel cinema

L'opera filmata (film-opera) è divenuta un genere cinematografico-musicale che riproduce più o meno liberamente sullo schermo un'opera lirica o un'operetta e, comunque, ne rispetta fedelmente il clima. Non mancano esempi neppure all'epoca del muto, quando si suppliva alla musica e al cantato con dischi sincronizzati, processi fotoelettrici e altri accorgimenti. Tuttavia i pionieri tedeschi (O. Messter per l'opera, E. Lubitsch per l'operetta) si accontentavano della pura e semplice trascrizione in immagini dei testi. Col sonoro il genere esplose nella forma completa. In Italia, patria del melodramma, C. Gallone fu il regista che gli dedicò gran parte della sua attività, prima con opere da lui dette “parallele”, interpretate da cantanti (B. Gigli, la Cebotari, T. Gobbi, ecc.), poi con autentiche opere filmate, da Rigoletto (1947) a Madame Butterfly (1955). Suoi imitatori furono tra gli altri C. Mastrocinque, C. Fracassi, M. Costa, ecc., fino allo stesso Rossellini (Giovanna d'Arco al rogo, 1954). I film potevano essere interpretati da cantanti veri oppure da attori (per esempio Sophia Loren, Gina Lollobrigida) doppiati da cantanti. Un sorprendente film-opera, The Robber Symphony, che rovesciava il procedimento perché il regista era lo stesso compositore che “componeva” appositamente per lo schermo, venne realizzato da F. Feher nel 1935 in Gran Bretagna, che coltivò il genere anche con M. Powell ed E. Pressburger (I racconti di Hoffmann, di Offenbach, 1951) e P. Czinner (Don Giovanni di Mozart, 1955), mentre La sposa venduta di Smetana fu filmata in Germania nel 1932 da M. Ophüls e in Cecoslovacchia nel 1933 da V. Vancura. Ma il capolavoro venne dall'URSS: il Boris Godunov di Musorgskij cinematografato nel 1955 da Vera Stroeva con eccezionale cura nell'allestimento scenico e musicale ed enorme rispetto del ritmo del film. A tali presupposti si sono ispirati nel 1974 I. Bergman in Svezia per Il flauto magico di Mozart, J.-M. Straub e D. Huillet in Italia e Austria per Mosé e Aronne di Schönberg, J. Losey per il Don Giovanni di Mozart (1979) e F. Rosi per Carmen di Bizet (1984). Negli USA invece si possono ricordare i due film all-negro del viennese O. Preminger: Carmen Jones (1954) e Porgy and Bess (1959), rispettivamente da Bizet e da Gershwin. E proprio negli USA fiorì, portatavi da Lubitsch già negli anni Venti del sec. XX e poi sviluppata magistralmente nel periodo aureo del primo sonoro (da Il principe consorte, 1930, a La vedova allegra, 1934), la cine-operetta interpretata e cantata da M. Chevalier e da Jeannette MacDonald, la quale proseguì in coppia con l'attore-baritono N. Eddy una serie ormai sdolcinata. Ma la sede per così dire naturale fu la Mitteleuropa (Austria, Germania, Ungheria), che offrì un piccolo classico nel 1931 con Il Congresso si diverte di E. Charell, una stella in Lilian Harvey, una coppia in Martha Eggerth e Jan Kiepura, altre attrici in A. Ondra, K. von Nagy, J. Jugo, F. Gaál, M. Rökk, e un regista in W. Forst da Bel Ami (1939) a Sangue viennese (1942). Negli USA del dopoguerra, il genere si è andato trasformando nella musical comedy.

Bibliografia

J. Gregor, Kulturgeschichte der Oper, Vienna, 1941; D. J. Grout, A Short History of Opera, Oxford, 1947; R. Leibowitz, Histoire de l'Opéra, Parigi, 1957; H. H. Stuckenschmidt, Oper in dieser Zeit, Hannover, 1964; J. D. Grout, Breve storia dell'opera, Milano, 1985.

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